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    Possiamo scrivere nuove «lettere a Filemone»?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1997-01-5)


    Filemone aveva una bella casa, grande e accogliente, un gruzzolo di quattrini che gli permetteva di farla funzionare a dovere, e, come ogni signore che si rispetti, i suoi bravi schiavi, che lo servivano e lo riverivano. Paolo l’aveva convertito al cristianesimo in uno dei suoi viaggi. Con la conversione non aveva cambiato né casa né abitudini. Si era tenuto i suoi schiavetti e si godeva i suoi soldi, anche perché i primi li aveva comprati a prezzo giusto e i secondi se li era guadagnati onestamente. Al ritmo normale della sua vita aveva solo aggiunto qualche impegno di più... Era diventato ancora più onesto negli affari, faceva tutte le elemosine che poteva, amava le persone che incontrava e trattava non troppo male i suoi schiavi. La sua casa, poi, era ormai la casa di tutti i cristiani del posto e di quelli che passavano da quelle parti. Lì si radunavano a pregare, a mangiare un boccone e a fare un po’ di festa. Come si usava a quei tempi, nella sua casa veniva anche celebrata l’eucaristia della comunità. Riunione, festa e celebrazione eucaristica erano d’obbligo quando da quelle parti passava Paolo. Filemone lo considerava un padre, nel senso pieno della parola. Non c’entrava niente con i suoi genitori, ma Paolo gli aveva fatto scoprire la gioia del Risorto, gli aveva spalancato il cuore alla vita. Veramente, l’aveva generato nello spirito... ed è la cosa che conta di più. Aveva proprio il diritto di chiamarlo suo padre. Anche quella sera, per festeggiare il passaggio di Paolo in zona, nella casa di Filemone si era radunata molta gente. Avevano mangiato una cena da gran festa. Poi, finito di mangiare, erano partiti i ricordi. Paolo era al centro della conversazione. Parlava della sua esperienza di Gesù, della grande passione che lo portava in giro per il mondo, tra rischi e pericoli d’ogni sorta, per annunciare il Vangelo a tutti. Non poteva tacere la novità degli ultimi tempi: i nemici di Paolo aumentavano, si sentiva minacciato. I suoi antichi compagni di religione non gli perdonavano davvero il cambio di bandiera. Pazienza... rinunciare allo zelo di ogni buon fariseo... ma mettersi a proclamare con foga che la legge non serve più a dare vita e speranza, perché solo in Gesù possiamo essere liberi e salvi... Con idee del genere, una brutta fine non gliela toglieva nessuno: era solo questione di giorni o di opportunità. Anche quella sera, come era capitato altre volte, prima dell’ultimo saluto, Paolo consacra il pane e il vino e lo distribuisce ai commensali. Nel pane condiviso il ricordo del Crocefisso risorto diventa evento di salvezza per tutti e impegno di responsabilità nuove. In questo gesto, solenne e speciale, i cristiani sanno di obbedire all’invito di Gesù, ripetendo l’esperienza che Gesù aveva vissuto in quella cena famosa, l’ultima consumata con i suoi discepoli.
    La storia di Filemone assomiglia a quella di tanti altri cristiani: ci svela uno spaccato importante della vita delle prime comunità ecclesiali. Quella sera, però, è successo un imprevisto. Esso offre a Paolo l’occasione di scrivere un biglietto di raccomandazione, tanto importante, da farci venire la voglia di continuare a scrivere anche oggi cose del genere.
    Con un po’ di fantasia, non facciamo fatica ad immaginare cosa è capitato quella sera di tanto sconvolgente.
    Filemone aveva molti schiavi. Nessuno gli aveva contestato il diritto di tenerseli: né prima né dopo la conversione.
    Di uno di loro sappiamo anche il nome: Onesimo. È il protagonista dell’avvenimento che ha dato origine alla lettera di Paolo a Filemone.
    Paolo parlava. Gli invitati lo ascoltavano con devota attenzione. Diceva delle cose bellissime. Tutti pendevano dalle sue labbra. Gli schiavi, invece, pensavano al loro lavoro. Avevano solo fretta di arrivare alla conclusione della serata. Dovevano sparecchiare, ripulire e ordinare la casa. Domani mattina doveva essere lucida e splendente, come sempre. Stava facendosi ormai notte fonda e si allontanava il tempo del riposo meritato.
    Ad un certo punto però Onesimo si ferma di colpo. «Che cosa sta dicendo Paolo?». «Dai, Onesimo, sbrigati», lo sollecita un compagno di sventura. «Fammi ascoltare bene. Abbi pazienza. . . ma non voglio perdere questo passaggio». Diceva Paolo: «Gesù, nella sua morte e risurrezione, ha distrutto il muro che teneva separati gli uomini tra loro. Adesso, non ci sono più né greci né giudei, né uomini né donne. . . non ci sono più né schiavi né liberi. Siamo tutti fratelli, nell’amore che Dio ci porta».
    Le parole di Paolo risuonano sempre più forti nel cuore di Onesimo. «Non ci sono più né schiavi né uomini liberi. . . siamo tutti fratelli, tutti figli dello stesso Padre che sta nei cieli».
    Non ne può più. Lui è schiavo. Il ricordo della libertà è lontano, legato ad una terra sperduta ai confini del mare. Non può restare in questa situazione. Se Dio lo ama, ha diritto alla libertà.
    È ormai notte fonda. Tutti dormono. Si alza dal suo giaciglio e scappa. Vuole godere della libertà che Dio gli ha regalato.
    Scappa, di corsa, lontano dalla casa di Filemone... Verso dove? La sua casa, quella piena di libertà, è irraggiungibile. Non sa dove andare. Si ricorda di Paolo. Sa che è rimasto in città. Corre da lui. Lo tira giù dal letto. Si presenta: «Sono Onesimo. Ero schiavo nella casa di Filemone. Sulle tue parole ho cercato la libertà. Sono qui».
    Si aspettava di tutto. Ma le parole di Paolo... quelle proprio no, davvero. Paolo lo rimprovera duramente: «Non si può. Gli schiavi devono obbedire ai loro padroni. Devi ritornare subito da Filemone. Subito».
    «Ma tu hai affermato che non ci sono più né schiavi né uomini liberi. Siamo tutti liberi. Dio ci ha liberati. E allora?».
    La risposta di Paolo lo butta in un mare di amarezza. «È vero... questo è il progetto di Dio. Gesù l’ha realizzato tutto. Ma ora sta solo germinando... come un piccolo seme. Devono passare ancora lunghi inverni prima che il seme fiorisca in albero grande. Dobbiamo attendere: con pazienza. Onesimo, devi tornare».
    «Non posso. Filemone mi punirebbe. La legge prevede la morte per lo schiavo che fugge. Non posso».
    Paolo non ha dubbi. «Filemone è un bravo cristiano. Poi. . . mi vuole bene e ha tanti debiti nei miei confronti. Non ti preoccupare. Ti scrivo un biglietto di raccomandazione. Torna da Filemone con il mio biglietto e vedrai che tutto si metterà per il meglio. Mi raccomando però: obbedienza e rispetto per il tuo padrone». Onesimo si convince a tornare. Non ha altra scelta. Il sogno è durato il baleno di un lampo. Torna la notte, fredda e nera.
    Paolo prende carta e penna e, di suo pugno, stende quattro righe di raccomandazione. Il documento è riportato nel Nuovo Testamento: la lettera a Filemone. Si legge tutta d’un soffio, tanto è bella, concreta, piena di amore e di coraggio.
    «In Cristo ho piena libertà di comandarti ciò che devi fare. Preferisco però pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.
    Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo.
    Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore.
    Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso! Sì, fratello!Che io possa ottenere da te questo favore nel Signore; da’ questo sollievo al mio cuore in Cristo!».
    La lettera è commovente. A gente come noi... fa specie però costatare che Paolo non dice a Filemone nulla a proposito di schiavitù. Non lo invita a rimettere in libertà né Onesimo né i suoi amici. Tratta Onesimo persino come una cosa che si desidera, che appartiene a qualcuno, che si può regalare.
    Questi modelli culturali ci fanno paura. Il Vangelo ci è diventato troppo familiare per rassegnarci a ragionare così. Per Paolo, come per la gente del suo tempo, invece, la cosa era pacifica. Faceva parte della cultura del tempo: quella «carne» in cui Dio si è fatto parola e volto, per diventare nostro signore e salvatore.
    C’è una novità, però, grande come l’abisso dell’amore. Senza mettere sotto questione la logica perversa della schiavitù, Paolo parla di sé, di Onesimo e di Filemone con una tenerezza che rende presente quella di Dio per noi.
    Questo è il bello dell’esperienza cristiana. L’incarnazione è sempre salvezza. Assumendo la nostra quotidiana carne, Dio ci fa passare da morte a vita.
    Per questo, l’amore di Dio, piantato nel cuore dei problemi, li scarnifica e ne fa esplodere tutte le contraddizioni. Un po’ alla volta, i cristiani l’hanno capito e hanno lottato contro la schiavitù e contro le altre ragioni di discriminazioni culturali e sociali.
    E se provassimo anche noi a scrivere oggi qualche nuova lettera a Filemone... in questa stagione in cui molti dei modelli culturali in voga ci fanno una gran paura e non sappiamo dove sbattere il capo? Forse non sono davvero peggio della schiavitù...


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