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    Approfondimenti (su Eucaristia e Riconciliazione)



    Carmine Di Sante

    (NPG 1995-07-23)


    EUCARISTIA E VITA QUOTIDIANA

    Nessun sacramento è così intimamente legato con la vita quotidiana come l'eucaristia, dal momento che il segno fondamentale che lo costituisce - la manducazione del «pane» e del «vino» - è l'elemento più quotidiano e necessario dell'umano. «Mangiare» e «bere» infatti sono l'atto per eccellenza della giornata che ne ritmano 1' intero arco (colazione, pranzo e cena) e costituiscono il momento più importante delI'esistenza, non solo perché «mangiare» e «bere» sono il principio della sussistenza umana, con cui ci si sottrae alla minaccia della morte, ma perché sono la condizione stessa di ogni altra attività: materiale, culturale e anche spirituale.
    Assumendo il «pane» e il «vino» nel suo spazio simbolico e rituale, la liturgia cristiana non intende svuotare la materialità dell'azione del mangiare (l'azione che, contro ogni falsa spiritualizzazione, non ci si stancherà mai di ripetere: è il fondamento stesso dell'umano), ma cogliere il suo significato profondo e spirituale in cui è coinvolto direttamente Dio e il suo stesso figlio, Gesù il Cristo.
    Riletti alla luce del simbolismo liturgico e sacramentale, il «mangiare» e il «bere» non sono più solo azioni funzionali, volte all'assunzione delle energie necessarie alla vita umana, ma si trasformano in «avventure» spirituali tra Dio e l'uomo, in un rapporto di amore e di alleanza tra l'uno e l'altro. Secondo una lettura dualistica molto radicata nella tradizione cristiana, il «pane» e il «vino», assunti come simboli sacramentali, starebbero a significare non più un cibo materiale, necessario al corpo, ma un cibo spirituale, necessario all'anima; per cui, secondo questa interpretazione tipologica che applica al sacramento i due piani del dualismo greco del «corpo» e dell'«anima», il «pane» e il «vino» si svuotano della loro realtà materiale per alludere ad una realtà di ordine superiore e spirituale: la grazia necessaria all'anima.
    Se ci si sottrae al modello del dualismo, estraneo alla bibbia, e si recupera il realismo dell'antropologia ebraica al cui interno Gesù istituisce il memoriale della sua morte e della sua risurrezione, il simbolo del «pane» e del «vino» si apre ad una lettura diversa e più provocante: non sostituzione del «pane» e del «vino» materiali con un «pane» e «vino» spirituali, ma nuova lettura del «pane» e del «vino» materiali alla luce dell'amore di Dio e del suo messia crocifisso[1] .

    Il «pane» e il «vino» simbolizzano il mondo come dono

    Per comprendere in che senso il sacramento cristiano rilegge il «pane» e il «vino» come avventura spirituale, è necessario riprendere e analizzare la formula di benedizione la quale, secondo la tradizione ebraica, è da premettere al «mangiare» e al «bere» e che, leggermente modificata, è stata reintrodotta dalla riforma liturgica nel nuovo rito della messa.
    Al momento della presentazione del «pane» e del «vino» sull'altare il sacerdote, infatti, pronuncia queste due formule di benedizione: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo; lo presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna»; «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell'uomo; lo presentiamo a te perché diventi per noi bevanda di salvezza». Le due formule ebraiche alle quali questi due testi si ispirano più semplicemente suonano: «Benedetto sei tu, Signore, che estrai il pane dalla terra»; «Benedetto sei tu... che produci il frutto della vite».
    Con una preghiera così semplice («benedetto sei tu Signore, Dio nostro, re dell'universo, che estrai il pane dalla terra», oppure «che produci il frutto della vite») l'orante si introduce in un nuovo orizzonte del «mangiare» e «bere» che, a livello riflessivo, può essere tematizzato attraverso l'articolazione e l'analisi di tre operazioni principali.
    La prima è quella dello spossessamento o della disappropriazione. Proclamando Dio come «colui che estrae il pane dalla terra», l'orante sottrae il pane all'appropriazione del suo io, vietandosi il diritto di proprietà e la pretesa del «questo è mio». Per lui, nella benedizione, risuona una voce che, nel momento in cui si dirige verso il «pane» e il «vino» per nutrirsene, non gli dice in t primo luogo: «prendimi» e «fruiscimi», ma: «alt, questo non è tuo, tu non puoi possedermi».
    La seconda operazione è il riconoscimento, in Dio, del vero «proprietario» del «pane»: «Benedetto tu che estrai il pane dalla terra». Con questa espressione l'orante non ignora la realtà fattuale, per la quale il pane è e può essere solo frutto del lavoro dell'uomo, da chi lo prepara con la semina a chi lo raccoglie, lo macina, lo cuoce, lo vende, ecc., ma la «sfonda» penetrando al di là di essa e cogliendovi oltre e sotto un «di più»: il «di più» della intenzionalità creatrice (la quale costituisce il suo senso oggettivo) che in esso si iscrive.
    Infine, con questa preghiera, l'orante definisce la vera destinazione del «pane» che è l'uomo stesso in quanto «povero», in quanto essere di bisogno. Se infatti la benedizione sottrae il pane all'uomo e l'attribuisce a Dio non è per destinarlo a Dio ma al suo essere di bisogno.
    Stando alla logica di una preghiera così semplice (di cui la preghiera eucaristica costituisce il dispiegamento), il «pane» non è dell'uomo, è di Dio, ma è per l'uomo. Ma che cosa è quella «realtà» che, non essendo dell'io è per l'io pur essendo di un altro? Non è forse la realtà del dono, il quale si definisce per il fatto che il soggetto fruitore (si pensi ad un orologio regalato) non ne è né può essere proprietario essendoci in esso un di più - il di più della bontà di chi l'ha donato - che è oltre il bisogno e oltre l'appropriazione e che si offre solo al riconoscimento e all'imitazione?
    Se questo è vero, ciò vuol dire che il «mangiare» - l'atto più ordinario e quotidiano dell'esistenza umana - non è un gesto che si consuma all'interno della progettualità dell'io o del gruppo del quale si è parte, ma è evento di grazia e alleanza d'amore tra Dio e l 'uomo. Mangiare, in questa prospettiva, è sì nutrirsi, ma non in forza del proprio «io» autocostituitosi principio e fine, bensì in forza della sollecitudine di Dio che si china sul proprio io.
    Tra queste due «letture» del mangiare («mangiare perché io lavoro e guadagno» oppure «mangiare perché Dio mi dona da mangiare») c'è una differenza irriducibile che consiste nel fatto che nel primo caso l'io resta chiuso nel circolo del suo io, mentre nel secondo si apre all'evento della relazione interpersonale e dell'amore; la stessa differenza incolmabile tra il mangiare da soli o in compagnia dell'amico o dell'amata che ci invita.
    Per questo l'atto di mangiare è, per la tradizione rabbinica, «un miracolo» più grande della stessa traversata del Mar Rosso (cf Genesi Rabba 20, 22).
    Se a noi una espressione come questa sembra ingenua o irreale, è per la cecità spirituale che avvolge l'io e il consumismo che lo rende ottuso, trasformando tutto in «ovvio» e «scontato». Non si riuscirà a cogliere il legame profondo e provocante tra il sacramento dell'eucaristia e la nostra vita quotidiana se non decostruendo la propria struttura percettiva egocentrica che trasforma tutto in «dovuto» e «scontato» e al cui interno, per principio, non può trovare spazio lo stupore del gratuito e dell'amore, l'unico vero miracolo del mondo.

    Dal mondo come dono alla condivisione

    L'affermazione del «pane» e del «vino» come dono evento quotidiano che ritma l'arco dei nostri giorni ha una dimensione esigitiva e responsabilizzante che è necessario cogliere per non equivocarla.
    In una celebre pagina biblica dedicata al racconto della manna che il Signore fa scendere dal cielo per sfamare il suo popolo gratuitamente, si legge: «Ecco che cosa comanda il Signore: 'Raccoglietene quanto ciascuno può mangiare, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda'. Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto chi poco. Si misurò con l'omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo, colui che ne aveva preso di meno non ne mancava: avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiare. Poi Mosè disse loro: 'Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino'. Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì. Essi quindi ne raccoglievano ogni mattina secondo quanto ciascuno mangiava; quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva» (Es 16, 1621).
    La «manna», svelamento dell'essere dono del «pane», cioè di tutto il reale, non si offre a Israele come oggetto di contemplazione («ecco quanto è bello il mondo come dono»!) ma si fa comandamento: «Ecco che cosa comanda il Signore: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne... Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda». L'essere dono del pane si fa comandamento che ne esige il rispetto (cioè lo sguardo che lo riconosce tale) e l'assecondamento (cioè il cuore e la mano che ne riproducono il movimento). Il racconto della manna non solo svela il senso del «pane» che è il suo essere gratuità, ma anche la legge che chiede di essere obbedita e che è l'agire solidale ridonando ciò che è donato.
    Questa «legge» - la legge della gratuità quale legge del reale - è la legge della condivisione o, in termini biblici, della giustizia da intendere non come l'espressione di un principio eterno, necessario e immutabile, secondo quanto ha tematizzato la grecità, bensì come l'apparizione della solidarietà originaria di Dio che chiede di essere accolta ed incarnata in solidarietà umana e che, appunto perché evento di bontà, più che oggetto che si offre all'intelligenza come conoscenza, è comandamento d'amore che si propone alla libertà come sua nuova possibilità.
    In ogni «pezzo di pane» che mangiamo si iscrive l'appello divino alla condivisione o «giustizia»: l'appello che trasforma l'atto del mangiare in evento di comunione e di amore e che transustanzia la propria animalità (il nostro essere esseri di bisogno) in responsabilità o bontà per l'altro.
    Ogni volta che si mangia un pezzo di «pane» o si beve un bicchiere di «vino», simboli concreti dei beni della terra, ci si ritrova collocati dinanzi al bivio del «bene» e del «male», della «vita» e della «morte» (cf Dt 30, 15): a seconda se il nostro mangiare (poco importa se da soli, con i familiari, con gli amici o con degli estranei) si consuma nelle pareti della nostra animalità in cerca di nutrimento per sfamarsi oppure si trasfigura in evento di solidarietà e di amore che strappa l'io al suo egoismo, e lo apre all'alterità dell'altro.

    Dalla condivisione al sacrificio

    Se la legge sottesa al «pane» e al «vino» è, per volontà creatrice, la condivisione o la giustizia, ne consegue che essa è anche istitutrice del «sacrificio» quale principio che l'instaura. La condivisione quale evento di gratuità e di bontà tra i diversi non si instaura, infatti, spontaneamente, per forza naturale, ma esige una rottura che è morte alla propria volontà di appropriazione e apertura all'alterità dell'altro. La condivisione vera non quella tra i simili e «i propri» dove l'altro è prolungamento dell'io e momento interno alla costituzione della sua felicità non solo non si oppone al «sacrificio», ma ne è il frutto dal quale fiorisce.
    E questa la ragione per la quale al centro della condivisione, espressa dal simbolismo dell'eucaristia, si erge il «sacrificio» del crocifisso: parola liberatrice e scandalosa che annuncia che ogni vero amore all'altro che non voglia essere solo tra i simili e verbale passa per la morte al proprio io, e che nel mondo alienato e violento sfigurato dal peccato solo il perdono o non-violenza agisce come nuovo principio di creazione, cioè di ricreazione. Al centro della condivisione è conficcata la legge del «sacrificio», il gesto gratuito di autorinuncia e di autolimitazione che la realizza.
    Entro la materialità del «pane» e del «vino» si cela la più profonda esperienza spirituale: della sollecitudine di Dio che ci ama, della nostra risposta nella riconoscenza e nella condivisione al suo amore e della morte al proprio io come condizione di accesso all'una e all'altra.
    Dio non abita in spazi sacri, lontano dalle nostre case e dalle nostre strade, ma in ogni pezzo di «pane» che mangiamo e in ogni bicchiere di vino che beviamo. Qui risuona la sua voce originaria con cui ci ama e ci chiama ad amare: voce di «giudizio» che «salva» o «condanna».

    RICONCILIAZIONE E VITA QUOTIDIANA

    Come l'eucaristia anche il sacramento della riconciliazione è profondamente collegato con la vita quotidiana e con quel «pane» e quel «vino» che la ritmano e la sostanziano. Per questo, non senza significato, per il Nuovo Testamento è l'eucaristia stessa la fonte prima della remissione dei peccati, secondo quanto narra soprattutto il primo evangelista: «Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli... Poi prese il calice dicendo: 'Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, n remissione dei peccati'» (Mt 26, 26 ss).
    Con il dono della sua vita Gesù diventa «pane disceso dal cielo» (cf Gv 6), cioè «vero» nutrimento dell'esistenza umana, non perché sostituisce alla vita terrestre quella ultraterrestre (questo tipo di dualismo è estraneo alla mentalità biblica), ma perché egli «rimette» i peccati nei quali essa è irretita e la «risana» disalienandola e riattivandola verso il bene. «Rimettere i peccati» (secondo il testo originale greco «portare via i peccati») vuol dire infrangere ed annullare le catene che tengono la storia umana bloccata - come è bloccato un corpo incatenato - per riconsegnarla all'evento della libertà e della felicità.

    La remissione dei peccati

    Affermando che la storia umana è «bloccata» (in termini biblici: «sotto il potere del peccato» o «dominata dal peccato»), il Nuovo Testamento intende soprattutto due cose.
    Primo: che il mondo, voluto da Dio per la felicità umana, di fatto quasi mai ha mantenuto e mantiene questa promessa, offrendo piuttosto l'immagine della sofferenza e del non senso. Per descrivere un mondo siffatto, che invece di realizzare la felicità dei suoi abitatori, la contraddice, la bibbia fa riferimento all'immensa schiera dei malati e degli emarginati: sordi, zoppi, ciechi, epilettici, affamati, abbandonati, oppressi; mentre per annunciare la fine di questo mondo alienato fa riferimento alla scomparsa di queste categorie infelici:
    «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto» (Is 35, 26; cf Mt 11, 5).
    Secondo: che l'uomo, chiamato da Dio ad amare e servire il fratello, divenendone il custode, in realtà se ne è fatto e se ne fa rivale e nemico, procurandogli la sofferenza. Se la punta estrema di questa figura di peccato è la morte data violentemente, come fa Caino nei confronti di Abele, la sua immagine quotidiana, occulta e diffusa, è l'indifferenza che porta ad ignorare l'altro nella sua alterità, riducendolo a strumento per la realizzazione del proprio io progettuale. È questa, per la bibbia, la figura per eccellenza di peccato che testimonia del fallimento del mondo (luogo di dolore invece che di felicità) e del fallimento dell'uomo (soggetto produttore di violenza invece che di bontà).
    Oltre alla denuncia di queste due figure di peccato, cioè di alienazione e di fallimento, la bibbia ne offre contemporaneamente un intreccio indissolubile e peculiare, presentando la prima come conseguenza della seconda e questa come radice di quella. Per la bibbia il fallimento del mondo, il suo essere luogo di sofferenza invece che di felicità, non è intrinseco al mondo e neppure è fatto risalire, come nella grecità, a Dio, ma trova la sua radice prima e indeclinabile nel volere umano che fallendo cioè «peccando» si fa inimicizia invece che prossimità, trascinandosi dietro nel suo fallimento anche il mondo.
    Il sacramento della riconciliazione è ripresa e «messa in scena» a parte di questo aspetto costitutivo ed essenziale della eucaristia come «remissione dei peccati».
    Esso dice non solo al soggetto che lo accoglie ma alla comunità credente e all'umanità intera che l'alienazione e il non senso che minacciano le soggettività e la storia umana (in termini biblici: il peccato) sono vinti per la potenza del perdono che Dio ha rivelato nel dono del suo figlio, e che ogni uomo e ogni donna possono in ogni istante essere riaccolti nello spazio dell'amore e del perdono, riaccedendo nello spazio della creazione e della vita. Il sacramento della riconciliazione dice che sempre e in ogni situazione per quanto questa possa essere angosciante e disperata siamo incontrati dal perdono che Dio ci offre gratuitamente e in forza del quale possiamo riprendere a camminare, rinascendo a vita nuova e alla capacità di amare.

    Perdonare settanta volte sette

    Narra il primo evangelista che un giorno Pietro si avvicinò a Gesù per chiedergli: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: 'Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette'» (Mt 18, 2122).
    Come è noto, il testo matteano continua riportando una parabola in cui si parla di un servitore il quale doveva al re l'inimmaginabile somma di diecimila talenti, 60 milioni circa di lire in oro[2] e come il sovrano abbia nei suoi confronti un imprevedibile cambiamento, passando da un atteggiamento esigente («volle fare i conti con i suoi servi») e punitivo («ordinò che fosse venduto lui con la moglie...»), a uno perdonante e benevolente. Il termine in cui si esprime la natura e il senso di questo cambiamento è «impietositosi» (splanknistheis), lo stesso in uso nella parabola del buon samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, non «passa oltre» il malcapitato ma gli si fa vicino gratuitamente, con un gesto di bontà che non ha altra ragione che se stesso. Il padrone - dice il racconto - «si impietosisce», cioè instaura la suprema vicinanza lì dove c'era non solo, come nella parabola del buon samaritano, l'estraneità ma anche il torto («uno che gli era debitore di diecimila talenti»). L'insistenza sulla somma esorbitante e sulla durezza del padrone nell'esigere la vendita dell'intera famiglia traducono, narrativamente, da una parte la dimensione del torto, dall'altra l'esigenza della sua riparazione e ambedue convergono verso l'esito finale (v. 27) che li ribalta radicalmente: al posto della rivendicazione del diritto la rinuncia ad esso con il perdono e il condono.
    Ma il centro della parabola, come è noto, non è occupato dal padrone quanto dal servo che il padrone ha perdonato: «appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito» (vv. 28-30). Il comportamento del servo è l'esatto contrario di quello avuto dal padrone nei suoi confronti, incapace di condonare perfino «cento denari», l'equivalente di appena cento lire in oro.
    Segue la conclusione della parabola nella quale ne viene data la spiegazione: «Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il vostro padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (vv. 31-35).

    Perdono e vita quotidiana

    Il rimprovero del padrone al servo è di non aver ridonato ciò che gli era stato donato, di non aver rimesso in circolazione il perdono ricevuto: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo servo, così come io ho avuto pietà di te?».
    Per l'evangelo Dio è un Dio perdonante perché, costituendo l'uomo come perdonato, lo rende capace di farsi a sua volta perdonare: a tal punto che, dove questi non si fa soggetto perdonante, è il perdono stesso di Dio ad essere bloccato e interrotto come principio di rigenerazione del mondo alienato. Se il sacramento della riconciliazione è la «messa in scena» del perdono di Dio donato, che esige di essere ridonato, la vita quotidiana è lo spazio per la messa in opera di questo perdono che, come vuole la parabola riportata, deve essere dato non «sette volte» ma «settanta volte sette», cioè dovunque e sempre.
    È infatti nella vita quotidiana che si tessono i rapporti affettivi e professionali e dove ognuno si costruisce l'immagine dell'altro: amico se, acconsenziente o meno, si lascia ricondurre all'orizzonte dell'io desiderante o progettuale; nemico, se vi resta estraneo o vi si nega.
    Cogliere l'altro alla luce del perdono di Dio ricevuto e «perdonarlo» significa abbattere la percezione di lui come nemico e riscoprirlo nella sua alterità irriducibile da accogliere nel pathos della gratuità e del disinteresse: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te»?
    Narra una suggestiva storia chassidica che «dei ladri si introdussero nella notte in casa di Rabbi Wolf e rubarono tutto quello che venne loro sottomano. Il Rabbi li stette a guardare dalla sua camera e non li disturbò. Quando ebbero finito presero, insieme con altri suppellettili, un boccale in cui prima era stata portata a un malato la pozione della sera. Rabbi Wolf corse loro dietro: 'Buona gente', gridò, 'ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono. Ma fate attenzione, vi prego, a codesto boccale; vi è rimasto attaccato l'alito di un malato e potrebbe contagiarvi'. Da allora ogni sera prima di andare a letto diceva: 'Io regalo a tutti ciò che possiedo'. In quel modo, se fossero tornati dei ladri voleva togliere loro ogni colpa».[3]
    Perdonare l'altro prima che il perdonato riguarda il perdonante, e consiste nello sguardo nuovo con cui ogni altro è sottratto all'inimicizia e riconsegnato all'amicizia, nello spazio del dono («ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono») e dell'accoglienza gratuita come quella di Dio.[4]


    NOTE

    [1] È questa la chiave di rilettura con cui sono state stese le pagine di Pane e Perdono. L'eucaristia, celebrazíone della solidarietà (Elle Di Ci, Torino 1992), soprattutto pp. 87-132.
    [2] Un talento equivaleva, probabilmente, a 30-36 chili in oro o argento!
    [3] M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, pp. 204-05. Una storia quasi identica si trova anche nella vita di s. Francesco d'Assisi («I ladroni convertiti») riportata nella Leggenda Perugina 90: cf Fonti Francescane, vol. 1, a cura del Movimento Francescano, Assisi 1977, pp. 1255-56.
    [4] Per lo sviluppo di questa parabola rimando al mio ultimo saggio Il Padre Nostro. L'esperienza di Dio nella tradizione ebraico-cristiana, Cittadella, Assisi 1995, pp. 199-223.


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