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    Cosa è la morte?



    Mario Pollo

    (NPG 1995-02-44)


    Premessa

    "La Rochefoucauld diceva che non si può guardare in faccia né il sole né la morte".[1] Ma mentre attraverso l'astronomia l'uomo con vari artifici è riuscito a guardare in faccia il sole e a studiarlo in profondità, altrettanto non ha fatto con la morte che continua a inquietarlo con il suo insondabile mistero. E questo nonostante la morte quotidianamente sia rappresentata e descritta impietosamente, soprattutto nelle sue forme violente, dai mass media. Il suo senso e la sua natura non vengono però mai sfiorati, anzi vengono accuratamente rimossi, da queste descrizioni.
    La metafora della morte, come quella di un sole abbagliante che non si può guardare, se non per un breve istante, pena l'accecamento, descrive ancora oggi correttamente il rapporto ambiguo dell'uomo con questo evento che segna ineluttabilmente il destino della sua vita terrena.
    Questa metafora aiuta poi a capire che la morte deve essere studiata utilizzando accorgimenti che salvaguardino lo sguardo dell'osservatore dal rischio dell'accecamento, ovvero della perdita della coscienza e dell'equilibrio interiore che è alla base dell'amore alla vita.
    La contemplazione della morte è infatti un esercizio rischioso in quanto "la coscienza ossessiva della morte al suo massimo grado fa appassire o marcire la vita conducendo alla follia a al suicidio".[2] Allo stesso modo coloro che vivono come se non dovessero mai morire, che non pensano mai alla morte corrono un rischio altrettanto grande che è quello dell'atrofia della loro individualità cosciente, del loro Sé.
    L'analogo degli accorgimenti utilizzati dagli astronomi per lo studio del sole che si possono usare per osservare la morte è costituito dall'osservazione delle forme culturali attraverso cui l'uomo ha cercato di fronteggiare il profondo orrore e l'inquietudine che questo evento ha da sempre prodotto nella sua vita.

    La morte, la specie e l'individualità

    L'immagine della vita nell'universo può essere rappresentata da una barca che faticosamente cerca di risalire l'impetuosa corrente di un fiume. Infatti l'universo, e l'organizzazione fisico-chimica della materia che lo costituisce, va nella direzione dell'aumento dell'entropia, in quanto esso è "assoggettato ad un principio di degradazione, di disintegrazione e di dispersione irrevocabile"[3] che lo porta verso uno stato di omogeneità indifferenziata, di morte, mentre la vita va esattamente nella direzione contraria producendo una entropia negativa, in quanto essa ha come proprio fondamento il principio dell'evoluzione, dell'integrazione, dell'organizzazione e della differenziazione.
    In questo universo, che va lentamente ma inarrestabilmente verso la morte, la vita tenta di affermare le proprie ragioni, nutrendosi proprio delle energie che spingono l'universo verso il suo decadimento.
    La stessa morte biologica è uno dei mezzi attraverso cui le specie viventi tentano di contrastare questo decadimento. Infatti le specie viventi per mezzo tanto della riproduzione, quanto della morte si riorganizzano continuamente e trovano nuovo vigore nella lotta per l'affermazione della vita. Il nuovo individuo di una specie giovane e forte sostituisce quello più vecchio e debole, cancellando gli effetti del tempo.
    La morte, consentendo il ricambio degli individui, appare funzionale alla sopravvivenza ed allo sviluppo della specie in un universo condannato al progressivo decadimento.
    Se si considera la società come una forma in cui nell'umano si esprime l'organizzazione della specie si deve convenire che "essa esiste in quanto organizzazione solo attraverso, con e nella morte" e che la cultura, intesa come "un patrimonio collettivo di sapere, di savoir-faire, di regole organizzative, ecc., ha un senso solo perché le vecchie generazioni muoiono e occorre trasmetterla alle nuove. Ha un senso solo in quanto riproduzione, e questo termine assume il suo significato pieno in funzione della morte".[4]
    Tuttavia nell'uomo, nonostante la sua funzionalità per la specie, la morte è un trauma, in quanto gli appare come un vero e proprio tradimento della sua sete di vita individuale, che lo induce ad un suo radicale rifiuto.
    Il rifiuto della morte nell'uomo nasce, infatti, dal fatto che essa è la distruzione dell'individualità, della singolarità irripetibile di cui ogni membro della specie umana è portatore. Non è, infatti, un caso che il trauma che la morte provoca sia tanto più forte e profondo quanto più il morto era conosciuto, "intimo, familiare, amato e rispettato, vale a dire «unico»".[5]
    Si può affermare che il trauma della morte nasce nella condizione umana nel momento in cui si verifica la coscienza della differenziazione dei membri che la compongono in quanto individui unici. Il trauma della morte è, da questo punto di vista, una sorta di indicatore del conflitto tra l'appartenenza alla specie e l'affermazione dell'individualità cosciente tipica dell'essere umano.
    Proprio questo conflitto rivela che nella vita umana il senso della morte non può essere ricondotto a quello della necessità di sopravvivenza della specie. L'individualità non si piega, infatti, alle esigenze della morte come difesa della specie, ma si erge possente contro di essa e afferma le proprie irriducibili ragioni.
    Ciò che consente all'uomo di ergere la propria individualità contro le ragioni della morte è la sua coscienza nella quale alberga la speranza dell'immortalità. E proprio questa affermazione dell'individualità, contro e nonostante la morte, che è alla base della rottura nella condizione umana del rapporto individuo-specie tipico delle altre specie animali.

    La fede nell'immortalità

    Nella storia multimillenaria delle culture umane compaiono sia due forme di mito che esprimono la speranza dell'uomo nell'immortalità: quella della morte-rinascita e quella del doppio, sia una forma di mito in cui si manifesta la ricerca dell'eterna giovinezza in cui, tra l'altro, sono confluiti alcuni programmi moderni di ricerca scientifica finalizzati al prolungamento della vita umana.
    Anche se il Cristianesimo proporrà il superamento radicale di questi miti, molte forme in cui essi si esprimevano, continuano ad essere presenti nelle culture locali, nelle superstizioni e nelle credenze di molti popoli.
    La loro presenza oltre che dagli antropologi e dai sociologi è stata rilevata anche dagli psicologi del profondo.
    Alcuni studiosi vedono nelle varie forme in cui si esprimono i miti della morte - rinascita il riflesso, anche se molto vago, dell'osservazione del ciclo biologico vegetale, del corso ciclico della luna e di quello giornaliero del sole, mentre nei miti del doppio vedono quelli dell'esperienza dello specchio, dell'ombra e della riproduzione cellulare.
    I miti legati alla ricerca dell'eterna giovinezza, o dell'amortalità, rappresentano, invece, una forma più radicale di rifiuto della morte.
    Tutti questi miti, al di la che si condividano le spiegazioni razionali della loro formazione o che, viceversa, si veda in essi una sapienza delle origini velata, indicano le strade che sin dalle epoche più arcaiche l'umanità ha percorso per dare una risposta al bisogno di non vedere dissolvere l'individualità dei suoi membri nell'evento della morte.
    Le due strade, quella della morte - rinascita e del doppio, sono spesso intrecciate e integrate nelle credenze sia dei popoli primitivi che di molti individui contemporanei. Ad esempio nel libro tibetano Bardo-Thodol viene detto che durante l'agonia il doppio abbandona il morente per risvegliarsi nel mondo del Bardo, da cui, dopo una serie di incredibili prove, rinascerà secondo il proprio Karma. Nei miti dei Daiachi del Borneo il doppio, per mezzo di un viaggio pieno di peripezie, giungerà nella città dei morti in cui resterà, morendovi e rinascendovi, per sette generazioni per poi ritornare, rinascendo, sulla terra. Sono solo due tra gli innumerevoli esempi che le ricerche degli antropologi hanno reso disponibili, che indicano come le due forme mitiche si intreccino. Intreccio che può essere riassunto nell'espressione degli Ashanti: "Una nascita in questo mondo è una morte nel mondo degli spiriti".

    I miti della morte rinascita

    Il mito della morte rinascita si basa sulla credenza che il morto si reincarni in un neonato. Appartengono a questo mito arcaico, sia la ricerca che i monaci tibetani fanno in un bambino nato al momento della morte del Dalai Lama della sua reincarnazione, sia l'accorrere al capezzale di un morente da parte delle donne algonchine che vogliono avere un figlio in quanto sperano che l'anima del morente nel momento della morte entri in loro provocando la loro gravidanza.
    Questo tipo di credenza riguarda ancora oggi circa seicento milioni di persone ed ha avuto una diffusione in ogni parte del mondo. Una piccola sopravvivenza di questa credenza la si ha anche in alcuni paesi europei ed è leggibile sia nell'abitudine di alcuni gruppi sociali di dare al neonato il nome del genitore, del nonno o dello zio morto e sia, in modo molto più accentuato, in molte forme odierne di occultismo.
    Accanto alle credenze nella rinascita del morto nei nuovi esseri umani si sono sviluppate quelle della sua rinascita in animali o vegetali. Queste credenze nella reincarnazione dell'uomo in qualsiasi forma vivente hanno preparato la strada alla concezione della metempsicosi, ovvero della morte-rinascita che si realizza all'interno dell'intera natura vivente.
    Il mito della morte-rinascita, al di là della specie in cui la rinascita avviene, assicura comunque il permanere dell'individualità.
    La credenza nella morte rinascita è quella che ha portato in molte culture umane, anche europee, all'associazione della morte con la fecondità. Ad esempio "L'antica festa indiana dei morti coincide con quella del raccolto. Per lungo tempo la festa di Saint-Michel fu la festa dei morti e della mietitura. A Lipsia (Folklore) si mostra una immagine della morte per renderle feconde. In Moravia, in Transilvania, in Lusazia, l'effigie della morte viene portata fuori in primavera e la si brucia tra riti di fecondazione e di resurrezione."[6]
    È interessante notare come sia stato proprio questo rapporto tra morte e fecondità a fondare i riti magico-sacrali del sacrificio cruento di un essere vivente.
    Secondo poi alcune interpretazioni provenienti dalla psicologia del profondo e dall'antropologia il mito della morte - rinascita sarebbe alla base di potenti immagini e simboli che sono presenti nella vita degli individui e dei gruppi sociali ancora oggi. Basti pensare alle immagini che tendono a definire come materno il suolo dove la persona è nata e che confluiscono in
    espressioni come quelle della "madre patria". Oppure dell'acqua come simbolo della potenza della maternità o della rinascita.
    Infatti sin dalle epoche più arcaiche la sepoltura del morto è stata legata anche al motivo del reintrodurlo nella terra, nell'utero materno primordiale, da cui rinascerà. Questo ha di fatto portato ad una progressiva sacralizzazione della propria terra di nascita e fondato il concetto di sacralità della patria.
    Questa concezione è ancora presente oggi nelle persone che vogliono essere sepolte, al di la di dove hanno vissuto la loro vita, nella terra in cui sono nati. È lo stesso motivo per cui vengono rimpatriate le salme dei soldati morti in terra straniera.
    Anche le acque hanno un forte valore simbolico materno in quanto nei miti, negli archetipi e nei simboli che attraversano le varie religioni esse sono sempre fonte di vita o di rinascita. Basti pensare all'abisso delle acque primordiali da cui è stato tratto il mondo che è presente in molti miti intorno alla creazione del mondo, oppure alle sorgenti dell'eterna giovinezza o alle acque che circondano gli inferi e le isole dei morti. Occorre, infatti, sapere che nel pensiero mitico le acque della vita sono spesso anche le acque della morte. Anche nella moderna psicologia del profondo le acque sono simultaneamente sia il simbolo della generatività della vita sia della sua distruzione. I riti di purificazione e di rigenerazione attraverso l'acqua sono diffusi in molti contesti religiosi differenti.
    Il perché la concezione mitica della morte - rinascita fa delle acque un luogo di rinascita, è forse racchiuso nel ricordo ancestrale della vita intrauterina del feto che si sviluppa e vive in un ambiente acquatico.
    Affidare un cadavere all'acqua è in alcune culture null'altro che il consegnarlo alle acque madri dei primordi che lo faranno rinascere.
    Tutte queste immagini e simboli sono il sostegno attraverso cui la tenace speranza dell'uomo nel permanere della sua identità individuale dopo la morte si è espressa, e ancora per molti si esprime, negli atti della sua vita quotidiana.

    I miti del doppio

    La sepoltura dei morti con un corredo di armi, di cibo e di oggetti vari, di cui le testimonianze archeologiche indicano la presenza sin dal paleolitico indicano la presenza dell'altro mito intorno alla morte: quello del doppio. Ovvero della credenza che "i morti vivono una loro vita, come i vivi".[7] I morti secondo questa credenza, altrettanto universale come quella della morte-rinascita, non sono puri spiriti ma hanno un loro corpo materiale che è però invisibile allo sguardo dei vivi.
    Nella cultura greca il doppio si manifestava con l'eidolon, in quella romana con il genius, in quella egiziana con il Ka, in quella persiana con il fravashi e in quella ebraica con il rephaim.
    Nei tempi moderni questa credenza è sopravvissuta attraverso quella nei fantasmi.
    Il doppio non va inteso come un corpo particolare che si forma dopo la morte ma come un corpo che già accompagnava quello della persona già nel corso della sua vita.
    Il doppio è stato inteso come "un alter ego e, più precisamente, un ego alter che l'essere vivente avverte dentro di sé, ad un tempo esterno e intimo per tutta la vita". [8]
    La presenza di questo ego alter è stata identificata, ad esempio, in molte culture nell'ombra ed questa identificazione ha dato vita ad una serie molto grande di divieti e di tabù destinati sia a proteggere che a proteggersi dall'ombra-doppio.
    In molte superstizioni popolari balenano residui di questa antica credenza che testimoniano le paure ed i timori che l'ombra per la sua associazione con la morte provocava nei viventi. Non si può ad esempio secondo queste superstizioni "far passare la propria ombra sul cibo né incontrare l'ombra delle donne incinte o della suocera, né ancora far cadere la propria ombra sul morto [....]. Altre superstizioni ci dimostrano che colpendo l'ombra si colpisce l'essere vivente. I diritti arcaici, come per esempio il diritto germanico, conoscono il castigo dell'ombra; la magia può praticare i suoi sortilegi tanto sull'ombra che sull'effigie. Dall'ombra sarà possibile ricavare presagi che, secondo l'ambivalenza morte-rinascita caratteristica dei presagi macabri, potranno significare la morte o una lunga vita. In Germania, Austria, Jugoslavia, si usa accendere una candela la notte di Natale e colui che proietta un'ombra senza testa morirà entro l'anno.. Naturalmente i morti che sono le ombre stesse, non hanno ombra nella loro vita aerea o infernale. Il morto che risuscita sarà riconoscibile, secondo i greci, dalla mancanza di ombra. E troveremo, inoltre nel purgatorio dantesco morti senza ombra."[9]
    L'immagine umana proiettata in uno specchio era, ed è concepita ancora in alcune culture arcaiche, come l'immagine del doppio. Da qui nascono i timori superstiziosi che accompagnano la rottura dello specchio o le pratiche, ancora in uso in molti luoghi, anche italiani, di velare gli specchi durante il lutto o il venerdì santo.
    Il doppio, e qui sta la manifestazione della credenza nell'immortalità, non muore. la morte è intesa solo come una malattia, un evento che tocca il corpo sensibile, corruttibile e mortale, mentre l'altro, quello del doppio, continua a vivere.
    Il doppio continua a possedere gli stessi bisogni, sentimenti e passioni dei vivi. È questo il motivo per cui in molte culture arcaiche nella tomba del morto venivano posti cibo, armi e addirittura i servitori, magari attraverso simulacri-statuette dei servitori o dei guerrieri necessari ad assicurare al doppio lo svolgimento della sua vita in condizioni simili a quelle che aveva prima della morte.
    Allo stesso modo molti paradisi (Walhalla, Campi Elisi) non sono altro che rappresentazioni dell'ideale di vita desunto da quello degli strati sociali più ricchi e dotati di potere. Questo tipo di paradiso non era null'altro che la proiezione del desiderio di una vita terrena ricca di piacere e di soddisfazione piena del desiderio. Da notare poi che questi ideali erano tipicamente maschili.
    È interessante, infine, notare come proprio la credenza nel doppio sia alla base sia delle forme di trattamento del cadavere: sepoltura, mummificazione-imbalsamazione, cremazione e endocannibalismo, sia di quelle del lutto. Infatti normalmente l'acquisizione piena della nuova condizione di vita, in queste credenze, il doppio l'acquisiva solo al termine della decomposizione del suo cadavere. Infatti nel periodo della decomposizione il corpo ed il doppio sono ancora uniti e, quindi, il doppio non può essere se stesso.
    Le pratiche tese o all'eliminazione della decomposizione, o alla sua accelerazione erano finalizzate alla liberazione del doppio. In molte culture, dove è usata la sepoltura, il lutto dura grosso modo quanto la durata del processo di decomposizione del cadavere. In questo periodo domina il terrore o l'angoscia perché "durante il lutto, il morto si trova tra due vite, spaventoso, amaro, astioso, la sua putrefazione è contagiosa: la vedova ed i parenti vengono isolati, condannati ad una vita abietta, la loro casa e le loro vesti portano il marchio del tabù che li rende intoccabili. Ancora oggi, per quanto alcuni significati "morali" ne camuffino i significati magici, il nero segnala, il velo isola, il lutto rinchiude durante il periodo orribile. Il lutto e le pratiche funerarie sono, quindi, in origine determinati dalla decomposizione ed alla preoccupazione di proteggere da questa sia il doppio che i vivi. Tutti mirano ad assicurare la migliore permanenza del doppio".[10]
    Originariamente le dimore dei morti, gli inferi non erano fredde e cupe come più tardi appariranno nelle civiltà classiche e anche nell'antico Israele. Questo perché si riteneva che gli inferi fossero sotto la terra, pensata come un disco piatto, che il sole raggiungeva al tramonto e che aveva, quindi, una sua vita solare da cui però erano assenti sia il dolore che le calamità che affliggono la vita dei vivi.
    La trasformazione degli inferi in luoghi tristi, cupi come l'ade greco, l'istar babilonese o lo sheol ebraico compariranno con la svalutazione e l'abbandono nella credenza arcaica nel doppio.
    Con la nascita dell'anima, che spiritualizza e supera la concezione del doppio, il paradiso dal grembo della madre terra si sposterà verso il cielo e gli inferi o saranno dimenticati o diventeranno un luogo di pena, infelicità, dolore o di incommensurabile tristezza.

    Oltre il mito

    L'esplorazione sommaria, compiuta con l'aiuto di Edgar Morin, dei due miti che nelle civiltà arcaiche hanno dato forma alla speranza dell'uomo nell'immortalità della sua individualità, ha permesso di prendere coscienza della ricerca compiuta dall'uomo, al di fuori o prima della Rivelazione, del senso della suo essere individuo cosciente all'interno del divenire del tempo. Tempo che nell'esperienza umana tende ad abolire le differenze riducendo a quell'indistinto di cui la morte è la porta di ingresso.
    Si è anche visto come i residui dei due miti arcaici balenino ancora oggi in molte credenze, superstizioni e riti popolari. Per non parlare delle forme dell'occultismo e dello spiritismo che propongono una ripresa pressoché integrale del mito del doppio. Anche nell'arte balenano queste antiche suggestioni, pur purificate e sublimate, a indicare come l'uomo a fronte del trauma della morte cerchi disperatamente, specialmente se è privo della rivelazione della Fede, l'elaborazione di un pensiero o di una credenza che ravvivi la sua speranza di poter continuare ad essere individuo al di là della morte.

    Conclusione

    Osservando la vita contemporanea si ha l'impressione molto forte che sia la rimozione della morte, sia il suo tentativo di secolarizzazione all'interno di una cultura areligiosa, lungi dall'avere prodotto un modo razionale di affrontamento di questo evento, abbia viceversa prodotto o un riaffiorare di miti e di temi arcaici che rimandano l'uomo ad una condizione esistenziale per molti versi regressiva, o a una sorta di malessere che distrugge alle radici la possibilità di risposta alle sue domande sul senso del suo essere individuo, unico ed irripetibile nell'orizzonte del mondo.
    In verità per alcune minoranze intellettuali e politiche è emersa una sorta di ricerca dell'amortalità attraverso sia le ricerche scientifiche per il prolungamento della vita, sia il tentativo di ricostruire un legame tra uomo e specie umana, per mezzo dell'evoluzione sociale della civiltà, in cui il senso della vita individuale si esprime nel suo contributo alla affermazione di una più alta qualità della vita umana. Secondo quest'ultima concezione ogni sforzo evolutivo compiuto dall'individuo vivrebbe nelle generazioni successive. "Ciò vuol dire che l'essere vivente ha potuto e può resistere alla morte solo evolvendosi e che evolversi significa perdere qualcosa dell'identità e dell'individualità. È questo è il problema che si pone all'uomo: l'individualità può sfuggire alla morte solo accettando la metamorfosi, cioè immergendosi nella morte-rinascita".[11]
    Dove la rinascita avviene non più a livello individuale ma, attraverso il tramite della società, della sua cultura sociale, nella specie.
    Questo significa che nella cultura sociale attuale anche il tema della morte partecipa della complessità che la caratterizza. Infatti accanto a quelli tipici della rivelazione cristiana e delle altre grandi religioni, convivono differenti modi di porsi nei confronti della morte che vanno da quelli più arcaici a quelli tipici delle utopie scientifiche, umanistiche e politiche, passando per le patologie esistenziali che il suo rifiuto produce.
    Tuttavia a ben vedere nessuna di queste forme "nuove" di pensare la morte riesce a scalfirne il mistero, né, tanto meno, a sopprimere il bisogno di affermazione dell'individualità e dell'identità del singolo uomo al di la della morte.
    Questo è talmente vero che anche quando l'uomo contemporaneo rifiuta di considerare la sua mortalità e vive come se non dovesse mai morire, i suoi atti quotidiani e le sue credenze manifestano comunque che essi in qualche modo sono un tentativo di dare risposta al suo profondo bisogno di sapere che la sua individualità non scompare con la morte. Molte di queste risposte sono però regressive e rinchiudono l'uomo all'interno di una illusorietà che inquina la sua stessa vita, introducendo in essa la distruttività della morte. La sete umana di vita, infatti, quando non fa i conti con la morte ed il suo senso, rischia di divenire essa stessa produttrice di morte.
    Nell'uomo emerso alla coscienza la morte segna il suo orizzonte esistenziale e la sua vita trova la pienezza solo quando incontra il suo senso di fronte alla morte.


    NOTE

    [1] Morin E, L'Uomo e la Morte, Newton Compton Editori, Roma 1980, p. 17
    [2] Morin E., ivi, p. 57
    [3] Morin E., ivi, p. 7
    [4] Morin E., ivi, p .8
    [5] Morin E., ivi, p. 29
    [6] Morin E., op. cit., p. 102
    [7] Morin E., op. cit., p. 118
    [8] Morin E., op. cit., p. 121
    [9] Morin E., op. cit., p.120
    [10] Morin E., op .cit., p.125
    [11] Morin E., op. cit., p. 304


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