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    Così la vita si disvela nella sua realtà



    Intervista a giovani

    Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1995-02-9)


    Incontro un gruppo di universitari ("exallievi ed exallieve" del liceo salesiano di Villa Sora - Frascati) che da qualche anno compiono un cammino di fede (e di impegno nel sociale), animato dal loro "vecchio" prof di filosofia. Ho chiesto loro di riflettere "da giovani" sul tema della morte, senza fare accademia filosofica. Qualche momento di imbarazzo, ma il tema "prende", è sentito come cruciale anche per un'esistenza di vent'anni. Forse perché la morte, presso i giovani, è più di casa di quanto non sembri.
    Le domande erano più o meno le seguenti:
    - Racconta la tua "esperienza" della morte. Quando essa ti è apparsa come un fatto non indifferente ma provocante, interrogante?
    - Nella società e nella loro vita i giovani fanno esperienza quotidiana (almeno simbolicamente) della morte. In quali esperienze?
    - La morte presenta un suo fascino, come sembra dimostrare una certa frangia di giovani. Qualcuno sembra rincorrerla, altri sfidarla. Come si atteggiano i giovani di fronte alla morte? Perché?
    - La morte interroga non solo i pensatori, i filosofi, i letterati, ma con essa deve fare i conti ogni uomo, la vita quotidiana. Al di là delle esaltazioni retoriche o dello schivare il problema, cosa ti dice la morte, come ti provoca, cosa provoca in te?
    - La morte costringe a ripensare la vita da una nuova prospettiva. Cosa diventa la morte dopo la riflessione o l'esperienza "vicina" di essa?
    - Cosa può significare per te "possedere" anche la morte? E cosa aggiunge la fede alle riflessioni "umane" sulla morte?
    L'andamento della conversazione non procede naturalmente secondo gli schemi della logica scritta, ma secondo una ripresa continua e uno scavo dei temi che i giovani hanno sentito di maggior rilevanza per la loro vita.

    UN'ESPERIENZA CHE MI TOCCA DA VICINO

    Marco (23 anni, scienze politiche). L'esperienza della morte mi ha colpito, personalmente, qualche anno fa per un problema di esaurimento nervoso. La mia vita è diventata così complicata che pensavo continuamente che solo la morte potesse risolvere tale situazione. Non la vedevo dunque come una situazione estrema, ma come un'ancora di salvezza.
    Ma mi rendevo anche conto che questo era un modo per fuggire dalla realtà, dai tantissimi problemi che sentiamo come nostri nel momento in cui vi urtiamo contro.
    E così non ho paura della morte, perché è il destino di ognuno, il presupposto di ogni divenire. Viviamo sapendo che in ogni momento può accadere qualsiasi cosa di tragico.

    Emanuele (21 anni, giurisprudenza). Nella mia famiglia, che ha vissuto l'esperienza cristiana semplice, delle persone di umili origini, che vivono la loro fede più come una sorta di piccola morale quotidiana, la morte non è stata mai uno spauracchio. La morte delle persone care è stata sempre vissuta come un momento di melanconia, di tristezza, e tuttavia una tristezza serena, piena di speranza. La morte, anche quella dei miei cari, non mi ha mai shoccato più di tanto, forse anche perché non mi sono mai fermato a ragionarci su e a mettere a fuoco il problema.
    Il mio primo nonno morì quando ero un ragazzo, e mia madre apprezzò il fatto che io avevo partecipato ai funerali restando tranquillo e sereno. Certo mi dà fastidio l'idea di non vedere più mio nonno, di non sentire la sua voce. Forse, anche vagamente, avevo dei fini utilitaristici, perché è venuta meno una persona che aveva accumulato una saggezza di novant'anni, e quella saggezza in un soffio è andata perduta senza che io me ne possa più servire. Col tempo però, e questo è successo quando è morto l'altro mio nonno, ho cominciato a trovare una serie di oggetti che erano appartenuti a questi miei cari, come libri, diari di guerra, gli occhiali, biglietti che avevo scritto loro quando ero piccolo in occasione della festa della Befana. E soltanto dopo aver trovato questi oggetti ho preso coscienza del fatto che loro erano morti veramente. E mi è venuta una grandissima nostalgia.

    Andrea (21 anni, scienze politiche). Non ho avuto della morte esperienze personali recenti. Tuttavia essa per me è qualcosa di provocante, perché ogni volta che muore una persona che ho conosciuto, con la quale ho avuto un rapporto particolare, mi sento come coinvolto, mi costringe a chiedermi chi sono, cosa penso di diventare. Forse è un po' egoista da parte mia: non penso al dolore che la scomparsa di quella persona può provocare ai propri cari, ma penso solo al mio rapporto con lei. Da una parte dunque vedo la morte come un'esperienza lontana, dall'altra il fatto che muoiano persone che ho conosciuto fa sì che la morte sia contemporaneamente qualche cosa che sta fuori dalla mia porta, sta per bussare e aspetta me.

    Francesco (21 anni, scienze politiche). Io vivo questa esperienza con molto distacco. Di esperienze di morte non ne ho avute molte, e ho sempre tentato di cancellare subito tutto. Ho solo dei buoni ricordi, perché la morte in fondo non emana tristezza, ma il ricordo positivo di una persona. Forse è un non voler affrontare, da parte mia, la morte.

    Andrea. Se ci si fa davvero attenzione, ci si accorge che la morte ci circonda: ogni giorno apro il giornale e ci sono fatti di guerra, di sangue, e anche se sono lontani, sono cifre, la morte si affaccia sulla mia vita. Poi c'è la pagina dei necrologi, le immagini di manifesti funebri, leggo libri che parlano di guerre, stragi, assassini, ascolto alla radio la canzone di un gruppo musicale che inneggia alla morte...

    LA MORTE CERCATA

    Emanuele. Se a me personalmente la morte non fa paura, mi fa paura invece morire stupidamente, per errore, per un incidente stradale; perché dopotutto, potenzialmente, potrei fare ancora qualcosa di buono prima di andarmene dall'altra parte. E' vero che molti giovani entrano con la morte in un rapporto di sfida, quasi con sarcasmo, e penso che le motivazioni sono varie. In parte vi sono ragioni di facciata: i giovani, e soprattutto gli adolescenti, a volta si sentono deboli, incompleti, e l'atto, ritenuto sublime, di sfidare la morte, cioè di mettere in gioco la loro stessa vita, è visto come qualcosa che nel contesto sociale li afferma immediatamente. Per sentirsi in grado di sfidare la morte non si devono fare grandi cose. A volte i giovani si limitano a spingere a tavoletta l'acceleratore, e in quel momento stanno già sfidando la morte e sono contenti che ci siano altri che li vedono. Altri, invece, hanno frustrato l'entusiasmo, la freschezza, il candore, soprattutto a contatto con il mondo degli adulti. Allora tanti sogni, tante illusioni vengono brutalmente represse, e se sono sogni importanti e se sono repressi malamente, molti giovani, forse neanche troppo motivati, possono arrivare facilmente ad incontrarsi con la morte per loro scelta.

    Federica (21 anni, medicina). Ho avuto l'occasione di trovarmi di fronte alla morte in varie situazioni: una persona che ha tentato il suicidio, una persona che si è drogata, ecc. Io non giudico, credo che queste cose facciano parte dell'essere umano e per questo, comunque, hanno un valore. Ma ritengo che un suicidio o il ricorso alla droga dimostri l'incapacità di una persona di affrontare una determinata situazione, un modo di fuggire da un problema che non si ha la forza di affrontare. Così, anche in una situazione normale, come può essere una discussione fra amici o tra ragazzi che stanno insieme, o tra marito e moglie, l'atto di evitare la discussione e di non parlarne rappresenta, in un certo senso, una morte della vita, il voler vivere bene e intensamente evitando i confronti.
    Credo allora che la sfida della morte per superare la paura stessa della morte sia un atto di immaturità, perché la morte, come tutte le componenti della vita, è importante; andare incontro alla morte solo perché non è una cosa che mi fa paura e che mi deve far riflettere, lo giudico veramente un atto di immaturità.

    TRA PAURA, RASSEGNAZIONE, ACCETTAZIONE

    Marco (21 anni, economia e commercio). Penso che la morte provochi in una persona sicuramente qualcosa, un cambiamento del modo di vivere; in me provoca uno stato di confusione. Io vedo la morte in vari modi. E' ciò che dà senso all'esistenza di un altro Essere, di un Dio, e non la vedo solo come qualcosa che limita l'essere umano e che determina la fine dell'esistenza, senza nient'altro che il nulla dopo di essa. Io riesco a credere in Dio grazie alla morte. Allo stesso tempo però la morte per incidenti stradali o la morte di bambini innocenti per malattie gravi o guerre mi porta a riflettere e a chiedermi se esiste veramente un Dio. E qui regna una grandissima confusione, non riesco più a pensare a niente; ho un gran vuoto di fronte al problema del male.

    Annarita (21 anni, lettere). Io mi trovo in una posizione differente, quasi opposta. Sebbene io creda in Dio e mi ritenga abbastanza cristiana, a livello quasi inconscio la morte suscita in me una sensazione di fine, di conclusione, anche se, come conseguenza della mia fede, dovrei essere portata a credere che la morte non è una conclusione definitiva, ma è un qualcosa che prepara ad una rinascita successiva. Tuttavia questo mio atteggiamento nei confronti della morte ha anche avuto degli aspetti positivi, perché sono maggiormente incentivata, almeno teoricamente, a vivere la vita più intensamente, più profondamente, nonostante che ogni uomo debba fare i conti con la morte nella vita quotidiana. Naturalmente a livello quotidiano non riesco però a realizzare questa idea. In ogni caso non è una sensazione angosciante, perché se la morte è una fine, comunque vedo la vita come una cosa talmente intensa, talmente profonda che non mi spaventa l'idea che dopo non ci sia più nulla.

    Paola (19 anni, giurisprudenza). A me la morte fa molta paura, perché non sono molto religiosa e non riesco a spiegarmi perché si debba morire. Il fatto che la morte ponga fine alla vita, e il sapere cosa possa venire dopo, lo vivo in maniera angosciante. Mi interrogo continuamente su questo problema, ma non so dare una spiegazione.

    Ivo (20 anni, medicina). Per me la morte richiama essenzialmente la fragilità dell'uomo, perché essa è un processo di corrompimento del corpo. Al tempo stesso però è una riscossa, perché nella morte risiede l'idea e la realtà di una uguaglianza per tutti. Questo pensiero, se unito alla fede in una vita ultraterrena nella riconciliazione con Dio, mi dà molto conforto.

    Alessandra (20 anni, filosofia). A me la morte non fa paura, anzi la vedo in maniera positiva, perché è il termine naturale dell'esistenza. Non riuscirei mai ad immaginare una vita "senza fine": sarebbe la cosa più atroce che possa capitare. Essa è un dato che esiste e che va accettato. Ogni persona, nel momento in cui nasce, deve tener presente che avrà una fine proprio ciò che è insito nella condizione umana. Di conseguenza, se si accetta coscientemente la propria condizione, si deve accettare necessariamente anche la morte. Quanto a chi rischia la vita, come si diceva prima, penso che ogni cosa abbia una motivazione, si compia per reazione a qualcosa. Così anche la morte va vista come ultima possibilità che una persona ha di esprimere se stessa.

    Ilde (21 anni, accademia di moda). La morte suscita in me diversi sentimenti. Se penso alla morte degli altri provo dolore, angoscia, anche se non conosco direttamente le persone che sono morte. Per le persone care o che si sono suicidate o che hanno sfidato la morte in macchina, provo tristezza, m anche rabbia perché hanno trovato un ostacolo davanti a loro e hanno scelto la cosa più facile in quel momento, il morire, invece di reagire, combattere, andare avanti. La mia morte invece non mi fa paura, l'accetto e sono tranquilla. Essa mi spinge a vivere più intensamente giorno per giorno e ad apprezzare anche le cose più piccole, senza dare tutto per scontato.

    Federica. Una persona è tale nel momento in cui si mette in rapporto con l'altro. Quando "l'altro" muore, chi rimane perde una parte di sé che non potrà mai più recuperare. Si arriva ad un punto in cui si dice: "Da qui in poi sarò un'altra persona, e continuerò in modo diverso". Però, allo stesso tempo, è anche vero che quella persona, se ha saputo vivere e dare, lascia una traccia; è un modo per quella persona di vivere eternamente. Io non voglio cercare il perché della morte. Secondo me è una perdita di tempo. Come si può trovare un senso a un fatto "isolato"? Va accettata come una cosa che accade perché deve accadere, e dopo questa accettazione si deve dare un senso alla vita futura. Non è la morte in sé a dare un senso alla vita, ma è quello che la morte provoca intorno a sé, cioè il fatto tragico che provoca qualcosa nelle persone che restano, che dà un senso alla loro vita.

    IL SUICIDIO DEI GIOVANI

    Francesco. Io vedo la morte razionalmente, come la fine di un ciclo, una cosa naturale che capita a tutti ed è giusto che capiti. Dal punto di vista religioso, invece, ho rinunciato a tentare di capire, perché non mi spiego alcune morti, come quelle di bambini o innocenti. Per le morti stupide, penso che in fondo sia pur sempre una scelta, anche se è quella più facile. Ognuno di noi è libero, e la morte è il prezzo della libertà. Il suicidio non è un atto di vigliaccheria, perché non penso che decidere di morire sia facile. Certo, può essere più facile che combattere ogni giorno per la vita, però non è neanche tanto facile decidere di uccidersi. Quanto al rischio stupido della morte, penso che esprima una specie di volontà di potenza, di immortalità dei giovani. Immortalità presunta, ovviamente. Non è la scelta di volontà di morte, bensì una sensazione di immortalità.

    Cristiana (20 anni, lingue). Io opererei una distinzione tra suicidio conscio e inconscio. Il primo è un atto di estrema autoaffermazione; mentre il secondo (ad esempio quando una persona corre con la macchina) non è un atto di coraggio, perché non si pensa che ci si può uccidere. Per quanto mi riguarda ho risolto questo problema con quello che la filosofia indiana chiama karma, cioè il rapporto di causa ed effetto tra gli eventi. Si sa che la teoria indiana ammette la reincarnazione e, quindi, anche quella che può essere una morte stupida o ingiustificata in realtà ha un significato e un motivo di essere. Si fa sempre capo al punto di vista che ognuno di noi sceglie di vivere una certa vita prima di incarnarsi, per risolvere delle questioni in sospeso con le altre persone che ha incontrato nelle vite precedenti. In un incidente una mia cara amica perse la vita scontrandosi con un'auto frontalmente, e morì nello scontro anche il guidatore della vettura in questione. Io ho pensato che evidentemente quel guidatore aveva una questione in sospeso con la mia amica in un'altra vita. Ho reagito così. Questa esperienza mi è servita per cercare di vivere con la filosofia del carpe diem, nel senso più corretto, cioè di non aspettare che una persona no ci sia più per rendermi conto di quanto può valere, ma di riuscire a vivere momento per momento. Ci sono morti molto peggiori di quella fisica, ad esempio una morte subdola, come nel caso di persone che ti deludono, e che quindi è come se per te morissero.

    Emanuele. Io penso che il suicidio sia un atto stupido. A chi mi parla di esperienza dell'assoluto, a chi mi dice che il suicidio è l'atto di estrema libertà, rispondo che si contraddice, perché proprio nel momento in cui si manifesta questa estrema libertà, che è quella di dire basta a tutto, automaticamente ci si preclude ogni altra libertà. Dico che il suicidio è stupido, ma posso, per pietà e solidarietà umana, capire; invece non capisco chi non è arrivato a meditare il suicidio, eppure lo esalta come un'esperienza di grande valore. Suicidio come atto di forza? Non ci credo.

    Federica. Secondo me, il suicidio non è né un'autoaffermazione né un atto di libertà, né un atto di coraggio. Autoaffermarsi vuol dire "io sono", e io non vedo nel suicidio un rapporto del genere. Mi sembra di aver capito che persone che arrivano a pensare il suicidio sono persone che vivono in una certa situazione in cui il suicidio è l'unica soluzione, l'unica via d'uscita. Allora non è un atto di coraggio, è un voler dire: "Basta, non ce la faccio più, diamoci un taglio!". Io non dico che chi arriva al suicidio è vigliacco, perché in quella situazione il suicidio è l'unica chance. Tuttavia, non è un atto di libertà e quindi non è un atto di coraggio.

    IL PENSIERO DEL DOPO

    Marco. La morte provoca in me curiosità. Non dico che non ho paura della morte, però quello che mi interessa è il dopo. Cosa si lascia di sé dopo la morte? Certo, il pensiero. Io mi riferisco, però, al fatto spirituale e sensitivo: la persona che muore può avere dei rapporti con i propri cari? come si può comunicare con queste persone? Il problema di comunicare dopo la morte con una persona a cui si era molto affezionati e che improvvisamente manca, mi affascina. E poi, anche credendo nell'aldilà, in quello che può venire "dopo", è molto difficile per me immaginare cosa i defunti possono provare e dove possono andare: questo per me è un grosso problema.

    Ambra (19 anni, giurisprudenza). Prima d'ora non ho mai riflettuto sulla morte. Francamente ho un'estrema paura, però la parola "morte" produce in me una duplice sensazione a seconda degli stati d'animo in cui mi trovo. A volte la vivo proprio con terrore, perché non riesco a capacitarmi che un giorno io non ci sarò più e che di me rimarrà solamente un ricordo, e per di più solamente tra coloro che mi conoscono. Altre volte. con un diverso stato d'animo, la vedo come qualcosa di ineluttabile e di naturale, quindi rifletto tra me e me, e dico che fa parte di un ciclo naturale; e sto più tranquilla.

    Antonella (20 anni, giurisprudenza). Di fronte alla morte provo paura, anche se, come cristiana, so che dopo la morte mi aspetta un'altra vita. L'esperienza di morte che mi ha toccato particolarmente è stato il suicidio di un mio carissimo amico. Abbiamo condiviso momenti di gioia e di affetto, e improvvisamente mi è venuto meno, e ancora oggi a parlarne mi fa un certo effetto: questo fatto ha lasciato in me un vuoto completo.
    La paura è quindi per la separazione dagli affetti, e poi per quello che ci aspetta dopo. Non riesco a farmi un'idea di come possa essere la vita dopo la morte. Mi fa paura non tanto l'atto del morire, quanto il "dopo".

    LA VITA E IL SUO SENSO

    Eleonora (19 anni, giurisprudenza). Trovo abbastanza inutile speculare sul tema della morte, anche perché è una realtà che io ho accettato, penso che sia una realtà oggettiva che deve essere accettata da tutti. Io credo nella vita e non penso che la morte possa dare un senso alla vita. La vita deve trovare un senso assolutamente in se stessa nel momento in cui viene vissuta. Io non credo al fatto che la morte possa dare un fine alla mia vita; il sentimento che mi suscita la morte non è terrore, non è paura, perché penso di essere riuscita ad accettare il fatto che prima o poi dovrò morire. Il sentimento che mi suscita è di rabbia, perché la morte è un mistero. Non so quando mi coglierà. E provo rabbia per il fatto che è possibile che la morte mi colga nel momento in cui io non ho potuto realizzare quello che dalla vita mi aspetto. Mi fa rabbia il pensiero che nella vita io non possa lasciare un segno per cui qualcuno mi possa ricordare. Mi fa rabbia anche vedere la morte di ragazzi che avevano progetti, che potevano realizzare qualcosa di concreto e non l'hanno potuto fare, perché è intervenuta la morte. Mi fa paura il fatto di non riuscire a vivere, non il pensiero di morire.

    Andrea. Anche per me la morte è un qualcosa che non riesco a comprendere. Penso alla vita come un mosaico che si deve costruire, e la morte è un tassello che ogni tanto rispunta fuori e non so come metterlo nel mio disegno. Qui si parla di trovare un senso alla vita indipendentemente dalla morte. Secondo me non è possibile, perché appena si cerca di costruire un bel disegno di vita o un progetto, arriva la morte che con una spallata fa crollare tutto. La morte colpisce comunque, e non si può dare un senso alla vita indipendentemente dalla morte. Bisognerebbe far sì che la morte diventi un elemento che dà senso alla vita, perché la morte è qualche cosa che ci ricorda che noi non siamo niente e abbiamo continuo bisogno di Dio, il quale ci sostiene e a cui ci possiamo appoggiare, e senza del quale basta poco per far cadere tutti i nostri sogni. La morte ci richiama continuamente al rapporto con Dio. E se si è costruito veramente qualcosa, la morte non distrugge la felicità. La felicità, poi, si realizza nell'aldilà: la felicità a cui noi aspiriamo forse è quella che noi ci costruiamo da soli, ma spesso è una felicità fittizia, e basta niente per distruggerla.

    Alessandra. La morte dà un senso alla vita, ti fa capire come va vissuta. Io mi sono trovata di fronte alla morte e, alla fine, ho capito che avevo perso un sacco di tempo nei rapporti con le persone. Io non riesco a realizzare me stessa in me stessa, ma solo rapportandomi agli altri. La morte che, in fin dei conti, mi toglie qualcosa è la morte degli altri. Questo perché il realizzarsi è prendere più che puoi e dare più che puoi a una persona che in un qualsiasi momento puoi perdere.

    LA VITA DISVELATA

    Eleonora. Nella visione cristiana, l'uomo vive in modo tale che dopo, nella morte, trova la sua realizzazione. Dunque, non mi realizzo nella vita, perché poi avrò il premio nell'aldilà. Io penso, invece, che la felicità si possa raggiungere completamente nella vita terrena, e non vedo perché si debba dire: "Cerco di fare opere buone perché dopo nell'aldilà meriterò la felicità". Io penso che la vita dia tanto, e può dare la felicità, indipendentemente dall'aldilà. So con certezza che nella vita ci si può realizzare. La vita ha un senso, mentre la morte no. Io uso la morte come stimolo, mi serve per ricordarmi che ho poco tempo ed è meglio che mi sbrigo.

    Emanuele. Nei giovani c'è la costante tensione verso ciò che è in grado di dare una spiegazione delle cose, intendo in senso laico. Si prescinde anche dalla spiegazione cristiana. Allora la morte in che modo mi può servire? Noi abbiamo qui una piccola compagnia teatrale e qualche anno fa facemmo un lavoro: "I tre giorni della merla" di Massimo Mezzanotte. In una famiglia apparentemente normale irrompe la figura della morte. E li pone davanti alla sua presenza. Davanti alla morte, la vita di queste persone non cambia, ma si disvela nella sua realtà, cioè vengono alla luce i rapporti falsi, la superficialità. Ecco, mi atterrisce la superficialità, arrivare al punto di morte non avendo prestato attenzione a quello che mi sta intorno, alle persone. Allora a cosa mi serve la morte? Io vorrei stare vicino alle persone che mi sono più care, dai miei familiari ai miei amici, perché diventiamo più "umani" stando in relazione con gli altri. Ecco dunque per me il senso laico della morte.
    La morte in sé infatti non contiene il valore, non illustra sensi, non è pregna di contenuti. La morte non è che un monito. E' come se mi dicesse: "Stai più attento". I contenuti me li trovo da me, non aspetto la morte.

    Eleonora. Emanuele vede la morte in senso utilitaristico, nel senso che si serve della morte per vivere ancora più intensamente. Ma questo mi sembra una sconfitta: utilizzare la morte per vivere significa non avere la forza e la possibilità di trovare dentro se stessi un motivo per vivere.

    EDUCARE ALLA SERIETÀ DELLA VITA

    Domanda. Una volta c'era una pratica spirituale chiamata "esercizio della buona morte", e sottolineava il tema della vita come preparazione all'aldilà, e dunque l'imparare a morire. Allora, bisogna insegnare a morire o a vivere?

    Federica. Secondo me non è possibile insegnare né a vivere né a morire, perché ognuno nell'esistenza deve essere libero di fare le proprie esperienze; ogni insegnamento, soprattutto in questo campo, viene ad essere condizionamento. DI conseguenza, siccome si parte dall'individuo libero, l'educatore non ha altro compito che quello di aiutare una persona a esprimere la propria personalità nella libertà prima di tutto.

    Eleonora. Bisogna insegnare a vivere. O a morire. In fin dei conti è la stessa cosa. Ci ricolleghiamo al discorso di prima. La morte è come la vita, l'unica cosa che ho capito è che la vita va vissuta bene, quindi bisogna imparare a vivere, nel senso di non lasciarsi scivolare le cose sopra, perché poi non c'è più tempo di riprenderle.

    Emanuele. Io, invece, penso che sia più giusto insegnare a morire. Penso che non si può insegnare a vivere, ognuno deve fare le sue esperienze, si possono dare dei consigli, ma è giusto che ognuno agisca da sé. E' più importante insegnare a morire.

    Marco. Insegnare a vivere è insegnare a morire, e viceversa. Purché non distacchiamo tra loro le riflessioni sulla della vita e quelle sulla morte. E' chiaro che, se penso alla morte, mi taglio le ali perché non penso a quanto di grande ci può essere nella vita; e se penso solo alla vita, costruisco sul vuoto, e alla fine tutti i progetti fatti crollano, perché mancano di quella prospettiva di eterno che da una parte li limitano ma dall'altra li possono esaltare.


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