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    Lo «sbocco» nella vita del gruppo ecclesiale



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1992-08-3)


    Uno dei problemi più seri che attraversano l'esistenza dei gruppi giovanili ecclesiali è quello del «dopo».
    Il gruppo è destinato a perdurare, «dopo» aver guadagnato un alto livello di vita ecclesiale, oppure, al contrario, questo livello raggiunto lo sollecita ad inventare modi differenti di esistere, dissolvendosi come gruppo in una rinnovata comunità ecclesiale?
    La domanda viene posta con trepidazione, perché incombe la paura di perdere la bella esperienza costruita a fatica, finendo tristemente nelle braccia di una realtà dura e pervasiva.
    Questo interrogativo non riguarda solo il «fine corsa» del gruppo. Come tutte le faccende che si riferiscono all 'esito, condiziona direttamente la vita quotidiana e le scelte a cui essa è sottoposta.
    In questi anni abbiamo incominciato a chiamare questa spinosa questione con una espressione di gergo: lo «sbocco».
    In questo articolo, Riccardo Tonelli ritorna sul tema, ripercorrendo i tre momenti tipici di ogni riflessione pastorale: un confronto con l'esistente, la ricerca di criteri, una proposta.

    Non basta cercare sul dizionario il significato della parola «sbocco», per sapere di quale problema stiamo parlando: è un termine di gergo.
    Nel linguaggio recente dei gruppi giovanili riscrive, con una figura evocativa, l'avventura del fiume che dopo un tortuoso cammino perviene al mare come a suo punto di uscita.

    I TERMINI DELLA QUESTIONE: LO «SBOCCO»

    Sbocco è la conclusione di uno sviluppo di eventi, è l'esito quasi necessario di un processo. C'è un momento in cui la persona o il gruppo stesso si rendono conto che qualcosa sta concludendosi e ci si sta aprendo verso il nuovo. Le esperienze vissute, le ricerche fatte, gli impegni assunti hanno prodotto maturazione.
    Finalmente si è pronti al rischio di sfondare le pareti protettive per immergersi a capofitto nella realtà.
    Certamente anche nel tempo del gruppo la realtà non era mai stata assente. Era però controllata e filtrata, per assicurare meglio lo sviluppo tranquillo dei processi di crescita. Ora si è pronti ad una presenza e ad una responsabilità più ampia. Lo si avverte da molti segnali. E ci si lancia verso un punto di fuga che apre all'inedito.
    Questo è il tempo dello sbocco: il passaggio dal clima rassicurante del gruppo al dopo-gruppo, e la vita in questo spazio nuovo secondo l'esperienza maturata nel gruppo.

    L'attenzione allo sbocco come «fatto di gruppo»

    Lo sbocco è sempre un fatto strettamente personale.
    Investe l'esistenza di una persona, interpellata dall'esperienza di gruppo a porsi in modo nuovo di fronte alla realtà. Può essere vissuto però a titolo strettamente individuale o come esito di un processo che ha il gruppo come soggetto. Il primo caso è quello più frequente nella vita dei gruppi.
    Un giovane ha vissuto una lunga esperienza in un gruppo o in una istituzione formativa. Ora si sente pronto a varcarne la porta verso appartenenze più allargate. Si sposa; assume una militanza diretta, sociale o politica; realizza a fondo la sua professionalità. Si allontana così dal suo gruppo per necessità di cose.
    Altre volte, invece, qualcuno se ne va sbattendo la porta. Non riesce più a respirare nelle logiche strette della struttura formativa.
    In tutti i casi, chi è partito non torna più al suo gruppo; o ci torna solo saltuariamente, per ricordare i bei tempi.
    La vita «vera» è fuori. L'appartenenza al gruppo è pervenuta, come in un esito naturale, ad una esperienza diversa.
    Questo tipo di sbocco, necessario e sofferto, improvviso e violento o maturato progressivamente, senza ritorno con fugaci apparizioni, pone problemi educativi certamente molto seri.
    Non può di sicuro essere abbandonato all'onda delle emozioni personali.
    Generalmente affonda le sue radici proprio nel clima che si respira in gruppo, anche se nessuno ci ha fatto caso dopo l'incidente e il gruppo ha continuato il suo ritmo normale, superati, con qualche rapido aggiustamento, gli scossoni suscitati da una partenza improvvisa.
    Lo sbocco è un fatto personale, anche quando il gruppo si pone, come gruppo, più o meno riflessamente, la questione del «dopo». Investe le persone nel modo specialissimo in cui le persone sono interpellate, sostenute o manipolate dai fenomeni collettivi che riguardano il gruppo in quanto gruppo. Come sappiamo, i processi che avvengono nel gruppo non coincidono con la somma dei fenomeni personali, ma hanno una loro risonanza collettiva tutta specifica, anche se è originata dalla rete dei processi personali e intersoggettivi.
    Ci sono gruppi che si rinnovano progressivamente attraverso frequenti ricambi indolori. Qualche nuovo entra, ogni tanto; qualche veterano se ne va, quando avverte che è giunto il suo tempo; altri si fermano nel gruppo per assumere ruoli formalmente educativi. La memoria collettiva, che si tramanda nella testimonianza dei leaders, viene spesso riscritta e aggiornata sotto la pressione di eventi rinnovatori. Cambiano i membri; ma il gruppo continua senza troppi scossoni: ha una qualificazione, una sede, una funzione, una storia.
    Ce ne sono altri invece che, dopo aver superato crisi e conflitti e con una leadership consolidata, si pongono, ad un certo punto, il problema del «dopo».
    Il fiume che scorre lento e robusto si avvicina alla foce. Ci si chiede: e adesso? Restare o partire? Le domande sono del gruppo. I singoli le sentono bruciare sulla loro esistenza in e attraverso il gruppo. Siamo ad un problema collettivo: il gruppo si interroga sul suo sbocco.
    In questo articolo mi interesso soprattutto di questa situazione.
    Studio un modello ideale di sbocco, per chiedere al gruppo un controllo e una verifica della sua vita. Esso riguarda, di conseguenza, i gruppi che si pongono, in un certo momento della loro esistenza, problemi relativi all'esito. E riguarda quei gruppi che rimuovono simili interrogativi, per non spaventarsi troppo delle fughe improvvise o programmate di qualche membro.
    Solo un gruppo che sa prevedere un certo tipo di sbocco, può aiutare le persone a porsi in modo rinnovato nella trama complessa della realtà, quella «vera», che corre per tutti «oltre» i confini del gruppo.
    Analizzo lo sbocco come «fatto di gruppo» per porre veramente al centro la persona: lo sbocco determina inesorabilmente la persistenza o il fallimento di quanto il gruppo è stato per i suoi membri.

    Nell'ottica dell'esperienza cristiana

    Un altro dato va precisato, per dare correttamente il senso e il limite delle riflessioni che seguiranno.
    Lo sbocco è un problema complesso. Spesso i gruppi hanno rappresentato un luogo abbastanza totalizzante di esperienze. La sensibilità politica, l'innovazione culturale, l'esercizio di un chiaro impegno educativo sono stati maturati nel gruppo e hanno trovato il gruppo come luogo controllato di realizzazione. Anche se le attività sporgevano verso l'esterno, il gruppo forniva il clima, il sostegno e il conforto.
    Nello sbocco le cosa vanno diversamente.
    Ciascuno si trova «solo», impegnato a fare i conti con realtà molto più dure di quelle immaginate nel tempo nel gruppo. Si chiede: come agire, in quale compagnia impegnarsi, in che direzione fare progetti?
    Sono tutti aspetti di quell'unico globale problema che ho chiamato «lo sbocco» .
    Davvero, si tratta di una questione complessa, da analizzare a partire da differenti attenzioni e competenze.
    Per non naufragare nella complessità, in queste pagine mi limito a considerare lo sbocco dall'ottica dell'esperienza cristiana. Gli altri aspetti saranno analizzati soltanto da questa prospettiva e nella misura in cui la coinvolgono.
    Se il gruppo è stato per i suoi membri un luogo privilegiato di maturazione nella fede e nella vita della Chiesa, la sua eventuale fine non può rappresentare la conclusione di questa esperienza.
    Al contrario si deve ipotizzare che essa rinasca secondo modalità nuove, caratterizzate dalla decisione di passare da un tempo di formazione intensiva ad uno stile di formazione permanente, dalla tranquilla omogeneità del gruppo al pluralismo conflittuale delle dinamiche sociali, da una appartenenza intensa e continuamente propositiva alla fatica di inventarsi luoghi di confronto, dal gruppo come soggetto caldo e controllato di azione politica alla presenza indifesa negli spazi istituzionali.

    MODELLI CORRENTI DI SBOCCO

    Precisati un po' i termini della questione, possiamo finalmente guardarci d'attorno. Come vanno le cose nella vita dei gruppi giovanili ecclesiali?
    La prima cosa che salta agli occhi è una larga pluralità di modelli di sbocco. È difficile tentare delle sintesi troppo elaborate: la realtà è in ampio movimento e la si dovrebbe forzare eccessivamente per rinchiuderla in alcune categorie molto formalizzate. Mi limito di conseguenza a recensire dei fenomeni, forzando un poco le differenze per identificarli meglio, attorno ad una tipologia di comodo.

    Il gruppo come prolunga a se stesso

    Chiamiamo così quel modello in cui si realizza un progressivo sviluppo del gruppo sul piano degli interventi e degli impegni. Il gruppo cresce con i suoi membri, come un organismo vivente.
    Siamo in presenza di uno sbocco anomalo rispetto alla definizione data.
    Lo elenco perché sono convinto che lo sbocco è uno di quei fenomeni di fronte ai quali non si può restare neutrali.

    Modello «associazione»

    Una modalità simile a quella precedente è rappresentata dal modello classico dell'associazionismo ecclesiale. Esiste come un unico grande gruppo
    (l'associazione); esso ha diversi settori. Progressivamente si opera un travaso da un settore all'altro, in base a canoni predeterminati (generalmente l'età o, nei settori adulti, la scelta professionale).
    Si tratta di gruppi che si autogenerano. In essi lo sbocco è rappresentato dal passaggio ad un settore superiore.

    Morte per inedia o per soppressione

    Tra i modelli di sbocco non posso dimenticare l'ipotesi che ogni tanto si incontra nella realtà. Ci sono gruppi che terminano la loro esistenza semplicemente per esaurimento: lentamente i membri se ne vanno; i pochi rimasti decidono di chiudere definitivamente l'esperienza, per non subire la frustrazione di una lenta letale emorragia.
    Qualche volta questo tipo di sbocco è realizzato da un intervento esterno che «chiude» l'esperienza. Le risorse utilizzabili allo scopo sono molte e alla portata di chiunque abbia autorità: repressione, privazione degli strumenti necessari a vivere (ambienti, strutture...), sgretolamento della fiducia, infiltrazione di membri critici o dissenzienti.
    Nelle due ipotesi (morte per inedia o per soppressione) i membri del gruppo restano allo sbaraglio. Per essi l'esperienza si è conclusa senza alcuna ragionevole previsione di prospettive future.

    Stile «partenza»

    Uno dei modelli più diffusi è quello caratterizzato dalla «partenza». Il termine è di gergo e ci riporta alla prassi scout .
    I giovani sono ormai cresciuti. Il gruppo educativo ha esaurito le sue risorse per essi. E tempo di partire, anche fisicamente. I giovani si integrano così nell'esistente, cercandosi spazi adeguati. La vita di gruppo ha formato sul piano degli atteggiamenti di fondo. C'è quindi uno stile di presenza nella professione, nella politica, nella vita ecclesiale. Esso assicura una continuità ideale tra il tempo passato in gruppo e l'esistenza attuale.

    Il servizio di ritorno: fare l'animatore

    In alcuni gruppi (o per qualche persona del gruppo) lo sbocco è costituito da un «servizio di ritorno»: fare l'animatore di altri gruppi, fare l'educatore dei più piccoli, il catechista.
    All'impegno di realizzare autonomamente la propria professione nello stile appreso in gruppo, si aggiunge così l'invito ad assumere responsabilità dirette all'interno dell'istituzione di cui al gruppo era parte.
    Spesso questa proposta rappresenta l'interesse formativo centrale del gruppo stesso: è il segno dei suoi membri e l'esito esperimentato da coloro che sono finalmente arrivati alla maturità necessaria. La professione e le altre attività connesse restano un fatto strettamente privato.

    Dall'appartenenza al riferimento

    Un modello interessante e spesso raccomandato è quello caratterizzabile sulla formula: dall'appartenenza al rifacimento.
    Ritornerò su questo modello, precisando meglio il significato dei termini. Intanto anticipo qualche cenno.
    Appartenenza significa partecipazione alla vita di un gruppo, condivisione degli scopi e delle attività, intensità di rapporti interpersonali.
    Riferimento esprime quello che si produce sul piano dei sistemi di significato di una persona, in forza di una appartenenza. Una istituzione funziona come struttura di riferimento quando, identificandosi ad essa, una persona fa propri valori, orientamenti, atteggiamenti e comportamenti che circolano al suo interno e sui quali esiste un diffuso consenso sociale.
    Ogni appartenenza produce riferimento. Si può però ipotizzare anche un riferimento senza appartenenze strette.
    Quando si definisce lo sbocco come passaggio dall'appartenenza al riferimento, si propone di smettere l'appartenenza in senso pieno per ricercare solo qualche esperienza aggregativa, capace di assicurare il riferimento.
    Molti gruppi hanno questo esito. Cessano di chiedere una appartenenza ampia e assicurano solo un saltuario riferimento o nel gruppo stesso a cui si apparteneva o in altri gruppi nuovi con cui si intrecciano legami minimali.
    Nel primo caso si torna di tanto in tanto al proprio gruppo, per verificare lì, con gli antichi compagni di vita, le proprie scelte e per celebrare la propria fede. Nel secondo caso si allacciano rapporti nuovi con altre persone, con cui ci si vede di tanto in tanto, in incontri di verifica, di celebrazione, di revisione di vita.

    Dal gruppo alla comunità

    Spesso si raccomanda ai gruppi ecclesiali di maturare in comunità. È anche questo un modo di risolvere lo «sbocco».
    Per comprendere bene l'aspetto specifico di questo modello, bisogna intendersi sui termini.
    Per molti giovani il gruppo rappresenta una delle tante appartenenze su cui si distende la loro giornata. Non gli affidano un compito esclusivo, anche se, nei casi migliori, funziona come principio selettore e organizzatore delle altre appartenenze.
    Il gruppo non è esclusivo e permette una pluralità di appartenenze per una ragione costitutiva, ricordata anche dalla dinamica di gruppo: i suoi obiettivi sono generalmente parziali e non coprono tutti gli interessi dei suoi membri. Quella dimensione totalizzante che fonda la sua forza educativa si regge solo sulla primarietà dei rapporti e sull'indice alto di coesione.
    La comunità invece viene di solito definita come un gruppo di persone, segnato da intensi rapporti di solidarietà, collocato in un territorio e dotato di capacità totalizzante (almeno rispetto al suo obiettivo). Per questo, è qualificata dalla dimensione totalizzante del fine e dal numero più ampio dei membri, con abbassamento del livello di primarietà dei rapporti.
    Di conseguenza lo sbocco in questo modello è determinato da alcuni fatti nuovi che progressivamente segnano il gruppo. Diminuisce l'appartenenza in senso stretto e si sperimentano nuovi modelli di coesione, per permettere la convergenza sulle prospettive di fondo anche in una pluralità di iniziative. Viene controllata la pressione di conformità, per assicurare una capacità innovativa al gruppo. I fini del gruppo si allargano con la preoccupazione di riscriverli in modo tale da poter rappresentare un obiettivo totalizzante, capace di risignificare le scelte e le iniziative collettive e personali.

    Verso comunità a stile «monastico»

    Per alcuni gruppi lo sbocco è rappresentato da un vero salto di qualità: nascono piccole comunità, che assomigliano molto ad esperienze monastiche.
    Si realizza una convivenza abbastanza piena. Viene ricercata la condivisione dei beni. A qualche membro è riconosciuta una autorità morale sugli altri. La vita di preghiera è intensificata con ritmi programmati.

    UNA SCELTA Dl CAMPO

    Se analizziamo con attenzione i diversi modelli di sbocco, quelli appena descritti e quelli che incontriamo nella prassi quotidiana, è facile costatare un fatto: la diversità non dipende solo da scelte contingenti; al contrario, spesso ci sono a monte orientamenti teologici e antropologici molto differenti.
    Così, per esempio, possiamo catalogare gli sbocchi a partire dal tipo di rapporto esistente tra educazione e azione diretta, tra memoria e innovazione, tra professionalità e volontariato, tra «mondo vitale» e istituzione e relativa transazione.
    Anche in prospettiva teologica possiamo evidenziare differenze sostanziali.
    Quando un gruppo prolunga se stesso fino a gestire in proprio interventi nel sociale o nel politico, fa scorrere indirettamente l'ipotesi che la comunità ecclesiale, di cui il gruppo è realizzazione ed esperienza, abbia il dovere di costituirsi come soggetto dell'agire politico. Se il gruppo tende a conservare al suo interno, come in un luogo caldo e rassicurante, persegue una autocomprensione della fede certamente molto diversa da quella espressa da un gruppo aperto, proiettato continuamente verso l'esterno, impegnato in attività diretta.
    Per orientarci verso proposte operative, dobbiamo necessariamente fare precise scelte di campo.
    Il discorso si farebbe lungo. È inutile però ripetere indicazioni e scelte che i lettori affezionati conoscono per la lunga dimestichezza con le pagine di «Note di pastorale giovanile». Preferisco riprendere una sola questione, quella che considero di fondo in questo contesto .

    La funzione del gruppo in ordine all'esperienza ecclesiale

    La questione di fondo è quella che riguarda la funzione del gruppo in ordine all'appartenenza alla Chiesa.
    Molti interrogativi si incrociano su questa ricerca.
    Quale rapporto esiste tra comunità ecclesiale e crescita nella fede? Si richiede una diretta esperienza o è sufficiente una generica appartenenza ecclesiale? La vita ecclesiale mediata dalle istituzioni tradizionali assolve sufficientemente le esigenze di una vera esperienza oppure è necessaria una istituzione dotata di maggiore capacità identificativa? Il gruppo giovanile può rappresentare una alternativa praticabile? Qual è la sua reale funzione?
    Dalla risposta a queste domande dipende l'esito verso cui siamo impegnati a spingere «lo sbocco».
    Prima di suggerire una mia ipotesi, devo recensire l'esistente. In ambito ecclesiale, il vissuto quotidiano è sempre importante, anche per elaborare modelli alternativi.
    Siamo in un tempo di largo pluralismo: una classificazione, capace di andare oltre la semplice recensione dei dati di fatto, può essere tentata solo attraverso la via dei «modelli».
    Interpretando e organizzando il vissuto e la riflessione su esso, colgo la presenza di tre «linee di tendenza».

    La funzione strumentale del gruppo

    Una prima linea di tendenza si caratterizza sul fatto di affidare al gruppo solamente una funzione strumentale rispetto alla esperienza ecclesiale.
    Il punto di partenza è dettato da una costatazione ecclesiologica molto precisa: l'esperienza di Chiesa è vissuta pienamente solo nelle comunità ecclesiali ufficiali, quelle che assicurano la presenza di tutte le componenti normative. In queste comunità si realizza il servizio educativo e pastorale degli adulti nei confronti dei giovani. Lì essi sono abilitati ad incontrare un evento che è un «dato» da accogliere disponibilmente e responsabilmente; non certamente da ricreare con la scusa della ricerca e dell'avventura.
    Quando nei documenti e nelle riflessioni si parla della Chiesa, i termini sono solenni e pieni di fascino. Ritornano espressioni come, per esempio, comunità, intensità di rapporti primari, condivisione; si affida un'ampia corresponsabilità a tutti: ai giovani, alle donne, ai poveri. Si immagina una comunità presente là dove si fa la storia, per animare con il fermento evangelico la vita di tutti, fino a condividere gioie e speranze, tristezze e dolori.
    Purtroppo queste esigenze si scontrano con la concreta situazione quotidiana. Troppe comunità ecclesiali sono anonime o arroccate, disattente ai soggetti emergenti, lontane dal respiro vivo dei problemi quotidiani. Per questo risultano incapaci di assumere seriamente ogni responsabilità nei confronti delle giovani generazioni. Molti tentativi di socializzazione religiosa risultano maldestri; e gli esiti sono ben lontani dal minimo accettabile.
    Che fare, allora?
    I modelli tradizionali e qualche ipotesi nuova risolvono il problema attraverso un cambio di responsabilità. Visto che le comunità ecclesiali ufficiali non sono capaci di assolvere il loro compito, esso va demandato ad altri, più strutturalmente adatti. E così sorgono le attività pastorali di supplenza e i luoghi alternativi di ecclesialità.
    Qualcuno propone prospettive molto diverse. Le ricordo con la citazione di uno degli autori che ha espresso con maggior perentorietà questa preoccupazione: «Proponiamo alcune indicazioni positive circa le scelte che a nostro giudizio devono caratterizzare la pastorale giovanile; ma una pastorale giovanile la quale non si esprime unicamente e principalmente in iniziative ecclesiali espressamente rivolte ai giovani, quanto piuttosto in una complessiva riforma della figura storica della Chiesa, la quale prenda atto delle responsabilità obiettive che la Chiesa ha nei confronti della fede o della non fede dei giovani».[1]
    La conseguenza è un modo di vedere le cose che affida al gruppo una funzione solo strumentale.
    Le ragioni sono semplici e sembrano chiaramente pertinenti.
    La costatazione delle difficoltà non può giustificare la cessione ad altri della propria responsabilità. Diventa invece principio fondamentale di rinnovamento e di conversione.[2] Il gruppo non ha compiti speciali in ordine all'appartenenza ecclesiale. Nemmeno ha problemi particolari di ecclesialità, perché l'ecclesialità è una caratteristica attribuibile solo alla comunità nel suo complesso .
    Ha invece una preziosa funzione «educativa», in qualche modo propedeutica rispetto alla maturazione verso cui i giovani sono in tensione. Rappresenta quello spazio esistenziale dove grandi parole come «comunione», «corresponsabilità», «presenza», diventano esperienza.
    Per queste ragioni il gruppo è importante nell'educazione alla fede dei giovani. Rappresenta una delle istituzioni educative privilegiate, che rendono possibile l'esercizio di una funzione davvero difficile in un contesto come è il nostro, e nei confronti di una istituzione, come è la comunità ecclesiale, collocata ancora nel fuoco di una diffusa insignificanza.
    Nel gruppo e attraverso il gruppo, gli adulti aiutano i giovani ad assumere quello stile di maturità personale che li fa crescere come membri responsabili della comunità ecclesiale e, nello stesso tempo, permettono loro di sperimentare ciò che viene proposto.
    Una volta raggiunta la meta della maturazione, il gruppo cessa da ogni compito. Ormai la «realtà» ecclesiale non ha più bisogno di strumenti educativi, per queste concrete persone.
    Questa è la posizione più diffusa. Percorre i modelli ecclesiologici di tipo oggettivistico e deduttivo. Resiste nel retro-pensiero di molti operatori di pastorale, anche perché possiede innegabili buone ragioni.

    Il gruppo come «Chiesa parallela»

    In genere, le prime attenzioni verso il gruppo sono state motivate da ragioni strumentali. Gli operatori pastorali cercavano un luogo, concreto e gestibile, dove far vivere in termini esperienziali il senso di Chiesa. E così hanno riscoperto, anche nell'ambito pastorale, il gruppo, a cui letteratura e prassi avevano da tempo affidato una chiara valenza educativa.
    Il clima di larga soggettivizzazione e quei profondi rivolgimenti culturali che conosciamo ormai bene, hanno funzionato come da cassa di risonanza per la riscoperta del significato ecclesiale del gruppo. Ci si è accorti presto dei guadagni notevoli che da esso potevano scaturire. La fiducia nei suoi confronti è cresciuta così in larga misura.
    Sul piano pratico si sono moltiplicati i gruppi nelle diverse comunità ecclesiali. Movimenti e associazioni hanno ripreso vitalità, per un bisogno che sorgeva dal basso e per la fiducia ad essi accordata da parte dei responsabili. Mille iniziative hanno abilitato gli operatori pastorali verso una conduzione forte dei gruppi di base. L'associazionismo ecclesiale ha vissuto una stagione propizia.[3]
    Il gruppo però è un fatto educativo speciale. Un po' alla volta, prende la mano e si pone come totalizzante, fino a coprire tutti gli spazi della vita di una persona.
    Non sempre gli educatori, i responsabili di movimenti e gli animatori sanno dimostrarsi pronti dal punto di vista teorico e pratico a gestire, in termini equilibrati, questi dinamismi.
    Sul piano dei significati e su quello dell'azione l'esperienza di gruppo, qualche volta, prende il sopravvento sui rapporti, gli scambi e i confronti con l'istituzione più vasta. Il gruppo si assolutizza, diventando quasi una «Chiesa parallela».
    Molte reazioni del magistero ecclesiale alle comunità di base sono dovute proprio a queste prese di posizione. Prassi e testi di queste realtà sembravano mostrare che l'unico modo di essere Chiesa era quello vissuto secondo schemi alternativi a quelli tradizionali, con una consapevolezza così intensa da precludere persino il diritto di proclamarsi Chiesa a chi non agiva in questo stile.
    Molti gruppi non arrivano a queste proclamazioni teoriche di limite. Sono però di fatto una realtà alternativa a quella ufficiale proprio nello stile quotidiano di vita: catturati dai dinamismi involutivi della propria esperienza (o nella direzione della chiusura intimistica o in quella dell'impegno esagitato), non riescono più a rendersi conto della spirale soffocante del conformismo di gruppo. E così si propongono come l'unico modo di essere «la» Chiesa in assoluto. Sono di fatto una «Chiesa parallela».

    Il gruppo come «ecclesiogenesi»

    Quasi come intermedia alle due linee di tendenza appena ricordate, si inserisce una terza prospettiva. Con la formula dell'autore che ha maggiormente teorizzato questa proposta, la definisco «il gruppo come ecclesiogenesi».[4]
    Il gruppo (e soprattutto le comunità di base, sulle cui misure le riflessioni ecclesiologiche sono state fatte) non è tutta la Chiesa e non rappresenta certamente un modello alternativo (o parallelo) di Chiesa. Esso, al contrario, contiene i germi di quel modo di essere Chiesa a cui le esigenze radicali di ecclesialità convocano i credenti.
    Gruppi e comunità di base non sono la figura ottimale di Chiesa, da contrapporre a quella ufficiale. Essi però hanno dentro i germi del futuro e la capacità di portarli a compimento, proprio sulla forza dei dinamismi che li caratterizzano. «Il nascere delle comunità di base e la prassi che in esse si sviluppa contengono un innegabile peso che mette in questione l'attuale modo di vivere nella Chiesa. Esse sbocciano da elementi minimi come la fede, la lettura e la meditazione della Parola, l'aiuto reciproco in tutti i momenti della vita umana. Sono vera Chiesa. Infatti in esse si mettono in luce molte funzioni e nuovi veri ministeri: coordinare le comunità, assistere gli ammalati, alfabetizzare, interessarsi dei poveri, ecc. Tutto ciò nel clima di un profondo spirito fraterno, con senso di corresponsabilità e nella coscienza di edificare la Chiesa e di vivere secondo le sue finalità. Il termine che meglio esprime tale esperienza, usato in questo contesto, è la reinvenzione della Chiesa. La Chiesa comincia a nascere dalla base, dal cuore del popolo di Dio. Questa esperienza mette in crisi il modo comune di pensare la Chiesa. E ci fa riscoprire la fonte genuina che permanentemente fa sorgere e sviluppare la Chiesa: lo Spirito Santo».[5]
    La prospettiva è molto precisa: «non si tratta di allargare il sistema ecclesiastico vigente, avente come punti centrali i sacramenti e la vita del clero, ma di far emergere un nuovo modo di essere Chiesa, il cui nucleo centrale diventi la Parola e la presenza del laico».[6]
    Il gruppo non serve solo a integrare progressivamente, con qualche semplice aggiustamento, nella realtà esistente. Ma neppure pretende di adeguare la realtà ecclesiale alle sue misure e alle sue esperienze. Gruppo e Chiesa sono in cammino, assieme, verso una realtà nuova, da inventare nell'ascolto dello Spirito di Gesù. Il gruppo suggerisce, con forza, la direzione di questo cammino, offrendo, nella sua esperienza ecclesiale, i germi di quello che sarà un modo di essere per tutti.
    Per questo la Chiesa del futuro, quella che nasce dall'evento rinnovatore del gruppo, è diversa da quella attuale. I germi di novità che il gruppo assicura e su cui esso si qualifica (rinnovatori rispetto al modo tradizionale di pensare alla Chiesa) indicano la direzione verso cui porsi, tutti (Chiesa ufficiale, gruppi e comunità di base, singoli credenti) [7] in cammino.
    La Chiesa è unica. Non sono possibili alternative al suo interno. Ma è da costruire: guardando ai segni di futuro già in qualche modo presenti, non di certo «trapiantando» qualche buona realizzazione in altri contesti.
    Il gruppo è quindi il luogo in cui la Chiesa rinnovata sta nascendo. Non è destinato a spegnersi con il tempo, ma rappresenta l'alternativa più affascinante per rendere viva, interpellante e salvifica l'unica Chiesa di Gesù. Davvero il gruppo fa nascere la Chiesa dal basso.

    Una proposta: il gruppo «mediazione» di Chiesa

    In questi anni abbiamo maturato un modo diverso di comprendere la funzione del gruppo in ordine all'appartenenza ecclesiale. La diversità rispetto ai modelli precedenti non è solo formale. A monte c'è una ricomprensione teologica dell'essere Chiesa che pone, ancora una volta, in primo piano l'evento dell'Incarnazione.
    L'abbiamo espresso con la formula «mediazione» ecclesiale: il gruppo è mediazione privilegiata di Chiesa.
    Da questa prospettiva nasce un modo di immaginare la soluzione al problema dello «sbocco» che è davvero diverso da quello suggerito (almeno implicitamente) e vissuto da coloro che si riconoscono in una delle tre linee di tendenza appena ricordate.

    Cosa significa «mediazione»

    Il grande progetto di Dio per la salvezza di tutti gli uomini è quel «mysterium ecclesiae» che il Concilio ha posto al centro dell'ecclesiologia.[8] Esso si incarna in realizzazioni visibili e concrete, che lo rendano appello in situazione. Così diventa «vicino» alle persone e alle situazioni e «sacramento» della loro salvezza.
    Le diverse realizzazioni ecclesiali (le istituzioni, le persone che le compongono, gli apparati istituzionali, i differenti organismi) adempiono questa funzione. Non degradano la potenza salvifica dell'evento, ma, al contrario, la concretizzano, anche se non sono un'immagine perfetta.
    Queste realizzazioni non assicurano solo un'azione strumentale, esterna rispetto al mistero ecclesiale. Non è un'azione destinata a risolvere solo provvisoriamente un problema di comunicazione.
    Esse sono già l'esito del processo salvifico: una realtà nuova in cui quello che si vede è un elemento umano, parte e simbolo dell'esistenza dell'uomo, segnato dai limiti dell'umano, che, riempito dalla potenza di Dio, diventa luogo in cui Dio si fa vicino e incontrabile.
    Riscoprendo la dimensione sacramentale delle diverse realizzazioni ecclesiali, si sottolinea anche la loro «parzialità» rispetto al mistero e, di conseguenza, si giustifica un modo di pensare alle differenti realizzazioni di Chiesa in termini «analogici».
    Le diverse realizzazioni non sono tutta la Chiesa e neppure l'unica esperienza di Chiesa. Sono però Chiesa a pieno titolo: concretizzazioni storiche di quel grande progetto salvifico che nella fede chiamiamo «la» Chiesa.
    Con una formula che esprime in sintesi il rapporto sacramentale, mi piace chiamare le differenti realizzazioni ecclesiali «mediazioni» del «mysterium ecclesiae». Esse infatti distendono nel tempo, come tutti i sacramenti, la grande mediazione che è Gesù di Nazareth e ne riproducono per ogni uomo la grazia.

    La funzione del gruppo

    Il gruppo giovanile rappresenta oggi, per molti giovani, una esperienza capace, più di altre realizzazioni ecclesiali, di creare un senso di appartenenza. Per questo lo considero come mediazione privilegiata: è Chiesa, ed è esperienza privilegiata di Chiesa.
    Proprio in quanto mediazione, non esaurisce «la» Chiesa.
    Per il gruppo, le ragioni di relativizzazione sono notevoli, perché in esso spesso sono strutturalmente assenti alcune delle dimensioni normative di ecclesialità.
    Questa consapevolezza lo spinge a crescere in ecclesialità: fa progressivamente spazio anche a quelle dimensioni di cui è carente e resta in dialogo e in confronto intenso con le altre realizzazioni di Chiesa e soprattutto con quelle che raccolgono in sé più completamente le dimensioni dell'essere Chiesa.
    Non contrappongo alla «grande» Chiesa istituzionale (Chiesa universale, locale e parrocchia) le «piccole» realizzazioni ecclesiali in cui è più immediata l'esperienza di comunione. Metto invece al centro una comunità ecclesiale vicina, concreta, significativa: alcuni credenti, il gruppo, una comunità educativa che celebra la sua fede. Queste esperienze carismatiche permettono e sostengono il cammino di identificazione nei confronti della Chiesa. L'istituzione ecclesiale è ritrovata in esse e a partire da esse, come esito di un processo di progressiva crescita in ecclesialità. La Chiesa diventa veramente l'esperienza che si fa messaggio e il messaggio di questa stessa esperienza.

    VERSO UNA PROPOSTA

    Con tutto il materiale accumulato posso finalmente esprimere il mio punto di vista a proposito dello sbocco.
    Esso si compone di molti elementi. Nella prassi dei gruppi le soluzioni sono molte e differenziate; non posso di certo avanzarne una sicura e solenne, con la pretesa di esprimere l'unica o la migliore ipotesi. Preferisco, più modestamente, suggerire come le tessere di un mosaico: dall'insieme fiorisce un modello di sbocco, proponibile ai gruppi giovanili attuali, come esito ottimale al loro cammino di maturazione.

    Appartenenza e riferimento in una società complessa

    Una prima indicazione orientativa la ricavo da una riflessione attenta su appartenenza e riferimento in ordine alla esperienza di gruppo e al suo sbocco. In queste due formule sono racchiuse le caratteristiche centrali del problema. Prima di tutto è importante intenderci sui termini, riprendendo e precisando qualche indicazione già anticipata.
    Gruppo di riferimento è quel gruppo di cui il soggetto è membro almeno idealmente, del quale ha assimilato le norme, i valori, le opinioni, i modelli di comportamento, al punto che la sua partecipazione attuale ad altri gruppi è regolata dalla identificazione a questo gruppo.
    Gruppo di appartenenza è il gruppo nel quale il soggetto è presente, al quale partecipa, condividendo attività, scopi e processi.
    Ogni gruppo di appartenenza è anche di riferimento, perché spinge ad adeguarsi alle norme correnti per evitare censure. Dicendo però semplicemente «gruppo di riferimento» si ipotizza un gruppo diverso da quello di appartenenza: un gruppo a cui un soggetto si collega solo intenzionalmente per un confronto ideale sulle norme, già interiorizzate nel tempo della appartenenza piena.
    Su questa chiarificazione formale si innestano importanti domande educative. È possibile, nell'attuale società, immaginare un gruppo di riferimento pienamente sganciato da ogni appartenenza; o, al contrario, il riferimento è possibile solo quando c'è contemporaneamente un minimo di appartenenza?
    Se si riconosce un rapporto stretto tra appartenenza e riferimento, come è possibile immaginare un unico riferimento, in una situazione sociale dove le appartenenze sono molteplici e non convergenti? Affermando il rapporto tra riferimento e appartenenza, non si corre forse il rischio (pericoloso certamente a tutti i livelli) di produrre personalità frammentate, perché sostenute da differenti riferimenti sulla misura delle diverse appartenenze; o di cercare un'unica appartenenza per assicurare un unico riferimento, giungendo così a modelli involutivi di presenza sul terreno sociale, culturale e politico?
    Nella mia proposta di «sbocco» l'accento corre verso il gruppo di riferimento, come superamento di quella intensa appartenenza che caratterizza il periodo della vita nel gruppo. Non penso però assolutamente ad un gruppo di riferimento quasi allo stato puro.
    La funzione di riferimento, tanto importante per consolidare e sperimentare la vita cristiana in questa situazione culturale, è più facilmente assicurata se esiste anche un minimo di appartenenza con l'istituzione che deve funzionare da riferimento.
    Dire appartenenza significa ricordare che l'istituzione deve facilitare i rapporti interpersonali tra i suoi membri, deve coltivare la primarietà delle interazioni, deve progettare momenti informali in cui sperimentare gratuitamente lo «stare assieme», come valore in sé.
    Sul piano delle dinamiche di gruppo, l'appartenenza richiede anche un minimo di pressione di conformità, con conseguente circolazione di norme; esige un certo consolidamento di leadership e il controllo dei processi decisionali, per assicurare sopportabili e positivi «limiti di tolleranza».
    Certamente tutto questo non è indolore: si corre il rischio di vivere questa appartenenza come totalizzante rispetto alle altre, prolungando così la vita di gruppo (quello precedente allo sbocco o quello nuovo).
    In un sistema sociale in cui pressione di conformità e pluralismo rendono difficile l'elaborazione autonoma di un quadro di significati che funzioni come riferimento, è necessario reagire prolungando le condizioni che assicurino un reale riferimento alternativo.

    Una indicazione concreta

    Ho precisato un modo di risolvere il rapporto tra appartenenza e riferimento, per suggerire, senza equivoci, una proposta concreta di sbocco.
    Prima di tutto bisogna saper distinguere tra modelli di sbocco «normali», quasi da vita quotidiana, e modelli «profetici», espressione della radicalità evangelica.
    Incominciamo da questi secondi.
    Ci sono gruppi che portano a compimento in modo radicale l'esperienza cristiana vissuta e si aprono a forme di comunità intense, proposte come segno per tutti delle esigenze totali dell'evangelo. Questa ipotesi va accolta come un dono grande dello Spirito alla sua Chiesa. Ci aiuta a comprendere la ragione più profonda della nostra vocazione per il Regno e ci permette di anticipare nell'oggi la prospettiva della definitività. Questi modelli non possono però essere considerati come «normali» nel vasto panorama dei nostri gruppi ecclesiali, anche se sono un innegabile dono dello Spirito a tutti.
    Lo sbocco «normale» è invece quello caratterizzato da un passaggio dalla appartenenza verso il riferimento. Ad un certo momento della vita di gruppo, cessano progressivamente le attività in proprio, si diradano gli incontri, viene cercato un modello di coesione meno centrato sui rapporti primari e più organizzato attorno a valori operativi. Poi avviene la partenza: il salto dal gruppo alla realtà più vasta.
    Ciascuno avverte però il bisogno di riferimento (con quel minimo di appartenenza di cui si diceva), per consolidare e sostenere la sua identità.
    Il riferimento viene trovato in proposte diverse.
    Per qualcuno il gruppo continua ad assicurare il riferimento. Si ritorna ad esso di tanto in tanto, soprattutto per momenti celebrativi e riflessivi.
    Altri, invece, cercheranno istituzioni diverse: gruppi d'impegno, attività ecclesiali intense, incontri programmati, convivenze. Qualche altro si accontenterà del riferimento normale di un cristiano adulto: la celebrazione eucaristica domenicale, i sacramenti e la vita personale di preghiera.
    In tutti questi casi, sbocco non significa abbandono del giovane al suo destino. Al contrario sono previste e programmate piccole appartenenze diversificate, per continuare in modo rinnovato la vita di gruppo.

    Verso quale comunità ecclesiale

    Per esigenze di realismo, una ricerca sullo sbocco deve guardare anche verso il luogo che rappresenta l'esito della vita del gruppo ecclesiale.
    Ho scelto di studiare il problema dello sbocco solo dalla prospettiva dell'esperienza cristiana. Questo mi porta ad analizzare con attenzione prioritaria la «comunità ecclesiale» che accoglie i giovani maturati nei gruppi.
    Lo stesso discorso andrebbe fatto sotto altre angolature (politiche, culturali, professionali, istituzionali) se volessimo studiare tutti gli altri ambiti in cui confluiscono i giovani dai gruppi. Penso quindi alla comunità ecclesiale.

    Riscoprire la funzione della parrocchia

    Lo «sbocco» normale dei gruppi giovanili ecclesiali resta, nella situazione attuale, la parrocchia.
    La riflessione teologica attraverso cui ho compreso la figura di «mediazione, relativizza ogni pretesa di incarnare in modo esclusivo il mistero della Chiesa.
    Per questo non può essere né automatico né assoluto lo sbocco dei gruppi verso la parrocchia. Alcuni dei motivi che venivano abitualmente citati per giustificare il rapporto privilegiato, sono diventati poco suasivi, nelle profonde trasformazioni culturali in atto. Altri appaiono all'orizzonte come nuovi e particolarmente significativi.
    D'altra parte, però, l'importanza (ecclesiale ed educativa) della parrocchia resta, sull'onda lunga di una tradizione e di una esperienza storica di tutto rispetto: oltre le stesse ragioni che l'hanno scatenata.
    Inoltre, la riflessione sullo «sbocco» è tutta collocata in una chiara prospettiva educativa: passo dai princìpi teologici alla costruzione di modelli d'intervento. Per questo, pensando alla situazione sociale e culturale dei giovani nell'attuale contesto ecclesiale, credo importante riconoscere, operativamente, una funzione speciale alla parrocchia nel momento dello sbocco.

    Sbocco non è integrazione

    L'operazione sbocco non significa, però, integrazione nella realtà ecclesiale esistente, come se il gruppo fosse solo uno spazio dove si fa il rodaggio necessario prima di immettersi nell'unica struttura autentica e pertinente.
    Le forze nuove che si immettono nella comunità hanno il compito di rinnovarla dal suo interno, in quello che essa ha di costitutivo e che spesso viene tradito nello scorrere povero dell'esistenza quotidiana.
    La «nuova» comunità ecclesiale è chiamata a misurarsi sempre di più sulla sua missione. Sul suo compito di essere «sacramento di salvezza» essa definisce la sua identità. Riesprime la salvezza di cui è sacramento in un orizzonte culturale più vicino alle attese degli uomini d'oggi. Per questo si sente impegnata a far nascere «vita nuova» nel nome e per la grazia del suo Signore.
    Questa autocomprensione la condurrà ad accogliere gioiosamente le diversificate prassi di promozione della vita e a unificarle nella confessione e nella celebrazione dell'unico Signore. Nello stesso tempo, essa aiuta tutti a vivere nella trepida attesa del Regno che viene, unico approdo di perfezione piena e definitiva, che contesta la radicale provvisorietà e insufficienza di ogni umana produzione di vita.
    Quello che il gruppo ha realizzato egregiamente per tanto tempo («il tempo del gruppo»), ora ricade sulle spalle dell'unico soggetto di ecclesialità, la comunità. Essa è impegnata ad assicurare veramente una funzione di riferimento, capace di sostenere l'identità cristiana di persone di questo tempo e di questo sistema sociale.
    La comunità ecclesiale, per svolgere questo suo compito irrinunciabile, è chiamata a verificare molti elementi della sua prassi pastorale.
    I momenti di riferimento possono essere tanti nella vita di una comunità ecclesiale. Alcuni vanno certamente inventati e programmati con costante capacità innovativa (riunioni, incontri, tempi di revisione di vita, confronto su problemi scottanti, scuole di preghiera e di lettura della Scrittura, verifica con testimoni...). Molti però fanno parte del calendario normale delle comunità. Si pensi, per esempio, alla preziosa funzione di riferimento di cui possono essere caricati i gesti liturgici e celebrativi.
    Per funzionare da riferimento i diversi gesti delle comunità ecclesiali dovrebbero qualificarsi come rilettura di quello che fa l'esistenza quotidiana di ogni persona dalla prospettiva dell'evento di Gesù il Signore.
    Le comunità sono inoltre sollecitate a realizzare un'unità che non elimini le diversità, una convergenza che permetta la distinzione legittima su tutto ciò che è opinabile, proprio mentre si afferma con coraggio e con fierezza l'irrinunciabile dell'esperienza cristiana.

    Il tempo del «passaggio»

    Nel ritmo della vita di un gruppo c'è un tempo di particolarissima rilevanza in ordine allo sbocco: il tempo del «passaggio».
    Ormai lo sbocco è alle porte; lo si intravede come una meta attesa e ineludibile. Piccoli o grandi segnali lo rendono vicino. Molti membri allentano volutamente l'appartenenza, in un pendolarismo che saggia la possibilità di vivere nel gruppo e fuori del gruppo. Diminuisce quel tipo di coesione che era costruito sui rapporti primari e sullo stare spesso assieme. Si fa invece strada l'esperienza di una condivisione dialettica solo sui grossi orientamenti di fondo, per permettere a ciascuno presenze e responsabilità diversificate.
    Prima sottovoce e poi con rimbalzi crescenti, ci si chiede: e dopo? Tu che fai... adesso che sei grande?
    Girano così nel gruppo proposte alternative, che prima sembravano strane ed estemporanee. Si vagliano possibilità. Si studiano progetti e programmi di altre organizzazioni più adulte.
    Questo è il tempo del passaggio: il tempo in cui i membri sono ancora appartenenti al gruppo e si preparano, nel gruppo e attraverso esso, al grande salto. In questo tempo prezioso aumentano certamente le tensioni e i conflitti. Ma tutti li sanno accettare, nella coscienza di vivere una «crisi di maturazione». Per favorire i riferimenti al dopogruppo, sono contattati luoghi, momenti, istituzioni, verso cui, ad ondate successive, i singoli membri sono chiamati a confluire.
    Se lo sbocco è problema di gruppo, ancora una volta è chiamato fortemente in causa l'animatore.
    La sua funzione è urgente e insostituibile, in un gioco educativo che sa dosare prospettive e anticipi, esperienze intense e aperture, vita nel gruppo e confronti fuori del gruppo.
    Egli aiuta il gruppo a maturare un modello di sbocco, lo sostiene nelle difficoltà, tensioni e scossoni che questo sguardo al futuro sicuramente scatenerà. Lo abilita a vivere le precondizioni allo sbocco; sorregge il gruppo nel tempo cruciale del passaggio.
    E guarda lontano, verso la comunità che dovrà accogliere i suoi giovani. Per questo, mentre lavora in gruppo, si impegna nello Spirito a ringiovanire la Chiesa e a trasformare la società.


    NOTE

    [1] Angelini G ., Pastorale giovanile e prassi complessiva della Chiesa, in: Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, Condizione giovanile e annuncio della fede (Brescia 1979) 87.
    [2] «Il riconoscimento pratico di questa condizione [la condizione di chi non può ancora esprimere la propria decisione personale e matura della fede] si realizza mediante la creazione di istituzioni e di iniziative nelle quali sia svolto un servizio educativo aderente alle concrete necessità del giovane e pregiudiziale in rapporto alla sua capacità di decisione matura per la fede; ma non immediatamente connesso con la scelta di fede, non tale da esigere o presupporre artificialmente tale scelta come fatto già acquisito dal giovane stesso; al contrario, in tale servizio dovrebbe essere esplicita la preoccupazione di evidenziare l'ulteriorità della decisione di fede rispetto alla generica ricerca dell'umanizzazione dell'uomo» (ibidem 91).
    [3] «I gruppi informali si può dire che cercano di procurare a quanti ne sentono il bisogno ciò che la Chiesa globale non dà e forse non può dare loro. Tutto dipende, sembra, dall'incapacità generalizzata della Chiesa di offrire a quanti sono più seriamente motivati dal vangelo la possibilità di viverlo nelle sue strutture tradizionali. Si tratta dunque di una reinvenzione della Chiesa in se stessa e al di fuori dei suoi organismi istituzionali; al limite contro questi; ma più spesso al loro fianco. Si tratta dunque alla fine di un rinnovamento della ecclesiologia»: Congar Y., I gruppi informali nella Chiesa, in Comunità ecclesiali di base. Utopia o realtà? (Assisi 1977) 38.
    [4] Boff L., Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa (Roma 1978).
    [5] Boff L., Ecclesiogenesi 47.
    [6] Ibidem 9.
    [7] «Molte volte un gruppo si raduna sotto un grande albero che tutti conoscono, ogni settimana si incontrano li, leggono i testi sacri, condividono i commenti, pregano, parlano della vita e decidono dei compiti comuni. Li si realizza, come avvenimento, la chiesa di Gesù e dello Spirito Santo» (Boff L., Chiesa: carisma e potere. Saggio di ecclesiologia militante (Roma 1983) 215.
    [8] LG 24, 5-7.


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