Pastorale Giovanile

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    Utilizzare gli itinerari con mentalità da itinerario



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1991-10-70)


    NPG ha lanciato, qualche anno fa, l'invito a pensare e a realizzare l'educazione alla fede dei giovani nella logica dell'itinerario. Non ci preoccupa affatto la pretesa di essere stati tra i primi a sottolinearne questo riferimento. Né, tanto meno, avanziamo la richiesta di utilizzare l'espressione secondo lo spessore con cui abbiamo cercato di identificarla.
    Ci sta a cuore la crescita dei giovani in una matura esperienza di vita umana e cristiana. Su questa causa ci misuriamo e da essa ci lasciamo inquietare.
    Per questo, ci sembra importante prendere sul serio la qualità innovativa di cui è carica la proposta. Sarebbe un peccato realizzare il riferimento alle esigenze dell'itinerario come una veloce sostituzione dei termini vecchi con parole dal sapore un po' più d'avanguardia: è mutata l'etichetta, ma il vino è rimasto quello di prima, buono o cattivo a secondo dei gusti.

    IL SENSO DELLA RIFLESSIONE

    Il lavoro di questi anni, nella riflessione teorica e nella prassi quotidiana, mi ha progressivamente maturato in una costatazione. La dichiaro subito e poi la commento.
    Il richiamo all'itinerario e l'uso dei suoi modelli richiede una "mentalità da itinerario", per essere spinto al meglio. Una utilizzazione solo strumentale lo svuota di significato, riducendo i guadagni che potrebbero rimbalzare sulla educazione alla fede.
    Mi spiego con un esempio.
    Molti noi lavorano con il computer. Dopo le prime incertezze e qualche resistenza (fisica, economica o psicologica...) ci affidiamo alla sua funzionalità per risolvere molti dei problemi che attraversano il nostro lavoro.
    Esistono ottimi programmi di scrittura, così raffinati da farci produrre in pochissimo tempo pagine di alto livello grafico... Anche i contenuti ci guadagnano: possiamo orientare le risorse, prima impegnate in fatiche ripetitive, in una più accurata ricerca delle fonti e verso una revisione più attenta del testo.
    Il computer ci aiuta ad organizzare e a scambiare bibliografie, con la facilità e la compatibilità con cui una volta facevamo la raccolta delle "figurine".
    Il computer ha fatto diventare disegnatori provetti anche coloro che hanno sempre stentato a conquistare un voto sufficiente nella scuola di disegno.
    Qualcuno conclude: il computer fa molte cose. Sarebbe meglio dire: permette di fare molte cose pregevoli a chi lo sa utilizzare.
    Questo è il punto.
    Un uso solo strumentale del computer riduce moltissimo le sue prestazioni. Corro il rischio di sprecare tempo e energie per fare, male, una operazione che farei rapidamente con carta e penna.
    Utilizzato saggiamente, "con mentalità informatica", diventa prezioso compagno di lavoro e di tempo libero.
    Ho scelto l'esempio per commentare dal vissuto di molti di noi il richiamo all'uso dell'itinerario con "mentalità da itinerario".
    Non solo dice il fatto. Esprime anche il modo con cui possiamo acquisire la mentalità raccomandata.
    Basta pensare ai primi contatti con il computer.
    All'entusiasmo dei primi approcci, timidi e amorosi, è subentrata la delusione. Le difficoltà sembravano insormontabili. Ci siamo trovati ad una alternativa... drammatica: romperci la testa per "capire" e "dominare" la macchina e i programmi relativi, o limitarci al minimo indispensabile per non sciupare soldi e lavoro, magari con una ammirazione sconfinata verso quelli che ci capiscono di più e se la intendono meglio.
    Il primo incontro con la proposta di utilizzare gli itinerari ha spalancato frammenti di novità. Alle difficoltà, immancabili, come reagiamo?
    Ecco la proposta: proviamo a verificare se sappiamo operare con "mentalità da itinerario".

    DAL PROGETTO ALL'ITINERARIO

    La riscoperta della logica dell'Incarnazione ha spinto comunità ecclesiali e operatori di pastorale giovanile a confrontarsi seriamente con le scienze dell'educazione anche nell'ambito specificamente pastorale.
    Una delle conseguenze più interessanti è stato l'impegno di "fare progetti". Anche la pastorale giovanile è passata attraverso la ricerca di obiettivi, metodi, valutazioni, definizione di ruoli e di responsabilità.
    All'inizio ci sono state difficoltà non piccole. Temevamo di stringere la forza irruente dello Spirito dentro le maglie di un'operazione dal sapore troppo burocratico, riducendo la comunità ecclesiale ad una industria alle prese con preventivi e previsioni. Ma poi le prospettive si sono equilibrate.
    Le motivazioni teologiche hanno riscattata l'ambivalenza del gesto. L'operazione è stata condotta con la consapevolezza evangelica del "servo", che dopo aver fatto il suo dovere, riconosce il limite della sua competenza.
    Ora, quello del progetto risulta un discorso abbastanza pacifico e condiviso.
    Il richiamo all'itinerario mette in crisi proprio coloro che hanno creduto più intensamente alle esigenze del progetto. Parlando di "itinerario" - dice qualcuno - adesso si cambia tono?
    L'obiezione è piena di buone ragioni se l'invito a lavorare con logica di itinerario significasse cambiare modelli, abbandonando una strada appena esplorata per buttarsi su quella nuova, solo per il gusto del cambiamento.
    Il primo passo verso una "mentalità da itinerario" sta proprio nella fatica di comprendere bene queste problematiche. Sarebbe infatti deleterio scegliere l'itinerario con la nostalgia di quello che si è costretti ad abbandonare o sceglierlo come un ultimo disperato tentativo, dopo il fallimenti dei precedenti.

    Per comprendere il progetto

    Progetto significa organizzazione sistematica delle risorse e delle operazioni; fa il punto su quello che esiste e immagina verso dove siamo in cammino, inventariando i materiali di cui disponiamo.
    Esso infatti è un piano generale di interventi che concretizza una visione educativa e pastorale. Segna gli obiettivi operativi adeguati ai bisogni e alle esigenze delle differenti situazioni (personali, sociali, ambientali). Suggerisce linee concrete e mezzi per raggiungere questi obiettivi. Crea ruoli e funzioni per assicurare l'efficacia delle linee e il raggiungimento degli obiettivi.
    L'attenzione al progetto proviene da una doppia esigenza.
    Da una parte, è questione di serietà di azione. Procedere alla cieca o sull'onda degli entusiasmi è davvero pericoloso in un ambito dove c'è di mezzo la persona, la sua vita e il suo senso.
    Dall'altra, risulta condizione indispensabile per assicurare collaborazione in situazione di pluralismo. Per sollecitare persone diverse a fare qualcosa assieme, è indispensabile costruire assieme e condividere intensamente una mappa di intenti.
    Il progetto ha però il grosso limite di restare statico. Ha il ritmo delle cose fatte a tavolino. Gli sfugge l'imprevedibile gioco della libertà e della fantasia delle persone che sono in causa. Nella organizzazione delle risorse può prevedere che possa ad un certo punto entrare in gioco l'imprevisto e l'imponderabile; ma non può dire cosa esso sia in concreto.
    Pur avendo messo a fuoco tutti gli elementi che la possono far crescere, gli sfugge il ritmo reale della vita.

    L'itinerario: un progetto con le gambe

    Utilizzare gli itinerari con "mentalità da itinerario" significa soprattutto inserirsi in questo limite e cercare qualcosa che lo superi. L'itinerario cerca di dare dinamicità al progetto. O, per dirla con una formula che ha fatto fortuna: mette le gambe al progetto.
    Itinerario evoca tutto quello che il termine "progetto" si porta dentro. E aggiunge, quasi come coagulante, la dinamicità della vita.
    La meta è pensata come progressione, organica e articolata di mete intermedie che si portano dentro già la meta globale, in modo germinale. Gli interventi non sono immaginati solo in prospettiva funzionale, come se fossero gli strumenti di cui qualcuno si serve per far progredire il processo di maturazione. Sono invece esperienze vissute, capaci di far procedere il cammino con la forza propositiva riconosciuta al fare esperienza.
    La sottolineatura non è di poco peso. Chi pensa al metodo con una logica di prevalente strumentalità, s'accorge di avere a disposizione un bagaglio di "cose", più o meno ampio; e le utilizza, selezionando quelle che hanno dato buoni risultati o cercando, nel fondo del cassetto, qualche risorsa inedita per dare una virata improvvisa al ritmo.
    Nell'itinerario prevale invece la soggettività dei giovani, guidata e incanalata dalla presenza, accorta e amorevole, dell'educatore. Le risorse sono comprese in reciproco collegamento e sono valutate pertinenti nella misura in cui riescono a scatenare esperienze nuove. Adulti e giovani, assieme, camminano verso una meta, facendo esperienza di quanto è stato consolidato e, nella tensione e nel contatto con chi l'ha già raggiunto, di quello verso cui si è in cammino.
    Nel progetto queste indicazioni sono affermate, a partire da buoni principi pedagogici. Nell'itinerario sono sperimentate e vissute.

    La logica del seme e non quella dell'assemblaggio

    A guardare le cose troppo per il sottile, la differenza tra progetto e itinerario appare ancora piccola.
    Non lo nego affatto. Del resto mi preme riconoscere la continuità tra i due momenti.
    Qualcosa di diverso c'è, però: il richiamo al ritmo della vita lo indica e ne sottolinea la rilevanza.
    L'itinerario si caratterizza per la ricerca di obiettivi intermedi, capaci di assicurare attraverso movimenti progressivi il raggiungimento dell'obiettivo globale. Quale rapporto li collega? E, di conseguenza, in quale logica vanno selezionati? Il rapporto tra obiettivi intermedi e obiettivo finale è sullo stile dell'assemblaggio di elementi, verso una totalità presente solo nell'insieme? Oppure gli obiettivi intermedi esprimono quello finale già pienamente, anche se solo germinalmente?
    La vita umana e l'esperienza di fede sono come un seme: si portano dentro tutta la pianta in quel minuscolo frammento di vita in cui si esprimono.
    Per una forza intrinseca e in presenza di condizioni favorevoli, progressivamente l'albero della vita e quello della vita nuova del credente esplodono in qualcosa di continuamente nuovo.
    Le foglie, il tronco e i rami non si aggiungono dall'esterno. Non sono materiali da assemblare. Sono già presenti in germe: il seme è già la pianta, anche se lo diventa giorno dopo giorno.
    L'itinerario si distingue dal progetto proprio perché assume pienamente la logica del seme.
    L'itinerario è quindi un progetto che si fa progressivamente e che in ogni fase di realizzazione possiamo considerare come già attuato, anche se non ancora pienamente. I diversi movimenti rappresentano espressioni parziali e provvisorie di un tutto, già pieno e completo ad ogni tappa, anche se in modo ancora germinale e sempre proteso ad uno sviluppo successivo.
    Per concretizzare maggiormente il discorso e verificare la mentalità personale con cui sono visti questi processi, riprendo il paragone accennato poco sopra.
    La logica dell'assemblaggio è quella che caratterizza il modo con cui sorge un edificio o a con cui un appassionato integra di optionals la sua automobile.
    Nei primi passi, molti elementi mancano. Se ne accorgono tutti. La casa è solo alle fondamenta. L'automobile ha il minimo necessario per poter camminare. Poi, intervento dopo intervento, sono aggiunti gli elementi successivi. Ora sono davvero sotto la sguardo di tutti.
    Nella logica dell'assemblaggio, si può parlare di un minimo indispensabile e di abbellimenti, preziosi ma opzionali.
    La logica del seme è molto diversa: il seme contiene già tutta la pianta, anche se devono passare lunghi inverni prima che essa esploda in tutta la sua espressione rigogliosa. Gli elementi non si aggiungono dall'esterno; esplodono per una forza interiore, poste le condizioni che favoriscono la crescita.
    Il seme è già la pianta anche se lo deve diventare. Le aggiunte successive non sono piccoli optionals di un fanatico, ma esplosione della ricchezza vitale contenuta nella vita in germe. La crescita è continua: solo la morte la può bloccare.
    L'itinerario vuole distinguersi dal progetto per il ritmo in cui si svolge: non solo imprime dinamismo a quello che di natura sua è statico; lo fa come il seme rispetto alla pianta.
    Utilizzarlo con "mentalità" adeguata significa, di conseguenza, pensarlo nella logica del seme. Vivere la sua dimensione dinamica in prospettiva di assemblaggio significa veramente snaturarlo.

    UNA COMUNITÀ IN CAMMINO

    Il secondo elemento sul quale invito a verificare con quale mentalità si utilizza l'itinerario, è dato dal soggetto agente.
    In parole più semplici: chi fa l'itinerario?
    Nella logica del progetto è facile pensare ad un gruppo di educatori impegnato a studiare le organizzazioni procedurali migliori per stimolare la crescita dei giovani.
    L'itinerario dice invece cammino: un popolo in cammino verso una meta che investe la vita di tutti, anche se a titoli e con risonanze differenti.
    Ci pensiamo un momento.

    Il cammino comune

    Se l'itinerario fosse solo un ritrovato metodologico, potremmo immaginare un gruppo di educatori, ben radicati nelle loro sicurezze, impegnati a giocare all'itinerario, per prendere i giovani dal verso giusto.
    L'itinerario non è un grande gioco, all'insegna dell'attivismo pedagogico.
    Lo stato di cammino verso una meta che affascina da lontano, è invece una realtà molto più seria e coinvolgente. Mi fa pensare all'Esodo. Il popolo ebraico sogna una terra, che riconosce come la benedizione del suo Dio e che ormai è solo un ricordo lontano, legato come è alle dure necessità dell'esilio. Finalmente può partire. La potenza di Dio lo chiama a tornare a casa, lo accompagna nel lungo pellegrinare, lo sostiene di fronte ai nemici e lo inquieta quando lo scoramento e la nostalgia avanzano.
    Nella lunga marcia verso la Terra promessa, tutto il popolo è in cammino. Certo, qualcuno guida, incoraggia, sollecita. Le difficoltà segnano il passo di tutti, le incertezze sulla strada inquietano tutti e la fatica taglia il fiato a tutti. Il ritmo è quello di un popolo in viaggio: troppo lento per i facinorosi, troppo incalzante per gli stanchi e i pigri. È l'unico però che permette di procedere in avanti, come popolo.
    In questa prospettiva una comunità pensa all'itinerario.
    Tutta la comunità si mette in stato di itinerario: scende da una mentalità statica, sicura, mercantilistica... e si mette in cammino verso una meta, affascinante per tutti e più avanti dei passi più avanzati di ciascuno.
    La comunità non procede alla cieca. Il suo non è cammino a casaccio, un gironzolare per boschi e prati per occupare un po' il tempo.
    Essa ha un progetto e sogna con nostalgia una casa che è dono offerto alla nostra ricerca. Cammina verso una meta che affascina da lontano, che possiede solo nella speranza e che vede solo nella fede.
    Lo sappiamo e l'abbiamo meditato tante volte in questi anni. Abbiamo chiamato questo atteggiamento con una espressione di gergo: la coscienza ermeneutica.
    Gli educatori e la comunità ecclesiale "possiedono" e "cercano", con un atteggiamento ugualmente sincero e autentico. Scrivono quotidianamente nel concreto il loro sogno e il loro progetto, per dirlo con le parole che lo rendono significativo e seducente per i compagni di viaggio. Riscrivono quello che possiedono e devono testimoniare. E così riportano alla verità quello che sono chiamati a proporre con autorevolezza.
    Solo a questa condizione il cammino è vero.
    Altrimenti è solo un gioco adolescenziale: che "fa finta" di credere nella ricerca per rendere attivo il gioco e propina le soluzioni appena l'interesse tende a sfumare o si orienta verso direzioni non previste.
    Nel cammino comune tutti hanno un contributo da offrire, per dire con parole quotidiane il grande sogno di futuro, anche se alcuni hanno la responsabilità di testimoniare più intensamente quanto nel sogno è già posseduto.
    In questa logica di cammino, che la scelta dell'itinerario sollecita, un altro elemento va sottolineato con forza, per fare "mentalità".
    Il cammino è di un popolo verso la patria sognata. Nessuno è già arrivato a casa, anche se qualcuno ha il dono di intravedere meglio la meta e qualche altro ha il compito di ricordarla a tutti, con fermezza e insistenza.
    L'affermazione va ripresa in termini più concreti e verificabili.
    Fuori metafora, potrebbero risuonare così. La comunità in cammino non è solo la comunità ecclesiale o la comunità educativa in senso stretto. Tutta la comunità degli uomini, quella che vive in un concreto territorio, è in cammino. L'itinerario riguarda tutti..
    La meta è la pienezza di vita: quella maturità in umanità che i credenti riconoscono possibile solo quando ciascuno sa consegnare la propria fame di vita e di felicità al mistero santo di Dio.
    Il cammino di educazione della fede non è vissuto all'insegna del fare proseliti o nel tentativo di far entrare qualche giovane nel recinto sicuro della comunità ecclesiale. Il gruppo dei credenti (la Chiesa che è in quella situazione) si mette in cammino con tutti, per servire più autenticamente la vita e la speranza di tutti.
    Questa è una scelta molto importante, che riporta alla figura di Chiesa a cui il Concilio ci ha ormai abituati.
    Il popolo in cammino è quello vero, diffuso sul territorio, fatto di adulti e giovani, di credenti e di incerti, di buoni e cattivi, di forti e di deboli... Mettersi in cammino significa allargare la coscienza del cammino in un orizzonte che tenda potenzialmente ad abbracciare tutti.
    Lo so che di fatto solo pochi accetteranno questa prospettiva. Essi però non sono gli eletti, che partono sparati verso una meta che è solo per loro. Camminano per far camminare tutti, confessando di poter arrivare a casa solo in una compagnia che abbracci tutti. Per questo nel cammino comune l'impegno è di tenere un passo possibile per tutti: non basta certo arrivare primi e da soli alla meta.
    La meta è comune di fatto e di diritto. Se fosse pensata in termini discriminanti o se fosse immaginata come un possesso da difendere contro ingiusti aggressori, riesce ben difficile poter parlare di cammino comune. Siamo allo sbando: un popolo che fugge in cui ciascuno si arrangia come può.
    Il discorso è troppo importante per lasciarlo a questo livello. Ci ritornerò tra un momento.

    FAR FESTA PER FAR PROCEDERE

    Un altro aspetto qualificante verso una "mentalità da itinerario" riguarda il modo attraverso cui qualcuno si incarica di sollecitare a procedere, inquietando i rassegnati e svegliando chi si accontenta troppo facilmente del già posseduto.
    La scelta dell'itinerario non coincide assolutamente con la rassegnazione educativa né, tanto meno, l'invito a sentirsi tutti in stato di cammino può essere interpretato come qualunquismo educativo. Il cammino è verso una meta ben precisa, che alcuni sono chiamati a testimoniare con forza e fermezza. Nei confronti di questa meta scatta l'invito pressante verso una decisione.
    Come possiamo assicurare questa decisione?
    Il modello tradizionale usa la forza per spingere oltre: inquieta rimproverando, promettendo premi o minacciando castighi, proponendo modelli riusciti, che lasciano con il fiato rotto...
    Noi immaginiamo un'altra logica, molto diversa. Rappresenta una delle scommesse più esaltanti del modello di educazione alla fede che perseguiamo.
    L'abbiamo sperimentato tutti, ogni giorno. Ci sono persone che quando parlano sembrano abbracciare il proprio interlocutore, in un incontro appassionato che ha il sapore gioioso dell'accoglienza incondizionata; e ce ne sono altre invece che, dicendo magari le stesse cose, giudicano nelle parole pronunciate e condannano impietosamente.
    Figure tipiche di questo atteggiamento così diverso sono i due personaggi della grande storia dell'accoglienza, raccontata da Gesù: il padre e il fratello maggiore della parabola cd. del "figlio prodigo" (Lc 15, 11-32). Quando il ragazzo scappato di casa ritorna, il padre lo accoglie con un profondo abbraccio di pace e di riconciliazione. Non gli fa nessun rimprovero; non permette al ragazzo neppure una parola di pentimento. Non agisce così per rassegnazione e per indifferenza; e neppure certamente perché ha paura di rovinare tutto, adesso che le cose sono tornate alla normalità. La colpa è stata gravissima. Ha prodotto sofferenze pungenti in tutti. Il padre non può chiudere un occhio, come se non fosse successo nulla. Non è questo lo stile di Dio verso il peccato dell'uomo, che Gesù ci ha rivelato. A chi ha provocato tanto dolore, il padre rinfaccia il suo tradimento con la parola più dolce e inquietante possibile: l'abbraccio della gioia e della festa.
    Il figlio maggiore contesta questo comportamento, rinfacciando la cattiva condotta del fratello. Ricorda la disobbedienza del fratello e sottolinea il suo tradimento. La sua parola è dura: un giudizio di condanna senza appello.
    Il padre "ospita" il figlio tornato finalmente tra le sue braccia. Il fratello lo contesta e lo accusa.
    Il racconto di questa bellissima storia evangelica rende continuamente attuale l'esperienza dell'ospitalità. Raccontandola, Gesù ha ospitato nel sua abbraccio i peccatori disperati. Raccontandocela ogni giorno nella comunità dei salvati, ci ospitiamo reciprocamente nell'abbraccio dell'amore che genera riconciliazione.
    L'invito alla decisione e la sollecitazione a procedere oltre, verso cammini più impegnativi nasce dall'"ospitalità". Chi ha fatto un tratto di strada e colui che ha il compito di testimoniare la qualità della strada da percorrere sollecita e inquieta, "abbracciando" l'interlocutore.

    RESTITUIRE VITA, PERCHÉ SIA PIENA E ABBONDANTE

    Abbiamo costruito gli elementi di una "mentalità da itinerario" soprattutto indicando alcune esigenze.
    Il punto cruciale è un altro, più di sostanza.
    Potrebbero essere parole vuote quelle che sottolineano la necessità che la comunità ecclesiale si metta in cammino con tutti, cercando il passo di tutti e costruendo la meta in modo da riformulare il sogno verso cui siamo in cammino con le espressioni concrete di tutti... se non riusciamo a scrivere l'itinerario attorno ad un elemento che oggettivamente sopporti tutto questo.
    È inutile cercare una convergenza di intenzioni se poi la meta proposta risulta di fatto discriminante. Il cammino non può certamente risultare comune, soprattutto in un tempo di pluralismo, se quello che cerchiamo di raggiungere è diverso.
    In questi anni abbiamo meditato a lungo attorno a questi problemi inquietanti.
    Passo dopo passo, abbiamo ritrovato il significato teologico della vita, come ragione decisiva del servizio ecclesiale all'uomo. Essa rappresenta una tensione comune e specifica: il punto verso cui tendono gli sforzi di ogni uomo che voglia riprendere in mano la sua esistenza, per consolidare il suo senso e le ragioni di una speranza che neppure la morte possa distruggere; il cuore del servizio pastorale nel nome di colui che ha dato le sue credenziali proclamando, a fatti e a parole, di cercare la vita piena e abbondante di tutti.
    Non è questo il contesto in cui riprendere temi già motivati e sviluppati a lungo altrove.
    Sottolineo solo l'affermazione. L'itinerario può rappresentare un cammino reale di tutta la comunità degli uomini e un servizio specifico della comunità ecclesiale se è centrato sulla vita: sulla sua accoglienza e sull'impegno continuo di restituirla a ciascuno, per permettergli di viverla piena e abbondante, anche nel confronto con l'evento della morte.
    Ricentrare altrove l'itinerario significa veramente svuotarne la reale portata di coinvolgimento: diventa un fatto solo del piccolo gruppo dei credenti, che si preoccupa di tematiche solo sue; o diventa un percorso sul quale è inutile che la comunità ecclesiale giochi risorse e speranze.

    La meta comune in movimenti progressivi

    Una caratteristica dell'itinerario è la sua articolazione in aree e movimenti. Essi imprimono quella dinamicità in progressione che lo caratterizza.
    Nella definizione delle aree e nella loro organizzazione risulta decisiva l'attenzione alla vita.
    Nel nostro itinerario l'abbiamo tentata, immaginando mete che siano uno sviluppo del piccolo seme della vita in albero grande, di maturità, consistenza, esplicitazione progressiva del riferimento gioioso al Signore della vita.
    Le ricordiamo, perché sul loro senso si misura ancora quella mentalità che stiamo cercando di consolidare:
    - La prima area è orientata a restituire la vita a ciascuno nella sua autenticità: dal sì alla vita alla coscienza del limite che l'attraversa inesorabilmente e che si fa invocazione. L'uomo invocante è l'uomo pienamente vivo, restituito dalla passione educativa dei credenti alla gioia autentica della vita.
    - La seconda area cerca di offrire un fondamento rassicurante all'invocazione nella testimonianza del Signore e nell'incontro personale con lui propone. Al centro sono collocate due braccia robuste che afferrano chi si lancia in avanti, inquietato dalla vita che ha imparato ad amare e cerca di possedere nella speranza anche dentro la morte.
    - La terza area propone la scoperta della Chiesa, la grande compagnia sulla vita, di coloro che hanno conquistato una fede tanto robusta da "spostare le montagne" perché ci sia vita e speranza.
    - La quarta area ritorna ancora alla vita quotidiana, dalla novità sperimentata nell'incontro con il Signore e nella compagnia della Chiesa. La vita è restituita piena e abbondante a chi la cerca con ansia, quando riusciamo a sperimentare che siamo nella vita solo alla condizione di saperla perdere per la vita di tutti. Restituiti alla gioia di vivere, ci chiediamo "come" vivere. La vita viene scoperta come vocazione.

    Logiche diverse per un cammino unico

    Porre l'itinerario al servizio della restituzione della vita a ciascuno, nel nome del Signore della vita non comporta certamente un appiattimento delle differenze. Questo vale per il ritmo: è comune nella differenziazione. Vale soprattutto per lo stile con cui sono programmate le diverse esperienze attraverso cui si accoglie e si sollecita.
    L'idea che gli strumenti vadano sempre bene e che basta usarli saggiamente per ottenere buoni risultati ci riporta a quella logica strumentale dell'itinerario che sto contestando.
    "Mentalità da itinerario" significa in questo contesto saper progettare interventi ed esperienze proporzionati a ciò che si vuole ottenere. Se basta lavorare intelligentemente di scienza e sapienza, non dobbiamo scomodare la Bibbia. Quando invece ci misuriamo con il mistero, che riduce a stoltezza la nostra presunzione, lì dobbiamo immergerci nel silenzio a cui la Parola di Dio ci chiama. Ci sono cose che si possono spiegare ed eventi che vanno prima di tutto sperimentati.
    Per dire le cose in concreto, ripenso alle quattro aree appena sottolineate e suggerisco la qualità di ciascuna.
    La prima area utilizza prevalentemente contributi  di scienza e sapienza. In questo ambito, per decifrare problemi ed elaborare prospettive l'educatore della fede è chiamato a porsi disponibilmente alla scuola delle scienze dell'educazione. Opera però con quella sapienza educativa che lo "sguardo di fede" gli suggerisce. Per questo si orienta nell'intricato panorama dei modelli antropologici diffusi, sceglie e organizza, tenendo davanti quell'immagine d'uomo di cui scorge il riflesso, contemplando il mistero di Dio in Gesù di Nazareth.
    La seconda area è tutta centrata sulla testimonianza dei cristiani. Essi dicono, con i fatti della loro speranza e con le parole evocative della loro fede, l'Evento capace di riconsegnare ad un Fondamento donato la nostra sofferta ricerca di fondamento. Per sollecitare e sostenere l'incontro con Gesù Cristo non basta più scienza e sapienza. Ci vuole il vissuto di una comunità credente e l'interpretazione di questo vissuto attraverso la parola della fede.
    Il riferimento corre perciò al Vangelo, il documento privilegiato dell'esperienza, vissuta e interpretata di coloro che hanno "incontrato" Gesù, facendo strada con lui. Del vangelo rileggiamo i testi che raccontano la storia di Gesù e quelli che svelano la progressiva comprensione dei suoi discepoli e penetrano nella novità di vita suscitata.
    La terza area è tutta incentrata nella logica del "fare esperienza". La comunione ecclesiale, come esito e fondazione di ogni nostra quotidiana costruzione di comunione, è sbilanciata infatti dalla parte dell'esperienza: l'appartenenza è assicurata, in modo corretto e convincente, quando si respira un clima di comunità e quando lo si allarga e lo si invera in una espressione più grande e impegnativa, verso quel mistero di profonda comunione che tutti ci avvolge.
    Il documento da considerare è la vita reale della Chiesa: dall'esperienza apostolica degli "Atti" e di alcune pagine delle "Lettere", a quella dei Padri, dei secoli felici e di quelli un po' tristi, fino ai nostri giorni. Da questi "testi" sono messi in risalto i frutti della presenza operosa dello Spirito di Gesù tra i suoi discepoli. E sono sottolineate le fatiche che richiede la fedeltà a questi doni.
    La quarta area ci riporta allo stile di vita nuova, caratteristico di colui che ha incontrato il Signore della sua vita. Il cristiano arriva persino a gridare, con la audacia generata dalla compagnia, che si può essere nella vita solo quando la si perde per amore. In questa area, davvero il buon senso non basta più. L'autorevolezza di dire certe cose e di sollecitare verso direzioni nuove di esistenza ci viene solo dal coraggio di prendere sul serio l'evangelo: quello scritto e quello vissuto da tanti credenti, che hanno riempito il loro tempo della fede nel Crocifisso risorto.

    MOLTE RISORSE AL SERVIZIO DELL'UNICO OBIETTIVO

    Abbiamo pensato l'itinerario all'interno di un progetto di pastorale che crede intensamente all'educazione e fa dell'educazione il luogo privilegiato per l'evangelizzazione.
    Fuori da una chiara, diffusa, ricercata logica educativa, l'itinerario non ha senso.
    Questo significa molte cose che non sto a ripetere. Spendo qualche parola solo su un aspetto che mi sta particolarmente a cuore.
    Spesso chi incomincia a lavorare con itinerari, si chiede: molti itinerari oppure un unico itinerario?
    La domanda è seria.
    Nasce come conseguenza del riconoscimento di una esigenza educativa molto insistita: il rispetto alla irripetibilità di ogni persona e delle differenti situazioni educative in cui si svolge il suo servizio. Non riusciamo più a pensare infatti in termini troppo massificati e cerchiamo piani e interventi molto legati alla diversità.
    I diversi operatori pastorali sanno di convergere su una causa comune non perché ripetono tutti le stesse cose ma quando mettono competenza e differenza al servizio di impegni che sono unitari solo ai livelli più alti.
    La domanda è seria ed esige risposte elaborate.
    È evidente, infatti, che la formulazione di un itinerario deve tenere presenti alcune variabili.
    Vanno considerati prima di tutto i diversi periodi dell'arco evolutivo: preadolescenti, adolescenti, giovani, giovani adulti.
    Le indicazioni vanno inoltre specificate sulle differenti tipologie giovanili. La diffusa frammentazione culturale segna notevolmente la qualità dell'essere giovani, oggi.
    Infine ogni itinerario si concretizza sulla misura dei diversi ambienti di azione (gestione della cultura, sport e attività di tempo libero, catechesi, animazione liturgica...) e delle diverse risorse (agenzie di intervento educativo e pastorale, le persone, gli strumenti, le tradizioni, le strutture).
    Su queste variabili gli itinerari non possono che risultare diversi, per rispettare davvero la centralità dei destinatari.
    Ragioni molto serie sollecitano però verso una profonda convergenza sulle logiche di fondo, anche nella eventuale diversificazione operativa.
    La prima riguarda proprio i destinatari.
    Sul piano dei livelli di maturità ci sono innegabili diversità. Non mi piace però immaginare itinerari per i più bravi e itinerari per i meno dotati.
    Preferisco invece riaffermare la scelta di privilegiare gli ultimi e i più poveri, come condizione pregiudiziale per dialogare veramente con tutti. Questa scelta non nega le diversità; le riconosce con coraggio, anche come principio di discriminazioni culturali e sociali. Si colloca dalla parte dei poveri, per promuovere davvero tutti, anche se in modo diversificato.
    Certamente a chi ha già percorso un tratto di cammino, non si chiederà di partire da capo, per quel falso principio egualitario che azzera le differenze sul livello più basso. Egli ha diritto di procedere spedito verso traguardi più impegnativi. La comunità lo sollecita però a porre il suo talento come dono per tutti. Per questo porta davvero i pesi degli altri, lui che è più robusto e sostiene, nella sua testimonianza, il passo dei più incerti.
    La seconda ragione chiama in causa il soggetto della costruzione e attuazione degli itinerari: la comunità.
    Ogni comunità dispone di molteplici e differenziate risorse: tradizioni, educatori, strutture, mezzi educativi. Alcune di queste risorse sono collocate prevalentemente sul versante educativo e altre invece riguardano esplicitamente il momento formalmente pastorale. Vanno rispettate le differenti strutture logiche; ma va rispettato anche quello stretto rapporto tra educazione e educazione alla fede, di cui ho parlato nel capitolo precedente.
    Lo spazio operativo dell'itinerario è proprio quello in cui i suggerimenti teorici si traducono in scelte concrete.
    Nella loro differenziazione e specializzazione, le risorse concentrate sul versante educativo e culturale e quelle specializzate sul versante dell'educazione alla fede concorrono al raggiungimento dell'unico obiettivo globale: convergono nell'unità a partire dalla diversità.
    L'unità nelle scelte di fondo, nelle procedure logiche e nei movimenti concreti, viene prima della diversità sui tempi, i modelli, i programmi operativi.
    Così viene servita l'unica persona, in modo complessivo e articolato, e veramente è affidata unitariamente la gestione della produzione della vita e della salvezza alla grande istituzioni formativa.

    Verso il lavoro concreto

    Ho suggerito alcuni elementi sui quali verificare con quale "mentalità" ci mettiamo a lavorare.
    Il bello, certamente, deve ancora venire. Non basta una buona e corretta mentalità: ci vogliono progetti, strumenti, modelli.
    NPG ne ha fornito alcuni in questi anni. Non sono di sicuro gli unici oggi disponibili. Né tanto meno sono offerti con la pretesa che siano i migliori.
    Hanno l'unico grande pregio di essere stati elaborati in un confronto, lungo e attento, tra operatori di pastorale giovanile e studiosi delle problematiche implicate. Sono, insomma, un tentativo di fare della interdisciplinarità sul campo.
    Molti lettori li stanno sperimentando. Qualche reazione, positiva e negativa, è già giunta in redazione.
    Una cosa è certa, comunque: non sono sussidi pronti all'uso, da riportare di peso nella mischia del vissuto. Vanno ripensati e ricostruiti, continuando l'operazione attraverso cui sono nati.
    Al centro resta sempre la comunità impegnata a camminare verso la pienezza di vita e l'incontro con il suo Signore. E, nel cuore della comunità, l'educatore che vive con gioia e responsabilità il suo ministero; e, per questo, lo ripensa continuamente in fedeltà innovata.


    T e r z a
    p a g i n A


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