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    Modernità e nuove generazioni



    Giorgio Campanini

    (NPG 1995-05-9)


    II mio intento principale è individuare le domande che il mutamento della società pone oggi ai crea: denti e in particolare alle nuove generazioni. Vorrei esorcizzare, sin dall'inizio, la tendenza che molti hanno, anche in ambito cattolico, a cogliere la modernità esclusivamente come somma di errori, come accumularsi di elementi negativi, come intreccio di una serie di cambiamenti che vanno tutti nel segno dell'arretramento della fede, della crisi del cristianesimo, dell'illanguidimento della pratica religiosa. Certo non mancano segni inquietanti anche in questa direzione, ma vorrei fare un richiamo non formale ma sostanziale a un sano ottimismo nella lettura di quelli che il Concilio Vaticano Il chiama «i segni dei tempi». A questo riguardo, per mettere in evidenza quale sia stato il cammino che la Chiesa del nostro tempo ha saputo compiere, in questa lettura nel complesso positiva della storia, vorrei fare un accostamento tra gli esordi di due documenti che stanno alla base del rapporto fra Chiesa e modernità: il Sillabo del 1864 e la Costituzione su «La Chiesa e il mondo contemporaneo» (1965) del Concilio Vaticano II. Il Sillabo è preceduto da un'enciclica intitolata Quanta cura: «con quanta preoccupazione» la Chiesa guarda al mondo contemporaneo, allo stato laico, al razionalismo, alla crisi della fede. È una lunga, quasi interminabile, serie di ottanta proposizioni di condanna che, l'una dopo l'altra, martellano sul mondo moderno. Diverso è l'approccio della Costituzione sul mondo contemporaneo, Gaudium et Spes: «la gioia e la speranza». Essa non è, come qualcuno ha sostenuto, una Costituzione irenica che elude i problemi (all'ateismo, per esempio, vengono dedicate pagine molto intense e penetranti tutt'altro che tranquille). Pur riconoscendo la drammaticità della stagione che la Chiesa sta vivendo, la Gaudium et Spes sottolinea appunto la dimensione di gioia e di speranza. E questo io credo sia l'atteggiamento più corretto che dobbiamo adottare nel cercare di leggere il complesso e difficile rapporto tra Chiesa e modernità.

    NOTE SULLA MODERNITÀ

    La complessità e la frammentarietà

    Il primo punto della mia esposizione vuole offrire qualche rapida notazione sul problema della modernità, muovendo da quella che si può considerare una tesi che è il presupposto primo di questo articolo: la tesi secondo la quale la frammentarietà - o la frammentazione o, se vogliamo, la complessità - è un carattere strutturale, ineliminabile, della modernità. Rifiutare di fare i conti con la frammentazione della società è un rifiutare la modernità, è un riprendere la linea del Sillabo: atteggiamento questo che serpeggia in non trascurabili componenti del mondo cattolico, ma che io non credo sia autenticamente evangelico.
    Il grande teologo protestante Karl Barth soleva affermare che un buon teologo deve avere sul suo tavolo alla destra la Bibbia e alla sinistra il giornale, perché Dio parla in due modi: attraverso la Parola e attraverso gli avvenimenti. Il cristiano che ha sul suo tavolo soltanto la Bibbia (quindi al di là dell'immagine il cristiano che non sa misurarsi con gli avvenimenti) non è un cristiano fedele sino in fondo alla sua missione. Vi è dunque l'esigenza di confrontarsi con una modernità che ha come sua caratteristica appunto la frammentazione.
    La frammentazione è un dato strutturale della modernità, perché lo sfondo sul quale la modernità si colloca è quello della società industriale, e la società industriale è strutturalmente fondata sulla divisione del lavoro, costituita perciò non da uomini che fanno tutti le stesse cose.
    Le società in cui questo avveniva ci potranno piacere, potremo guardare ad esse con nostalgia, ma sono le società del passato, ancora oggi esistenti, ma nelle quali comunque non vorremmo vivere: società semplici in cui tutti hanno tutto, ma che appunto perché semplici e perché destinate a rimanere semplici non fanno il salto di qualità che porta alle società industriali avanzate come la nostra. All'interno della divisione del lavoro ogni uomo fa una propria operazione, che sommata alle altre costituisce il prodotto finito; ogni persona ha una piccola competenza in un campo ben delimitato e molto spesso al di fuori di questo campo è una nullità; in questa società gli uomini e le donne sono fortemente mobili, devono essere capaci di cambiare gli abiti mentali, ma anche la residenza, trasferirsi, spostarsi da un luogo all'altro. Con questa società caratterizzata dal modo di produzione industriale e dalla mobilità, la frammentazione diventa un dato appunto ineliminabile, e noi non possiamo accettare la società industriale senza accogliere il suo esito che è appunto la società complessa.

    La visione della natura

    Questa tesi di fondo può essere esplicitata attraverso alcuni essenziali passaggi che cito soltanto quasi a memoria, tanto per mostrare come la modernità assume, a seconda dell'ottica dalla quale si guarda, diverse sfaccettature. Pensiamo per esempio al tema del dominio della natura, della conoscenza ma anche del controllo del mondo.
    Il mondo pre-industriale è caratterizzato da una sua sostanziale unità; è un mondo che ha un preciso referente, il Dio Creatore; ha una sua aurea di mistero che appare non in tutto e per tutto dominabile, controllabile e manipolabile; ed è sostanzialmente un mondo unitario, in qualche modo armonioso. Invece, oggi, il rapporto fra l'uomo e la natura è diventato complesso, conflittuale, difficile, drammatico; soprattutto si è perduto il senso dell'unità del mondo, anche la natura appare una realtà frammentata.
    Oggi vi è il ritorno, attraverso l'ecologia - o forse la moda ecologica -, a un tentativo di dominare il mondo da un punto di vista unitario, ma certo agli occhi dell'uomo moderno il mondo appare strutturalmente frammentato; la fisica atomica in qualche modo dà il «la» a questa lettura frammentata dell'universo: l'atomo è appunto il frammento, ma un frammento che sta nel tutto.

    Emergenza della soggettività

    La modernità implica complessità e frammentarietà, anche dal punto di vista dell'emergenza degli individui, della soggettività. Nel mondo antico delle culture premoderne, e ancora oggi là dove la società industriale non è arrivata, prevale la legge del «clan», la regola del gruppo, il vivere comunitario: gli individui sono assoggettati a queste regole, che di fatto non possono essere infrante. Pensiamo, ad esempio, al problema delle scelte matrimoniali; noi non ci rendiamo conto di quale immensa rivoluzione sia stata rappresentata dal fatto che a partire da una certa epoca della storia dell'Occidente, ma non da più di un secolo, le scelte matrimoniali sono diventate libere; ciascuno sostanzialmente sposa chi vuole; vi sono ancora dei condizionamenti ma non delle costrizioni. Ma per circa il milione di anni in cui l'uomo è vissuto sulla terra, secondo le valutazioni credo più attendibili della scienza, e certamente per gli almeno diecimila anni di storia dell'uomo che noi conosciamo, ciò non è mai avvenuto. Non solo la libera scelta del matrimonio ma anche la libera scelta della professione, della religione, dello stato di vita: tutto questo non è mai avvenuto nella storia dell'uomo se non, indicativamente, a partire dagli ultimi cento anni.
    Non stupisce allora che in questo contesto vi sia un esplodere, un affermarsi impetuoso delle soggettività; i singoli vogliono contare per quello che sono, non in funzione del gruppo sociale in cui sono inseriti. Di qui l'affermazione del soggetto, che certo ha come prezzo anche la frammentazione del corpo sociale, ma è un prezzo che in qualche modo è necessario pagare. Non credo che le attuali generazioni siano disponibili a rinunziare agli aspetti positivi dell'emergere della soggettività per ritornare ad una società in cui gli individui sono eterodiretti dal gruppo sociale; ma questo emergere di soggettività comporta un prezzo, appunto la società frammentata, la società complessa.
    Uno degli aspetti di questo emergere della soggettività è anche l'affermarsi di diverse morali, di diversi schemi e progetti etici. Bergson nel 1992 parlava di società caratterizzata dalla morale chiusa, dal prevalere della morale del gruppo o del clan, e indicava come strada del futuro il passaggio alle società con la morale aperta. Le nostre sono società a morale aperta, dove le regole morali non vengono più ereditate dal passato, ma sono costruite di volta in volta, generazione per generazione. Ciò comporta dei rischi, spesso altissimi, ma libera anche la morale dai condizionamenti che su di essa si esercitavano in passato. Per ritornare all'esempio di prima, certo la castità giovanile, soprattutto femminile, è diventata molto più difficile (in passato non era troppo difficile per le ragazze esser caste, dal momento che non potevano mai mettere un piede fuori di casa senza la stretta vigilanza di qualche parente); oggi tutto ciò è scomparso e si fa una scelta morale perché la si assume liberamente, come fatto che può essere di abbandono dell'etica ma anche di crescita dell'etica. Dunque, anche qui, la molteplicità dell'etica, dei messaggi e comportamenti etici, come aspetto in qualche modo obbligato della società complessa.

    Frammentazione dello stato e della religione

    Un ulteriore aspetto di questa frammentazione della società è rappresentato dalla crisi dello stato moderno. Oggi lo stato sta conoscendo, non solo in Italia, una stagione assai difficile. Vi è stata un'epoca nella storia della società occidentale in cui, come sappiamo, i grandi conflitti avvenivano tra due centri ciascuno dei quali aspirava a guidare, a regolare tutta la vita dell'uomo. Questi due grandi centri della tradizione dell'Occidente erano lo stato e la chiesa: due grandi poli unitari ai quali faceva riferimento la maggior parte degli uomini, ora come cittadini, ora come fedeli. L'ipotesi soggiacente a questa duplice pretesa di egemonia ora della chiesa ora dello stato era che la sfera del sacro fosse tutta riconducibile alla chiesa, e la sfera del profano tutta riconducibile allo stato.
    Oggi invece la moltiplicazione delle sètte e dei gruppi religiosi è un aspetto evidente della frammentazione: la religiosità non si riconduce più soltanto alla chiesa, in particolare alla Chiesa cattolica, ma a più centri di valore religioso, così come la società diventata complessa non si riconosce più, non si identifica più nello stato.

    PENSIERO DEBOLE E PENSIERO FORTE

    Tutta questa serie di problemi comporta una situazione di transizione nella quale viviamo e alla quale si danno sostanzialmente due risposte. Vi è la risposta del pensiero debole che rinunzia in qualche modo a fare unità, che rinunzia proporre valori. Nella società complessa, sotto questo aspetto, corrisponde pensiero debole la rinunzia a governare, a guidare, a regolare la complessità. Vi è, però, anche un'altra risposta - che potremmo chiamare del pensiero forte - caratterizzata dalla ricerca di nuovi valori, di nuove evidenze etiche, di un nuovo rapporto con la natura, di una nuova e più autentica soggettività, di un nuovo modo di organizzare la società e per la sua parte la chiesa e la comunità cristiana. Dunque due possibili risposte a situazione venutasi a determinare con la società complessa: la rinunzia ai valori e la ricerca di nuovi valori su una base profondamente diversa.
    La base del passato si è ormai erosa, non può più costituire il solido fondamento per la ricerca dei valori; occorre cercare una nuova base, e questa è appunto la difficile impresa che attende le nuove generazioni in questa fase della modernità.
    Della modernità si possono dare due fondamentali letture:
    * la modernità come caduta, come regressione, come fuga dai valori; sul piano religioso come affermarsi dell'ateismo, dell'indifferenza. Da questa lettura della modernità come caduta esce un'interpretazione in qualche modo regressiva e nostalgica della storia. Se la modernità è «caduta», occorre uscire dalla modernità e ritornare al passato; ecco la nostalgia del buon tempo antico, la ricerca di equilibri che in qualche modo riproducano quelli del passato.
    * La modernità come sfida al pensiero forte, alla ricerca di valori, come provocazione a ritrovare su nuove basi un nuovo equilibrio; in campo religioso, in particolare, come sollecitazione a riproporre una nuova religiosità, una nuova immagine di chiesa, un nuovo quadro di valori etici, con la fine della cristianità antica ma senza per questo condannare alla insignificanza i valori religiosi.
    In ogni modo la modernità appare nell'una e nell'altra prospettiva anche come una sorta di rivelazione delle debolezze, delle ambiguità, delle contraddizioni del nostro tempo. Nella sua forma tipica di secolarizzazione, la modernità si presenta come una discriminante tra vecchio e nuovo modo di credere, tra una fede che potremmo chiamare inautentica perché esclusivamente proiettata sul passato e una fede invece autentica che si confronta con il presente, si misura con la storia, sa costantemente leggere quella parola di Dio che è rappresentata appunto dagli avvenimenti. Diceva Mounier che «l'avvenimento sarà il nostro maestro interiore». Noi abbiamo bisogno di recuperare questo maestro che ci parla appunto attraverso il linguaggio degli avvenimenti.

    L'ELOGIO DELL'INDIFFERENZA

    Fra i molti esiti della modernità vorrei sottolinearne in modo particolare uno che mi sembra il più rilevante, il più significativo in un'ottica culturale e insieme religiosa: il problema dell'ampliarsi dell'area che è stata chiamata della indifferenza, come atteggiamento all'interno del quale sembra non esservi più spazio né per la ricerca né, ancor più, per l'acquisizione di nuovi valori.
    Lo scenario che abbiamo cercato di tracciare a grandi linee, quello della modernità, sembra destinato strutturalmente a secernere una cultura dell'indifferenza come esito in qualche modo necessario della complessità. La cultura della partecipazione, della solidarietà e della condivisione, quale è stata declinata in passato, supponeva una rete di rapporti molto ristretta, molto limitata; nell'antico villaggio ci si poteva interessare della sorte del vicino di casa, salutare tutte le persone che si incontravano, come si fa ancora in non poche parti del mondo; era possibile sapere tutto dei vicini, parlare di cose che tutti conoscevano e in qualche modo condividevano. Nelle società ristrette, nelle società chiuse, i meccanismi di condivisione e di solidarietà scattano istintivamente. Se oggi uno percorresse una strada di Milano o di Roma e - per mostrare la sua apertura, la sua solidarietà - si fermasse a scambiare due parole con tutte le persone che incontra, arriverebbe in ufficio o a scuola quando la mattinata sarebbe ormai consumata. La regola che caratterizza la modernità è il relativo distacco da relazioni che noi chiamiamo personali, faccia a faccia, o autentiche, perché le relazioni che tendenzialmente potremmo intrattenere con gli altri sono diventate troppo numerose e alla fine ingovernabili, e dunque dobbiamo, ad un certo punto, operare una selezione.

    La selezione dei messaggi

    Chiarisco il discorso facendo riferimento a una frase un poco cinica, se vogliamo, o forse macabra del grande moralista contemporaneo Franz Böckle, il quale osserva che «una eccessiva offerta di cadaveri ci costringe ad una economizzazione dell'equilibrio emotivo». Böckle arriva a questa frase analizzando il sistema di comunicazioni che raggiungono l'uomo contemporaneo attraverso i messaggi dei mass-media. Nei prossimi giorni provate, mentre ascoltate un telegiornale, a vedere appunto «l'offerta di cadaveri» che esso ci propone: stragi in Jugoslavia, terremoto in Giappone, omicidio di mafia in Sicilia, incidenti stradali e così via. Forse abbiamo l'impressione, in qualche caso, di partecipare a queste vicende ed è possibile che in situazioni particolari, per casi che ci colpiscono da vicino, effettivamente partecipiamo a questi avvenimenti; ma nella maggior parte dei casi - dobbiamo essere schietti - noi non possiamo che assistere con indifferenza e limitarci a registrare tutte queste vicende, e ciò per un fatto strutturale legato al nostro stesso equilibrio emotivo. Il nostro «io» ha bisogno, ad un certo punto, di calare la saracinesca su messaggi troppo frequenti, troppo forti, a volte drammatici che ci vengono dall'esterno; l'unica difesa dalla frammentazione dell'«io», che sarebbe poi la follia, la malattia mentale, è quella di calare ad un certo punto la saracinesca, facendo ricorso a quei meccanismi istintivi (che Freud ha molto bene esplorato e chiamato col nome di censura) che fanno sì che, fra i tanti messaggi che ci interpellano, noi ne accogliamo - di fatto, non a parole - soltanto alcuni.
    La capacità di accogliere soltanto alcuni di questi messaggi, quindi di assumere un atteggiamento di relativa indifferenza verso altri messaggi, è la condizione stessa del nostro impegno; noi non possiamo impegnarci veramente per qualcuno, se non riusciamo ad assumere un atteggiamento di indifferenza verso una serie di altri messaggi.
    Se uno volesse operare nel mondo del volontariato e si volesse contemporaneamente fare carico degli ex-carcerati, dei tossicodipendenti, degli anziani, dei malati mentali, degli handicappati, quest'uomo o questa donna non potrebbe letteralmente più vivere. Nella società complessa, in cui le sollecitazioni sono insistite, numerose, continue, martellanti, abbiamo una sola possibilità di realizzare effettivamente una forma di impegno: quella di abbassare un poco la saracinesca, quella di assumere un atteggiamento di relativa indifferenza di fronte ad alcuni messaggi per poter selezionare quelli che veramente contano, per poter individuare un'area di impegno sulla quale veramente giocare la propria vita.

    La scelta dei valori

    È un poco il rovescio della vicenda del don Giovanni di Mozart che vorrebbe amare tutte le donne. In un passo dell'opera si dice che don Giovanni non riesce ad essere indifferente nei confronti di nessuna donna, ma l'esito finale del suo atteggiamento verso le donne non è quello della crescita della sua capacità di amore, ma quello del libertinismo, del consumismo sessuale, appunto del «don giovannismo». Per poter veramente amare una donna bisogna in qualche modo essere capaci di diventare indifferenti a tutte le altre donne; l'amore è appunto questo, la capacità di amare una persona e di essere «indifferenti» a tutte le altre.
    Dobbiamo in qualche modo tessere una sorta di elogio dell'indifferenza come meccanismo di difesa psichico necessario, che ci consente di concentrare le nostre energie mentali in direzione di valori che veramente meritano di essere accolti e per i quali vale la pena di giocare la propria vita. Qui ci incontriamo con quello che io ritengo sia il nodo fondamentale della società complessa, con il suo vero rischio: la molteplicità dei messaggi (abituandoci a calare la saracinesca, ad assumere un atteggiamento di riserva, di distacco, di non coinvolgimento emotivo) rischia di trasformare la nostra vita in una serie di «no», di prese di distanze, di abbassamenti totali della saracinesca.
    In una pagina molto amara nei confronti del Cristianesimo, un grande spirito critico e tuttavia così provocatorio per chi voglia pensare a fondo alla propria fede, e cioè Nietzsche, accusa i credenti di essere coloro che sanno amare soltanto i lontani. Amare soltanto i lontani, è chiaro, è un amore generico, emotivo, epidermico, che non impegna. L'accusa era ingenerosa (probabilmente Nietzsche aveva di fronte dei cristiani che sapevano amare soltanto i lontani), mentre il modello del cristiano - lo sappiamo - è quello del buon .samaritano, che ama il vicino concreto col quale si incontra; tuttavia fra i credenti e soprattutto, forse, fra i non credenti c'è questa tendenza ad amare soltanto i lontani.
    Sono abbastanza preoccupato di certi atteggiamenti, per esempio, pseudo-ecologistici, di persone che si stracciano le vesti perché è distrutta la foresta dell'Amazzonia; però poi sporcano il proprio giardino, inquinano la montagna, sprecano inutilmente l'energia elettrica.
    Un classico esempio di «amore per i lontani», che è un falso amore, è in molti casi l'amore per gli Indios dell'America Latina. Difatti quando gli Indios vengono da noi in Italia, le relazioni sono del tutto diverse.
    Che questo avvenga non è casuale ma è appunto legato alla complessità e alla molteplicità dei messaggi. Per questo dobbiamo essere aperti, comprensivi, anche verso i nostri fratelli che finiscono con l'amare soltanto i lontani. Non è casuale che questo avvenga, perché proprio la molteplicità dei messaggi fa sì che i messaggi finiscano per elidersi fra loro: sono tante le persone che dovremmo amare che finiamo col non amarne nessuna.

    RITROVARE LA CAPACITÀ DEL RISCHIO

    Il cristiano è colui che riesce a fare il salto di qualità dall'amore ai lontani all'amore ai vicini. Qui, allora, ci si pone di fronte il problema del rischio, della capacità degli uomini e delle donne, soprattutto dei credenti, di correre l'avventura, di entrare come Abramo in una terra sconosciuta, di impegnarsi in una direzione di cui non si possono predeterminare gli esiti. Sul piano della ragione noi possiamo forse precostituire, predeterminare, organizzare la società; ma quando siamo nell'ambito dell'amore questa capacità di programmazione si incontra con una realtà di fatto ingovernabile.
    Il rischio che la società contemporanea corre, soprattutto nelle giovani generazioni, è quello di perdere ogni capacità di avventura, ogni attitudine a proiettarsi in un orizzonte che non può essere del tutto programmato e predeterminato. Quando leggiamo tante analisi giornalistiche più o meno approfondite su quella che viene chiamata la «cultura dell'immediato», l'esasperazione della soggettività, quando si legge di giovani che non osano programmare la loro vita per un tempo troppo lungo, non osano prendere impegni, si sottraggono al matrimonio, rifiutano un lavoro fisso, preferiscono le relazioni sporadiche e gli impegni casuali, dobbiamo riflettere sul fatto che questa cultura dell'immediato è strettamente legata alla cultura della complessità. La complessità fa sì che il mondo non ci appaia più governabile da un unico punto di vista, e allora ci si rifugia nell'immediatezza del contingente, nel particolare, nel soggettivo.
    Sullo sfondo, inoltre, dobbiamo anche leggere un dato tipico della cultura del nostro tempo: l'estrema difficoltà ad assumersi sino in fondo il rischio; il rischio - per esempio - del matrimonio, del giocarsi sino in fondo nell'amore, un amore irrevocabile, irreversibile, in un matrimonio indissolubile.
    Non dobbiamo sorprenderci di questa difficoltà ad assumere il rischio; tuttavia dobbiamo esorcizzare questo demone, dobbiamo aiutare i giovani a ritrovare la capacità del rischio, soprattutto di accettare il rischio di Dio. Noi non ci rendiamo spesso conto di come sia rischioso scommettere per Dio: se Dio entra nella nostra vita, non entra dalla porta di servizio, entra dalla porta principale, investe tutta la nostra esistenza, la cambia radicalmente. Non dobbiamo, perciò, stupirci che tanti uomini affermino di essere indifferenti sul piano religioso; questa asserita indifferenza sul piano religioso è un altro aspetto della incapacità o della difficoltà di assumersi sino in fondo i rischi, soprattutto il rischio di Dio. Tanto più la società è complessa, quanto più le offerte che ci vengono fatte sono numerose, tanto più seri sono i rischi che noi dovremmo correre; ed allora prevale la nostra tendenza a sottrarci a ogni rischio, e quello più grave - nel senso che è la scelta fondamentale e in un certo senso più drammatica - è appunto il rischio di Dio. Indifferenza religiosa e società complessa, sotto questo aspetto, sono due facce della stessa medaglia.

    IDENTITÀ E ALTERITÀ

    Un'ulteriore riflessione riguarda l'influenza che questa cultura della complessità, di cui ho cercato di tracciare le coordinate, ha sulla soggettività, sulla identità personale.
    L'identità personale è diventata oggi, in relazione all'affermarsi della società complessa, particolarmente difficile; la modernità può essere descritta come la stagione del passaggio da una identità facile a una identità difficile.
    L'identità facile era quella di una società caratterizzata dalla sostanziale staticità dei rapporti sociali; l'identità veniva definita e prefigurata sin dalla nascita partendo dal contesto familiare. Non solo si era uomini o donne e bianchi o neri, ma si era ricchi o poveri, aristocratici o cittadini, cattolici o musulmani in relazione alla nascita. Ciò che uno era alla nascita, nelle società premoderne, lo era di norma sino alla morte; non si abbandonava il proprio villaggio, non si cambiava il proprio mestiere, non si modificava l'orizzonte familiare, non si entrava in contatto con altre ideologie, con altre religioni, i gruppi erano chiusi. Erano dunque, queste, stagioni di identità relativamente facili; vi erano anche qui le eccezioni, gli uomini innovatori che sapevano spezzare il guscio del gruppo sociale e aprire nuove strade; ma per la maggior parte degli uomini l'identità era già prestabilita, già prefigurata al momento della nascita.

    L'identità difficile e debole

    Oggi, invece, raggiungere l'identità, sapere chi si è, è diventato molto più difficile, innanzitutto perché la società è in movimento. La nostra è una società fortemente mobile; noi tutti (chi più chi meno) ci muoviamo. Soprattutto i giovani si muovono molto: non solo viaggiano molto (aspetto marginale della mobilità), ma soprattutto cambiano atteggiamenti, stili di vita, convinzioni, modi di vivere, spesso anche quadro di valori.
    Anche l'identità data dall'appartenenza religiosa si è indebolita. Un tempo identificare appartenenza religiosa e appartenenza alla Chiesa cattolica, in un paese come l'ltalia, era un fatto quasi normale: si era cattolici oppure atei o indifferenti; oggi non è più così, e fenomeni come quelli delle nuove sètte interpellano fortemente anche i gruppi giovanili. La stessa identità religiosa non è più ricevuta come un patrimonio acquisito dalla famiglia, ma appare come qualche cosa da costruire giorno per giorno.
    Sarebbe anche interessante fare alcune osservazioni sotto il profilo dell'identità sessuale, più propriamente dei ruoli maschile e femminile sino a un recente passato acquisiti e ormai fortemente rimessi in discussione: che cosa vuole dire oggi essere donna e che cosa vuole dire, correlativamente, essere uomo? L'identità femminile è diventata un problema, probabilmente uno dei più seri problemi della società contemporanea; ma correlativamente viene messa in discussione anche l'identità maschile. Il padre era, ancora vent'anni fa, colui che lavorava e portava lo stipendio e che, arrivato a casa, si piazzava a leggere il giornale e poi a guardare la televisione. Oggi il padre è diventato un'altra cosa: il ruolo femminile ha modificato il ruolo maschile.
    In sintesi, allora, possiamo dire che gli elementi tradizionali della «identificazione personale» (l'appartenenza ad un determinato gruppo sociale, una certa fede religiosa o comportamento religioso, un certo modo di essere uomo o di essere donna, una certa appartenenza ideologica e così via) si sono ormai attenuati e scoloriti. Forse rimane l'elemento nazionale: essere italiani, l'appartenenza nazionale. Ma mi domando se nell'Europa del futuro la stessa identità nazionale, come è probabile e come avviene già a livello di nuove generazioni, non sarà rimessa in discussione. Quali saranno allora i reali elementi di identificazione della nostra personalità?
    In questo senso credo che si possa parlare in qualche modo di una sorta di «io perduto», e di una faticosa ricerca quotidiana della propria identità al di là di appartenenze che sono strutturalmente appartenenze parziali.

    Le molteplicità delle appartenenze

    Un'altra caratteristica della società complessa, messa in evidenza in una recente indagine intitolata Italia Cattolica, relativa soprattutto alla religiosità (ma non solo ad essa), è appunto la molteplicità delle appartenenze. Da un certo punto di vista ci si arricchisce avendo molte appartenenze, ma quando si hanno moltissime appartenenze si finisce poi col non averne più nessuna; le appartenenze parziali potrebbero anche significare la mancanza di una appartenenza totale.
    A tale riguardo va sottolineata l'importanza che questa frammentazione delle appartenenze ha dal punto di vista religioso, perché se vi è un ambito di appartenenza in cui non si può scegliere la via dell'appartenenza parziale, questo è l'ambito religioso. Appartenenza parziale infatti vuol dire che si accetta solo qualche cosa di Dio: Dio creatore per esempio, ma non il Dio giusto; che si accetta qualche aspetto della chiesa, ad esempio l'etica politica, ma non l'etica sessuale, e così via.
    Il rischio del moltiplicarsi delle appartenenze parziali è alla fine quello della perdita della soggettività; si è di fronte ad un «io» frammentato che si ritrova in tanti ambiti, ma non è più capace di reperire un punto di unità. Quale può essere questo possibile cemento di unità, questo punto fermo, questo luogo forte dell'identificazione? Credo che non possa essere che la ritrovata capacità di essere autenticamente persone: soggetti capaci di farsi oggetto a se stesso, capaci cioè di prendere anche le distanze da sé, di guardarsi in qualche modo dal di fuori, e in certa misura «sdoppiarsi» per riconoscersi e per ritrovarsi. Persone, dunque, che non si consumano, non si disperdono, non si immergono totalmente nella soggettività, ma hanno quella capacità critica grazie alla quale sanno guardare in se stessi; una capacità critica che si apprende soprattutto nella capacità di relazione con l'altro, nel misurarsi con il volto dell'altro.

    Misurarsi con il volto altrui

    L'altro può essere visto fondamentalmente in due modi. In modo negativo, nella contrapposizione fra «amico» e «nemico»; in questo caso l'altro è sempre in qualche modo un nemico, che mi aiuta a comprendere me stesso ma in una relazione dialettica concorrenziale, al limite conflittuale. Oppure l'altro invece può essere il vicino, l'amico; può essere - come appunto dice Lévinas sulla scia di tutta la lezione del personalismo - il «volto» che, manifestandosi a me, rivela il mio stesso volto.
    Il volto dell'altro diventa manifestazione del mio stesso volto, rivela il mio essere profondo. Il rapporto «io-tu», il rapporto con l'altro, non è più una relazione conflittuale ma una relazione amicale, l'embrione di quella società fraterna che è la grande utopia direttiva non solo del cristianesimo ma di altri movimenti di pensiero; un'utopia ora forse in crisi ma che riemergerà, perché appunto come rivelazione dello stesso in una società complessa, che tende a diventare sempre più conflittuale e concorrenziale, serpeggia naturalmente questa nostalgia di un mondo di rapporti amicali in cui il volto dell'altro appaia appunto come rivelazione dello stesso volto attraverso la manifestazione prioritaria del sentimento di amore, che poi è il più grande e potente fattore di identificazione personale.

    LA COMUNITÀ CRISTIANA

    Di fronte alla complessa realtà che abbiamo cercato di descrivere (l'emergere prepotente delle soggettività, l'affermazione della società complessa, la frantumazione dei valori) quale può essere il ruolo della comunità cristiana anche come punto di riferimento dei processi di realizzazione di sé e di identificazione personale?
    Il ruolo della comunità cristiana e specificamente dei gruppi giovanili può essere duplice: ora consolatorio, ora critico. Le comunità cristiane, le parrocchie, le associazioni, i gruppi giovanili, possono assumere un ruolo «consolatorio» quando, in un mondo fatto di mille appartenenze parziali, aspirano ad essere una sorta di luogo di appartenenze totali. Di fronte alle sollecitazioni infinite che ci vengono da mille parti si tenta, in questi casi, di fare della comunità cristiana il luogo in cui viene in qualche modo soddisfatta quella nostalgia di appartenenza alla quale prima si faceva riferimento.
    Atteggiamento, questo, non esente da rischi e che può trasformare la comunità cristiana da «luogo teologico», nel quale si va alla ricerca di Dio e quindi si corre il rischio di Dio, in «luogo sociologico», come sostituto di altri luoghi di appartenenza, dalla famiglia alla società, entrati ormai in crisi; un luogo nel quale ci si gratifica, ci si incontra, ci si consola, ci si rifugia dalle burrasche di un mondo lontano e ostile.
    La comunità cristiana è certo sicuramente un luogo nel quale si entra, nel quale si impara a diventare se stessi; ma è un luogo dal quale bisogna anche saper uscire. Un gruppo nel quale si sa soltanto entrare e dal quale non si sa più uscire per testimoniare corre il rischio di diventare luogo sociologico e non più luogo teologico, luogo della consolazione e non più luogo del rischio. Invece il ruolo della comunità cristiana dovrebbe essere quello di farsi luogo critico di una lettura approfondita senza veli, senza remore, senza paure della società contemporanea, con l'attitudine a cogliere i segni nei tempi per poter testimoniare poi la propria fede agli uomini di questo tempo, non a immaginari uomini di ieri o a ipotetici uomini di domani.
    È questa la logica dell'incarnazione, che soddisfa alla fine anche una legittima ricerca di appartenenza: non risolve però l'essere credenti esclusivamente nell'appartenenza, ma educando anzi i credenti ad assumersi sino in tondo il peso della storia. È questa l'autentica riscoperta della laicità che siamo chiamati a operare in quella società complessa di cui si è parlato. Un grande teologo, Yves Congar, ha affermato che il laico «è un uomo per il quale le cose esistono, per il quale la loro verità, la verità delle cose, non è come assorbita né abolita da un punto di riferimento superiore»; il laico come uomo per il quale le cose esistono, come uomo dunque che sa prendere sul serio la storia e della storia fa il campo di esercizio della sua laicità: solo attraverso l'esercizio di questa laicità potremo farci veramente compagni di strada degli uomini e delle donne nel nostro tempo.


    T e r z a
    p a g i n A


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