Pastorale Giovanile

    Home Indice

    Pastorale Giovanile

    Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email

    Annunciare il Dio della giustizia facendo giustizia



    Carmine Di Sante

    (NPG 1992-6-33)


    «Se abita
    con te uno straniero...
    lo amerai come te stesso
    perché
    voi siete stati stranieri
    in terra d'Egitto» (Lv 19, 33).
    A parere quasi unanime degli studiosi, la Bibbia ebraica - il cosiddetto Antico Testamento - si condensa prevalentemente nella categoria della giustizia.

    La giustizia

    Von Rad, un maestro dell'esegesi anticotestamentaria, scrive: «Non vi è nell'Antico Testamento nessun concetto d'importanza così centrale per tutti i rapporti dell'esistenza umana come quello della giustizia. È la norma non solo per il rapporto dell'uomo con Dio, ma anche per il rapporto degli uomini tra di loro fino alla disputa più insignificante, anzi anche per il rapporto dell'uomo con gli animali e con l'ambiente rurale circostante. Si può senz'altro definire la giustizia come il valore più alto della vita, come ciò su cui ogni vita poggia quando è nell'ordine» (Teologia dell'Antico Testamento, I, Paideia, Brescia 1972, p. 418). Valga come esempio la celebre pagina di Isaia nella quale il profeta denuncia la vanità della pratica rituale dove questa non si accompagna ad una prassi di giustizia e di solidarietà:

    «Smettete di presentare offerte inutili,
    l'incenso è un abominio per me;
    noviluni, sabati, assemblee sacre,
    non posso sopportare delitto e solennità.
    I vostri noviluni e le vostre feste
    io detesto, sono per me un peso;
    sono stanco di sopportarli.
    Quando stendete le mani.
    io allontano gli occhi da voi.
    Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto.
    Le vostre mani grondano sangue.
    Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni
    dalla mia vista.
    Cessate di fare il male, imparate a fare il bene,
    ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso,
    rendete giustizia all'orfano,
    difendete la causa della vedova» (1, 12-17).

    Il profeta, costatando in mezzo al suo popolo la presenza di soggetti senza potere, «im-potenti» e, per questo emarginati e angariati - «oppressi», «orfani» e «vedove» - smaschera una simile situazione come contraria al vo lere divino e, contro la priorità del culto fine in se stesso, fissa il comportamento primario nel «ricercare la giustizia».

    L'«è giusto»

    Ma cos'è la giustizia? Questo termine all'orecchio di molti non suona molto bene, perché viene associato a severità, rigore e punizione e viene contrapposto all'amore. Ma immaginiamo che un amico molto caro ci faccia un torto o che l'insegnante metta ad un ragazzo un voto immeritato o, più semplicemente che, assistendo alla televisione ad una partita di pallone, l'arbitro si lasci sfuggire - volutamente o involontariamente - una punizione. Quale sarebbe, in casi come questi, la reazione immediata e quali le parole che, dal profondo, accompagnerebbero la nostra rabbia? Da una parte l'indignazione, dall'altra l'esclamazione - in cui si oggettiva l'indignazione -: «questo non è giusto».
    Affermare di un'azione (un furto o omicidio), di un fatto (un torto subìto o una punizione non meritata) o di una situazione (un bambino sfruttato o ucciso dalla fame) che non «sono giusti», vuol dire sottrarli alla fattualità e all'arbitrio del proprio desiderio - o volontà di potenza - per coglierli e viverli in una prospettiva di assolutezza. Dire che «non è giusto» che un bambino muoia di fame è prendere posizione su questa «morte» formulando un giudizio che trascende non solo l'ordine fattuale - dove essa avrebbe lo stesso significato della caduta di una foglia ma quello stesso personale e sociale dove essa sarebbe un male solo per me o per la famiglia alla quale appartiene - per iscriversi nell'ordine oggettivo: è male in sé, indipendentemente da me, dagli altri e da lui stesso.
    Questo orizzonte dischiuso dall'«è giusto» - appunto perché oltre la fattualità e oltre la coscienza individuale o di gruppo - è l'apparizione stessa dell'assoluto (o divino) che la coscienza trascrive ma non origina e che al soggetto umano - a tutti i soggetti umani - si offre, con la forza dell'imperativo, come possibilità oggettiva per l'esistenza umana. «L'è giusto» è la trascrizione, nell'ordine del linguaggio, di questo orizzonte di assoluto entro cui l'esistenza si realizza, è l'emergenza, nell'ambito della coscienza, della misura e del vincolo entro i quali - e non, come ha creduto troppo facilmente il moderno, contro i quali - la vita fiorisce.
    La «giustizia» - il mondo dove regna l'«è giusto» - non è un mondo senza amore o contrario all'amore, ma l'esatto contrario: quello dove esso splende pienamente (per tutti e non solo per me) e realmente (oggettivamente e non solo all'apparenza), e non in virtù di una comune forza autoespansiva della quale si partecipa - Natura, Energia cosmica, Totalità, Vita, ecc. bensì in virtù di un vincolo che appare come misura e come limite.
    Il mondo «giusto» - lungi dall'essere il mondo della legalità fredda e impersonale - è il mondo della felicità, ma di una felicità non individuale e soggettiva bensì oggettiva e ontologica, iscritta nella volontà creatrice prima che nello psichismo umano. Potremmo dire che il mondo «giusto» è il mondo «ordinato» e «felice», dove il primo aggettivo dice la sua dimensione oggettiva, trascendente e vincolante i singoli, mentre il secondo quella soggettiva, derivante, quale riflesso e aroma, dal precedente.

    Il mondo ordinato e felice

    L'esistenza di un mondo ordinato e felice è sempre stato il sogno dell'umanità. Gli uomini e le donne di tutti i tempi e di tutte le culture hanno sempre pensato - e oggettivato nei loro grandi testi narrativi (pitture, miti, riti, ecc.) - che il mondo dell'uomo è un mondo per l'uomo e che esso può essere uno spazio amico e fidato come la propria casa. Più che di una idea, si tratta di un'esperienza che, nonostante la minaccia sempre ricorrente dei diversi gnosticismi (la permanente tentazione dello spirito umano di sentire il mondo come esilio invece che come patria), si è attestata, nella storia delle culture umane, come la più radicata.
    La Grecia ha coniato un termine molto bello per esprimere la sua percezione di un mondo ordinato e felice: il termine kosmos (da cui parole come cosmico o cosmologia), dove l'accento cade non tanto sull'esserci delle cose quanto sul loro esserci secondo un ordine bello e armonioso, accettando il quale e riconoscendolo ciascuna e tutte le singole parti realizzano se stesse e trovano la felicità.
    Anche la Bibbia condivide l'idea di un mondo ordinato e felice ma, a differenza della Grecia, non pensa che esso sia dato una volta per tutte e solo da Dio ma che dipenda, contemporaneamente, sia dall'uno che dall'altro in un gioco di reciprocità mai programmabile in anticipo e che, per questo, resta sempre «evento», cioè per natura imprevedibile. È in questo aspetto di «evento» o imprevedibilità - il mondo «felice e ordinato» può esserci come non esserci - la differenza profonda tra la «giustizia» come ne parla la Bibbia e la giustizia come ne parla la Grecia, e la provocazione che la prima rappresenta alla nostra intelligenza e ai nostri progetti in un periodo come l'attuale caratterizzato dalla presenza degli immigrati e dalla necessità, per le singole culture e identità, di ripensarsi in modo planetario.

    L'alleanza

    Per esprimere la maniera con la quale, nella Bibbia, è possibile creare il mondo dell'«è giusto», gli autori sacri ricorrono alla categoria dell'alleanza, la stessa categoria con la quale viene interpretata la vita di Gesù quando di lui viene detto che è «la nuova ed eterna alleanza», come si ripete in ogni celebrazione eucaristica. La categoria dell'alleanza esprime un concetto paradossale che è del tutto estraneo alla mentalità abituale della maggior parte dei cristiani, e che consiste nell'affermare che Dio stringe un patto con l'uomo.
    Cerchiamo di cogliere la provocazione e la fecondità di una affermazione come questa attraverso l'esplicitazione dei suoi contenuti principali.
    Il primo dato sorprendente sul quale riflettere riguarda il soggetto che ha l'iniziativa del patto o dell'alleanza; è Dio, infatti, che si «allea» con l'uomo e non l'uomo con Dio. Se si leggono e studiano la maggior parte delle grandi letterature mondiali relative al religioso, si constata quasi sempre - a livello di formulazione - che a promuovere l'alleanza sia l'uomo e non Dio, avendo l'uomo bisogno di Dio e non viceversa. Nella stessa concezione cristiana non è l'uomo definito - più per influsso greco che biblico - «bisogno di Dio» che solo in lui si può appagare, secondo la celebre definizione agostiniana: «il nostro cuore, Signore, è inquieto finché non riposa in te»?
    Presentando Dio come soggetto dell'alleanza, la Bibbia non solo lo sottrae alla sfera della oggettualità, ma smaschera come illusoria qualsiasi ricerca del divino che si iscriva sulla linea ascensionale del desiderio o dell'io come principio autoespansivo. È talmente centrale nella Bibbia la convinzione dell'impossibilità di pervenire a Dio a partire dal bisogno umano che qualsiasi movimento che parta dal secondo verso il primo viene denunciato come idolatria e come magia. È questo il motivo per cui essa non lascia spazio neppure al «misticismo», inteso come unione o simbiosi con il divino.

    Dio ha bisogno dell'uomo

    Ma perché Dio si «allea» con l'uomo? È nel rispondere a questo interrogativo che la categoria dell'alleanza rivela ancora di più la sua paradossalità: si «allea» con lui perché ne ha bisogno. Ma come è possibile che Dio abbia bisogno dell'uomo? Non è egli onnipotente? Non è piuttosto vero il contrario: che cioè è l'uomo ad avere bisogno di Dio? Affermare che, secondo la Bibbia, Dio ha bisogno dell'uomo, non è ricorrere ad una espressione poetica, ma penetrare nel cuore stesso dell'esperienza di fede, la quale insegna che «come l'uomo ha bisogno di Dio, così Dio ha bisogno dell'uomo per la realizzazione del suo disegno... Secondo i rabbini Dio ha creato il mondo germinalmente, lasciandone all'uomo la continuità del processo creativo. Dio ha bisogno dell'uomo come copartner nella costruzione del suo regno sulla terra» (W.B. Silverman, in A Modern Treasury of Jewis Toughts, p. 74). L'idea che Dio ha bisogno dell'uomo nella creazione del mondo è soprattutto espressa nel celebre versetto della Genesi, dove si narra dell'uomo e della donna fatti «a sua immagine e somiglianza». Stando al significato originario di queste due parole bibliche, la «similarità» che il testo ravvisa tra l'uomo e Dio non è di ordine contemplativo ma operativo e non riguarda l'essere ma l'agire. L'uomo è «simile» a Dio non nel senso che nella sua struttura ontologica o spirituale ci sia qualcosa che, in sé, richiami il divino, ma nel senso che lui è posto nel mondo come suo rappresentante, luogotenente e vice. E poiché Dio ha creato il mondo, l'uomo è chiamato, con Dio e come Dio, a continuare a crearlo.
    Ma il tema dell'uomo concreatore del mondo resta profondamente ambiguo e le accezioni che di esso si danno sono spesso l'esatto contrario del suo significato originario. Una prima accezione da evitare è quella di chi l'intende con la categoria del «potere» e del «dominio» che continuano nella storia l'azione creatrice e plasmatrice di Dio. Una simile lettura, così cara alla teologia della secolarizzazione e non estranea neppure alla suggestiva concezione evoluzionistica di Teilhard de Chardin, ha il torto di dimenticare che la creazione non è, per la Bibbia, un gesto di potenza - il creare le cose dal nulla - ma di amore - il donare il mondo gratuitamente per colmare il bisogno umano - e che, pertanto, «concrearlo» non può significare, in primo luogo, trasformarlo con la forza della ragione e della tecnica ma «condonarlo» nell'amore allo stesso modo che è donato.
    È quindi l'amore e non l'intelligenza - ontologica, logica o strumentale - ciò di cui Dio ha bisogno per continuare a concreare il mondo. Ma parlando di amore si è già nella seconda accezione da evitare e che, più ancora della precedente, falsa la concezione biblica dell'uomo concreatore del mondo. L'amore infatti di cui parla il testo biblico non è quello spontaneo e naturale così come è stato elaborato dalla Grecia e che nella concezione dell'eros - amore di desiderio che per forza interna si diffonde e autoespande - ha trovato la sua espressione tematicamente più alta. Se così fosse, l'uomo sarebbe concreatore di Dio attraverso la tessitura del suo amore di eros che spontaneamente, attraverso il suo dinamismo interno, sarebbe mediazione dell'Amore stesso di Dio.
    L'esempio più noto di una concezione come questa sarebbe quello dell'amore sponsale attraverso il quale Dio continuerebbe a creare.

    Dio ha bisogno della bontà dell'uomo

    Ma per la Bibbia l'uomo diviene concreatore di Dio non attraverso il dinamismo del suo amore di desiderio ma attraverso l'evento della sua responsabilità, intesa etimologicamente come capacità di rispondere, di dire «sì» o «no». È attraverso questo «sì» - un «sì» non naturale perché a differenza di quello dell'amante per l'amata passa attraverso la reale possibilità di dire «no» - che l'amore di Dio, che è amore di gratuità, passa e circola nella storia umana, restando bloccato dove quel «sì» viene a mancare.
    Per la Bibbia l'uomo si fa concreatore con Dio non dove il suo amore lo attrae verso l'altro, ma dove la sua libertà si fa buona chinandosi in un gesto gratuito di bontà o benevolenza. Per questo, nell'Antico Testamento, l'espressione più alta dell'amore umano non è l'amore materno e parentale (questa figura di amore è sempre esistita e non richiede, di certo, di essere rivelata) ma quello per «l'oppresso», «l'orfano», «la vedova», «lo schiavo» e «lo straniero»; e per lo stesso motivo, per il Nuovo Testamento, la pagina più alta che trascrive l'identità del cristiano non è il gesto dell'amico per l'amico ma quello - paradossale e inimmaginabile - del «padrone» che lava i piedi ai suoi servi. «Lavare i piedi», lungi dall'assecondare il movimento spontaneo del desiderio, ne costituisce l'alternativa, dischiudendo un orizzonte in cui l'altro è amato non in quanto oggetto interno al proprio bisogno di realizzazione e di progetto, ma in quanto alterità assoluta e irriducibile. La responsabilità biblicamente intesa - l'unica mediazione attraverso la quale l'uomo diviene concreatore di Dio - si identifica proprio con questo amore di alterità, un amore che invece di accostarsi all'altro per catturarlo nel proprio mondo di bisogno, vi accede ponendosi a suo servizio e facendosi bontà.
    Si tratta pertanto di una responsabilità radicale che non è quella che si esercita nei confronti dell'io e delle sue scelte progettuali (la responsabilità, per esempio, di portare a termine una laurea per chi l'ha scelta o di svolgere bene la propria professione per chi l'ha iniziata), ma nei confronti dell'altro, in quanto «orfano», «vedova», «diverso», «immigrato», ecc.

    L'apparizione di Dio

    Ma è possibile amare di amore di alterità e andare verso l'altro non spinti dal suo valore ma per scelta di bontà? È possibile «lavare i piedi» e accogliere l'«orfano» la «vedova» e, oggi, i nuovi «barbari», i nuovi immigrati? E se qualcuno fosse capace di un amore come questo, non sarebbe esso disumano, frutto di un volere autolimitativo e castrantesi invece che del libero e gioioso autoespandersi?
    La domanda è seria e la risposta della tradizione biblica è che, in verità, l'amore di alterità è impossibile se non ci fosse Dio che, apparendo, si pone tra me e l'altro suscitandomi capace di farmene carico. Dio è Dio, per la Bibbia, per questa nuova vocazione che egli instaura nell'uomo per cui questi, da essere di desiderio e di bisogno, si scopre oltre il desiderio e oltre il bisogno, non nel senso che li rinnega o li sublima, ma in quello di non farsene più determinare come principio.
    È in forza di questa apparizione - e non per sforzo prometeico o autoimposizione - che l'uomo non solo si scopre capace di amore di alterità - cioè di giustizia - ma scopre che questa sua nuova capacità, lungi dal reprimerlo, costituisce la sua identità originaria, al di fuori della quale è solo apparenza e vanità. L'affermazione che l'amore di alterità (o bontà o giustizia) è possibile solo in forza dell'apparizione, esige una duplice esplicitazione, l'una riguardante soprattutto il credente, l'altra il non credente.
    Nell'ambito credente è nota l'accusa proveniente da molte parti (si pensi, a titolo d'esempio, ai critici della teologia della liberazione) che ridurre la fede solo alla promozione della giustizia sarebbe privarla della trascendenza per ridurla indebitamente a immanenza, dove non resterebbe più spazio per quell'ulteriorità che è il mistero di Dio. Ma una concezione come questa - che riduce la giustizia solo a fatto immanente ignorandone lo spessore e l'incarnazione di trascendenza - è criticamente sprovveduta e ingenua. La giustizia infatti - che è amore di alterità per l'«orfano», la «vedova» e l'«immigrato», ecc. - non appartiene a questo «mondo», non si iscrive in alcun modo nella sfera del desiderio umano, dei suoi giochi o dei suoi determinismi; per cui se essa appare, appare come dono di Dio e della sua potenza di agape (il termine greco per esprimere l'amore divino).
    Quanti temono che, identificando il vangelo con la giustizia, lo si riduce a orizzontalismo a scapito della sua trascendenza, non sanno che la giustizia è e può essere solo frutto e dono della trascendenza accolta e assecondata.
    Paradossalmente nell'ambito non credente si assiste ad una critica opposta ma simmetricamente speculare. Se la giustizia è resa possibile solo dall'apparizione di Dio, non si squalifica, in questo modo, la giustizia laica? Non si viene ad affermare - con un atto di «ingiustizia» che suonerebbe blasfema - che solo coloro che credono in Dio possono essere «giusti» ed esercitare la giustizia? Ma anche qui la risposta biblica è paradossale e liberante. Per compiere infatti la giustizia non è necessario accettare e riconoscere l'esistenza di Dio, ma viversi come «misurati» e a servizio dell'altro, detronizzando il proprio io come principio incontrastato.
    Chi si vive come «misurato» e a servizio dell'alterità - che è la giustizia è dentro un orizzonte che non è più quello dell'io ma di un'Istanza che lo trascende e lo vincola, sottraendolo a se stesso e riorientandolo. Non è importante il nome di questa Istanza - che, a seconda dei casi, delle storie e dei contesti, può essere chiamata Legge, Dovere, Diritto, Giustizia, Natura Amore o Dio stesso - ma la nuova identità e la nuova autocomprensione che essa instaura: viversi non più come principio di autoespansione - dalle forme più prometeiche e progettuali-- ma come vocazione a servizio dell'amore.
    Non che i nomi e le tematizzazioni siano irrilevanti - non è infatti indifferente nominare l'Istanza che si interpone tra me e l'altro come Legge naturale o come Volontà personale - ma esse trovano il loro criterio ultimo di verità in un ambito che è ad essi esterno, non più linguistico ma etico. È l'etico - l'agire giusto - l'orizzonte che, per la Bibbia, rischiara e misura tutti gli universi (da quello della prassi a quello del linguaggio, da quello dell'estetico a quello dello scientifico, da quello del teoretico a quello stesso del religioso nelle sue molteplici dimensioni rappresentate dal catechetico, dal rituale e dal teologico) impedendogli di trasformarsi in assoluto, struttura o gioco.

    L'agire giusto

    È quindi l'apparizione di Dio - o l'istanza trans-soggettiva - a trasformare l'uomo da soggetto di bisogno e di desiderio, che vive per il suo io, a soggetto di giustizia, che vive per l'altro. Ma cosa vuol dire vivere per l'altro e essere capaci di giustizia? Nell'accezione biblica, l'agire «giusto» non è definito né in base ad un principio universale né in base ad un diritto previamente acquisito (come quando si dice che «il giusto» è «dare a ciascuno il suo») ma in base all'agire stesso di Dio che si è chiamati a riprodurre. «Giusto» è chi agisce come Dio volendo per l'altro ciò che egli vuole per tutti; è colui il cui volere si fa trasparenza ed esecuzione del suo (di Dio) stesso volere.
    La Bibbia è il racconto con modulazioni inesauribili, di questo volere che è un volere di amore e i cui tratti principali sono la gratuità, la concretezza e l'esigenza.
    Innanzitutto la gratuità, nel senso che il suo «andare verso» l'uomo non è motivato da un valore che lo attrae, come nell'amore di eros, ma è immotivato, senza ragione che non sia quella di farlo vivere e renderlo felice. Si tratta pertanto di un «andare» che non è un «tendere» ma un evento, l'evento della benevolenza che avvolge l'altro per farlo essere.
    Da questo punto di vista la giustizia biblica si differenzia sostanzialmente, da quella greca e dalle accezioni più correnti; essa, infatti, non è l'oggettivazione fredda e impersonale di una Legge o di una Natura necessitante, ma l'evento di una bontà che, liberamente, si fa compagnia e vicinanza. Essere giusti, nella Bibbia, non è obbedire ad un principio universale - dell'Essere, della Natura, del Cosmo o della Totalità - ma aprirsi e assecondare, nella responsabilità, l'evento divino della bontà.
    Il secondo tratto è quello della concretezza, con cui si intende lo spessore «materiale» e «terrestre» dell'amore di Dio per l'uomo. Egli infatti non ama l'uomo per i suoi valori intrinseci e neppure - secondo un'interpretazione corrente ma priva di ogni fondamento biblico - perché sua «immagine e somiglianza» ma in quanto essere «povero» - cioè essere di bisogno - che colma con i beni della terra. Questa - la terra, come metafora della totalità dei beni necessari al bisogno umano, da quelli primari a quelli più simbolici, filosofici e spirituali - non è, per la Bibbia, l'epifania di Dio o della sua gloria, ma il dono quotidiano che egli gratuitamente fa all'uomo per farlo vivere e renderlo felice.
    Essere giusti è - come Dio - dare all'altro ciò che colma il suo bisogno: pane e casa, vicinanza e affetto, parola e cultura, ecc. Questi non sono beni «secondari» rispetto ad altri di ordine superiore, ma l'incarnazione della sollecitudine di Dio per i suoi poveri. Chi è giusto - chi nel suo stile di vita si lascia guidare dall'«è giusto» - non vive nell'orizzonte delle «cose mondane e penultime», ma già nell'orizzonte «ultimo», cioè divino. Per questo, come vuole una grande pagina talmudica, chi è giusto ha già vinto la morte.
    Ma il carattere più radicale dell'amore divino è il suo carattere di esigenza. Esso infatti, mentre si offre all'uomo per colmarne il bisogno, lo costituisce soggetto di responsabilità oltre il bisogno, chiamato ad amare come Dio stesso ama, dando gratuitamente. Ciò vuol dire - come si è già notato - che l'amore di Dio - che è colmare il bisogno umano - non si realizza in forza del solo amore di Dio ma in forza dell'amore dell'uomo che vi acconsente. Il «giusto» è l'uomo che, dentro il suo essere soggetto di bisogno, scopre un «di più» che è oltre il suo bisogno e che è il suo «sentirsi» chiamato da Dio a condividerne l'amore gratuito e terrestre. La giustizia è, per la Bibbia, l'oggettivazione di questa «condivisione» dove l'amore di Dio passa attraverso l'amore dell'altro.
    Anche qui può aiutare un'analogia, quella di una torta che una donna prepara per la gioia dei commensali chiamati a condividerla rispettandone l'intenzionalità di dono che la sottende e che giunge a compimento solo attraverso la responsabilità di acconsenti mento di ciascuno di essi. Se uno o alcuni dei commensali, incuranti della sua realtà di dono, se ne accaparrasse individualmente o ne impedisse la circolazione fra tutti, quel gesto sarebbe offensivo nei confronti di chi l'ha donata e degli altri invitati.
    Per la Bibbia la terra è il dono di Dio all'umanità e gli uomini sono i commensali (da questo punto di vista il simbolismo del banchetto è più che un simbolismo!) chiamati a condividerla nella responsabilità attiva. L'uomo giusto è il soggetto condividente, il soggetto etico che, rinunciando a farsi padrone dei beni della terra, acconsente al loro dinamismo di gratuità ridonandoli. La giustizia è l'orizzonte della gratuità che da recettiva («tutto ti è donato») si fa attiva («tutto devi ridonare») e che da principio si oggettiva in iniziative, in scelte, in opzioni preferenziali, in strategie o lotte di liberazione, in progetti di integrazione, in figure istituzionali, ecc.

    Annunciare il Dio della giustizia

    La pagina più alta della Bibbia, in cui prende corpo l'esperienza originaria che Israele ha avuto di Dio e che è al fondamento dello stesso Nuovo Testamento, è quella dell'Esodo dove, al capitolo 3 si legge: «Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele"» (vv. 7-8).
    Annunciare il Dio della giustizia è annunciare un Dio che, come ieri ha «osservato la miseria» degli «stranieri ebrei» mettendosi dalla loro parte, così oggi è in ascolto del gemito dei nuovi stranieri che bussano alle nostre porte e invadono le nostre città. E come il Faraone d'Egitto invano si oppose al progetto di liberazione di quegli antichi schiavi, così i paesi della ricchezza e della sovrabbondanza - che noi siamo invano possono ostacolare il processo di integrazione e di accoglienza dei nuovi «schiavi» che popolano le nostre strade e sui cui volti provati è posato lo stesso sguardo di Dio.
    In un mondo che, per la prima volta, sta diventando villaggio, nei cui vicoli si incontrano e confondono, colori, popoli, etnie e culture di ogni provenienza e di ogni differenza, annunciare il Dio della giustizia è annunciare e creare la solidarietà del dono e della condivisione, una solidarietà capace, come quella di Dio, di chinarsi sull'altro in quanto altro, dando e creando - a tutti i livelli, da quello materiale a quello istituzionale con leggi opportune - un mondo giusto che è il mondo dell'«è giusto», trascrizione e realizzazione del volere e del sogno di Dio.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu