Pastorale Giovanile

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    In tempo di pluralismo una prospettiva unificante



    Alessandro Bertolacci

    (NPG 1988-08-4)


    Vorrei semplicemente richiamare quelle scelte di fondo che motivano ed animano la nostra quotidiana prassi educativa e pastorale in mezzo ai preadolescenti. Ci troviamo spesso in tanti a condividerle: abbiamo trovato in Gesù di Nazareth il senso della nostra vita, nella sua passione per la vita e nella causa per il Regno il motivo del nostro impegno educativo. Rimaniamo però spesse volte disorientati davanti al pluralismo di modelli pratici che troviamo nelle comunità ecclesiali.
    La tentazione è grande; escluderli dal nostro sguardo o, peggio, assumere atteggiamenti competitivi, può essere una soluzione momentanea e reattiva, ma non credo possa servire ad una Chiesa che si ripensa («davanti a» e con questi preadolescenti «dentro», e che ad essi dedica molte energie, senza essere «ripagata» più di tanto della propria offerta.

    PER LEGGERE DA UN PUNTO Dl VISTA DIVERSO LA PRASSI QUOTIDIANA

    Può essere molto più utile fermarci a considerare le precomprensioni che soggiacciono a tali modelli spesso molto differenti e quelle che ispirano il modello pastorale che intendiamo assumere in questa comune ricerca, e intorno al quale, già da anni, NPG lavora e si confronta.
    Vi è poi un motivo più personale che mi conduce e che ho scoperto poi essere il fondamento di qualsiasi elaborazione pastorale. Il bisogno, cioè, di fermarsi, ogni tanto, per guardare da un punto di vista diverso da quello quotidiano (è l'esperienza biblica del «monte») la prassi educativa-pastorale delle comunità in cui giochiamo le nostre energie.
    Per non perdersi dentro i meandri dei tecnicismi educativi e degli ultimi ritrovati, bisogna dunque assumere uno «sguardo teologico», per acquisire dalla stessa prassi ecclesiale quella serena criticità che ci permette di «ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese».
    In un tempo di pluralismo occorre quindi andare alla ricerca di «criteri valutativi» per passare dalla costatazione della prassi corrente alla sua riformulazione in prassi rinnovata.
    I criteri però non esistono in astratto, ben raccolti in qualche sicuro ripostiglio. Il loro «luogo teologico», il luogo in cui possono essere rinvenuti, è ancora la prassi concreta dei credenti nella comunità ecclesiale e attraversano per così dire i modelli operativi di pastorale che sono stati in precedenza recensiti. Si tratta di prassi molto diversificate, spesso anche contraddittorie. Ma se l'obiettivo dell'azione pastorale è l'incontro vitale con Gesù il Salvatore, dobbiamo confrontarci sinceramente con la vita di coloro che lo riconoscono e lo confessano il Signore della vita.
    Partire quindi da alcune categorie non immediatamente pratiche, con le quali leggere l'azione della Chiesa nella società moderna, può rivelarsi utile per interpretare in profondità e rileggere di pastorale con i preadolescenti. criticamente la prassi ecclesiale, per Di qui il carattere formale del mio poi riscrivere l'obiettivo di un progetto di pastorale con i preadolescenti.
    Di qui il carattere formale del mio contributo.

    NEL SOLCO DEL CONCILIO

    La prima cosa da fare è cercare la strada, la pista sulla quale muovere i primi passi.
    Essa parte dal Concilio.
    «La Chiesa del Concilio si è assai occupata, oltre che di se stessa..., dell'uomo quale oggi in realtà si presenta. Tutto l'uomo fenomenico si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari... Tutto questo e tutto quello che potremmo dire sul valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa verso la direzione antropocentrica della cultura moderna? Deviato no, rivolto sì. Ché, se noi ricordiamo come nel volto di ogni uomo possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo, e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo ravvisare il volto del Padre celeste... possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio bisogna conoscere l'uomo» (Paolo VI, Omelia nella IX sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II; 7 dicembre 1965).
    Quest'ultima frase era ardita, per molti lo è ancora, ma non faceva altro che cogliere la direttrice di marcia del Concilio: la direttrice antropologica dell'attenzione all'uomo. Dietro la spinta propulsiva del Concilio, la teologia, che già camminava per questa via, accentuò la sua dimensione antropologica e diede spazio sempre più vasto all'uomo, alle condizioni umane, alla storia umana. Erano gli anni delle lunghe polemiche sorte, nella Chiesa italiana del dopo-Concilio, attorno a questo problema. Erano anche gli anni della mia formazione, e questa entusiastica riscoperta, tra resistenze e ritardi, segnò profondamente il mio successivo impegno ecclesiale.
    Anche gli studi biblici, che precedono e preparano ogni operare della Chiesa, risentirono di questo indirizzo e avvertirono sempre più l'istanza antropologica. «Le parole di Dio - scrive il Concilio - espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo» (DV 13).
    La «svolta antropologica» finì per essere accolta dalla Chiesa italiana, che preparava il suo piano di rinnovamento conciliare, mentre andava riscoprendo l'evento dell'Incarnazione come interpellante per tutta l'azione della Chiesa.
    Il «Rinnovamento della catechesi» è il frutto sofferto ma fecondo di questo cammino. Alcune sue pagine rimangono un indicatore obbligato di marcia. «La catechesi deve raggiungere gli uomini nel tempo e nel luogo in cui essi operano, vale a dire nella situazione di vita che è loro propria» (RdC 128). «Chiunque voglia fare all'uomo d'oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio con noi, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare ad ogni uomo la sua vocazione e dargli modo di realizzarla» (RdC 77).
    Ho cercato di descrivere brevemente la direzione di marcia lungo cui collocare la nostra ricerca.
    Siamo così già in possesso di alcune indicazioni. Esse ci aiutano a focalizzare la nostra attenzione sul mistero dell'Incarnazione, mistero attraverso il quale l'indicibile ed ineffabile Dio si manifesta nel volto di Gesù di Nazareth e in Lui nel volto di ogni uomo, che diventa così la prima e fondamentale via che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione e nell'andare incontro al suo Signore che viene.

    LA LOGICA DELL'INCARNAZIONE

    Tra le cose che ci stanno a cuore, e che motivano anche la nostra riflessione sull'azione pastorale, c'è il fondamentale desiderio di far incontrare i preadolescenti col Dio che salva, che libera la loro crescita, che li vuole felici, che li raggiunge attraverso una compagnia «perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
    Sappiamo tutto questo, perché le nostre storie personali, come la memoria della Chiesa, sono passate attraverso l'esperienza gioiosa e sconvolgente di un «Dio per noi»; un Dio totalmente proteso alla pienezza di vita per l'uomo, al punto da uscire da sé per incontrarlo in una comunicazione di vita che lo strappa da tutto ciò che è morte e lo restituisce alla pienezza della vita.

    L'incarnazione come evento

    Confessiamo che questo è avvenuto in un evento unico ed irripetibile, in una «parola definitiva»: Gesù Cristo. Nei suoi gesti e nelle sue parole, come in tutta la sua vita, riconosciamo il volto del Padre, un volto non più separabile da quello dell'uomo, perché in Gesù di Nazareth si compie la mirabile sintesi che riporta l'uomo ad essere l'interlocutore privilegiato, il partner di Dio, come ci testimoniano le prime pagine del Genesi.
    La sua scelta preferenziale per i poveri e gli emarginati, l'accoglienza incondizionata dei peccatori, la sua consegna libera ed inesorabile ad una morte ingiusta per la causa giusta del Regno, manifestano un Dio Padre che «scommette» sui mezzi poveri, e vi scommette quello che ha di più caro: il proprio Figlio, come nella parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,3346).
    La fede della Chiesa ha sempre tenuto in grande considerazione e difeso la profonda unità che in Gesù si è creata tra Dio e la storia dell'uomo, senza che questa diminuisse la sua divinità o limitasse la nostra libertà. Assumere la «forma di servo» (Fil 2,68) è un atto gratuito dell'amore di Dio che rivela la sua passione per l'uomo e il suo amore alla vita. Al centro dell'attenzione di Gesù di Nazareth c'è l'uomo e a niente può essere subordinato o strumentalizzato, nemmeno al «sabato» e alle sue prescrizioni legalistiche. L'uomo concreto, l'uomo della strada, l'uomo malato, segnato dalla sofferenza e dal rifiuto, l'uomo «così com'è» è l'oggetto dell'attenzione, piena di amore, di Gesù. Egli non è venuto a salvare una parte dell'uomo, quella spirituale, ma tutto l'uomo; perciò i miracoli di guarigione diventano il segno concreto ed anticipatore della volontà del Padre di restituire voglia di vivere, forza di credere, coraggio di sperare all'uomo piagato nel corpo e nello spirito. La pasqua che Gesù porterà a compimento a Gerusalemme, sarà il gesto più radicale e totale di questa volontà di salvezza. In fondo, restituire le gambe al paralitico, la mano allo storpio, gli occhi al cieco, la vita alla ragazzina, come la dignità al peccatore, sono gesti che manifestano la volontà di Dio, attuata in Gesù, di restituire la vita all'uomo e l'uomo alla vita.

    L'incarnazione come prospettiva

    Nell'Incarnazione, che è la prospettiva fondamentale dalla quale possiamo comprendere tutta la vita di Gesù, in ogni suo gesto e parola, Dio si è rivelato all'uomo in modo umano. «Il suo ineffabile mistero è diventato comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e le parole di Gesù di Nazareth[1] .
    Ma è anche vero che l'uomo nella sua umana creaturalità, attraverso questo gesto definitivo di salvezza compiuto da Dio in Gesù Cristo, torna ad essere «volto» e «parola» di Dio. «Cristo - ci ha ricordato il Concilio - rivelando il mistero del Padre e del suo Amore svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione...
    Con l'Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha rivelato l'amore del Padre e la magnifica vocazione degli uomini ricordando gli aspetti più ordinari della vita sociale, e adoperando linguaggio ed immagini della vita di ogni giorno» (GS. 22 e 32).
    In Gesù, il grande «mediatore», la dicotomia tra trascendente ed immanente, tra verticalismo ed orizzontalismo, tra sacro e profano è definitivamente superata.
    E l'immanente può, nella sua e per la sua umanità, contenere e trasparire il trascendente.
    La vita quotidiana diventa, in questa prospettiva, il luogo in cui Dio si fa vicino e si rivela all'uomo; diventa il «grande sacramento» della sua presenza discreta e misteriosa che dà senso e significato alla ricerca libera e responsabile della pienezza di vita dell'uomo.
    «L'umanità dell'uomo è il luogo in cui Dio si fa presente nella nostra esperienza quotidiana, come il Padre buono ed accogliente, che salva e riempie di vita»[2].
    Ci siamo incamminati su un terreno affascinante anche se difficile.
    Volendo assumere il criterio dell'Incarnazione per una rinnovata prassi ecclesiale, ci imbattiamo immediatamente in alcune conseguenze che definiscono le coordinate di fondo, le precomprensioni del nostro modello pastorale.

    LE COORDINATE Dl FONDO

    Accogliere il Dio cristiano, il Dio di Gesù di Nazareth, il Dio che viene ad «abitare» la nostra condizione, vuol dire accettare una logica che vuole determinare tutte le nostre scelte, anche nell'ambito della prassi pastorale di una Chiesa impegnata a servire il Regno di Dio, il farsi della salvezza in mezzo ai preadolescenti di oggi. Dio in Gesù è uscito da sé e si è fatto pellegrino per le strade del mondo, compagno della nostra vita per raccontare il suo amore per ciascuno di noi e riconciliarci con Lui, tra di noi e con la vita fino alla sua pienezza.
    Gesù dunque è il «grande mediatore», Colui che nella sua persona permette l'incontro tra il Padre e l'umanità; è il «contenuto» e il «metodo» della volontà di Dio di raggiungere ogni uomo e ogni donna di questo mondo per comunicare loro il Suo amore.
    Abbiamo mai riflettuto a sufficienza sui risvolti che questo contenuto della fede ha nella vita e nella prassi pastorale?
    Ebbene, noi in quanto comunità educante, nel nostro impegno abbiamo a cuore l'identità cristiana, i contenuti, i valori, ai quali vogliamo formare i nostri ragazzi e i nostri giovani; ma quanto siamo preoccupati di far incontrare e dialogare queste due realtà?
    Quanto facilmente cediamo, nella ricerca di nuovi modelli pastorali, alla duplice tentazione di una proposta «forte», di stampo integrista, o a quella di un pericoloso «riduzionismo», di stampo permissivo?
    È la «cultura» dei giovani di oggi (per i preadolescenti dobbiamo parlare di cultura in cui vivono) che non riesce più ad esprimere i perenni contenuti evangelici, o più spesso i modelli che presentiamo non rispondono più al mutato e mutevole contesto socioculturale, rischiando così di rendere impraticabile l'incontro tra Vangelo e mondo attuale?
    La logica dell'Incarnazione ha molto da dirci nel tentativo di affrontare e rispondere a questi interrogativi.
    Non è ancora questo il grande discorso del metodo, del come fare, siamo ancora sul versante formale della proposta, per cercare di individuare il procedimento e i pilastri sui quali costruire il nostro modello.

    IL CIRCOLO ERMENEUTICO

    La logica dell'Incarnazione ci costringe a prendere sul serio la situazione, la condizione dei preadolescenti di oggi, come il «luogo» del farsi della salvezza di Gesù Cristo per loro.
    Nel modello teologico tradizionale si affidava alla situazione dei destinatari un ruolo passivo di recezione. Gli obiettivi venivano elaborati dalla comunità cristiana in maniera autonoma e assoluta, in base al vissuto degli adulti e al bagaglio veritativo appartenenti alla memoria della Chiesa. I contenuti erano calati e applicati deduttivamente sui destinatari fino a far loro assumere atteggiamenti ricalcati sulle generazioni precedenti.
    La contestazione degli anni 60 e la crisi della relazione educativa che ne è seguita, come, d'altra parte, il rinnovamento teologico, hanno spostato l'accento sul ruolo determinante della situazione e sull'esperienza soggettiva dei destinatari, dando grosso risalto alle scienze umane nel definire l'obiettivo. In questo modo si è assistito ad un aumento vertiginoso dei modelli pastorali relativi ai molteplici punti d'osservazione da cui veniva guardata la condizione dei destinatari.
    I due modelli (quello tradizionale di tipo deduttivo e quello più induttivo delle scienze umane) risultano inadeguati se si assume l'Incarnazione come criterio di incontro e di dialogo tra fede e cultura, tra dato rivelato e situazione concreta dell'uomo contemporaneo. Nell'Incarnazione infatti si è creata una profonda unità tra il contenuto trascendente e il contributo dell'uomo, perché la «Parola» di Dio si è fatta «parola» d'uomo. L'unità è così profonda al punto tale che non risulta facile distinguere tra contenuto trascendente e rivestimento culturale; ma, d'altra parte, sarebbe estremamente riduttivo confondere la Parola definitiva di Dio con le parole umane che la esprimono.
    Alla nostra ricerca viene in aiuto una scienza nata in ambito profano e presto accolta a pieno titolo anche negli studi teologici: l'ermeneutica.
    Il modello circolare offertoci dall'ermeneutica ci permette di assumere la situazione culturale dei destinatari come «luogo teologico» che dà «carne» al progetto di Dio, mentre riceve il seme fecondante della Parola. Secondo il modello della circolarità tra fede e cultura viene a crearsi un rapporto di «dare-ricevere». Mentre la cultura (nel nostro caso il mondo simbolico, il linguaggio, il vissuto dei preadolescenti) offre l'ambito, il luogo, il grembo dove la parola può ancora oggi incarnarsi e diventare vera e significativa per loro; la Parola diventa ciò che anima in profondità il farsi della salvezza di Dio per loro, ciò che risignifica, in un nuovo senso, i frammenti di senso e i vissuti dei preadolescenti. Le immagini evangeliche del lievito nella pasta e del seme nella terra, credo, rispondono a questa logica.
    D'altra parte, l'umanità di Gesù, e in Lui tutta l'umanità dell'uomo, non è strumentalizzabile alla sua divinità, cioè non è un semplice mezzo o stratagemma comunicativo, ma qualcosa di più: il riconoscere con fiducia all'umano la capacità di collaborare con l'azione divina, per la dignità che si porta dentro; la sua potenzialità germinativa verso una realtà nuova, un'umanità piena, una creazione compiuta.
    Mi sembra questo, tra l'altro, il dinamismo proprio anche dell'antico modello dell'iniziativa cristiana, riscoperto, non a caso, dalla Chiesa conciliare; cioè quello della «traditio» e della «redditio», nel quale la Chiesa offre la propria memoria, il tesoro veritativo che custodisce con cura la propria testimonianza, perché essa le venga «restituita incarnata» in maniera inedita, dall'esperienza di vita di colui che si apre alla fede.
    Anche la pastorale dei preadolescenti ha bisogno di trovare la comunità ecclesiale attenta a scorgere i segni del Regno di Dio che lievita nel mondo dei ragazzi, i «semina Verbi» custoditi nel terreno della cultura contemporanea; e ciò senza demonizzare o assumere atteggiamenti di sufficienza o di contrapposizione, con la cura invece di «discernere» il farsi della salvezza di Dio nella concreta situazione dei preadolescenti di oggi.
    La Parola di Dio è destinata ad essere riscritta nella vita e con le parole dell'uomo in tutti i tempi e in tutte le culture, perché è parola universale di salvezza. Ascoltare e leggere attentamente il vissuto dei preadolescenti di oggi permette allora di favorire la crescita di quel «nuovo» che si portano dentro, verso una pienezza di vita che diventa Parola inedita di Dio nel mondo contemporaneo e vitalità per la Chiesa tutta.

    LA MEDIAZIONE EDUCATIVA

    Se partiamo da questa angolatura interpretativa, allora la nostra passione per la vita dei preadolescenti e per la sua crescita in pienezza, diventa passione educativa. La passione di Dio per la vita dell'uomo, comunicataci sommamente nella vita e nella morte di Gesù di Nazareth, ci porta a leggere con tenerezza e premura la condizione dei preadolescenti e ad operare per la loro piena realizzazione di persone che si aprono alla vita.
    Sappiamo fin troppo bene cosa vuol dire perdere ogni giorno qualcosa di noi stessi nel portare avanti questa causa, che nella prospettiva dell'Incarnazione è la causa stessa di Gesù Cristo.

    Evangelizzazione e educazione: quale incontro?

    Le cose si complicano notevolmente se, in ordine all'educazione alla fede dei preadolescenti, ci interroghiamo sul rapporto che corre tra i processi educativi e quelli più tipicamente evangelizzatori.
    Apparentemente sembra esserci un rapporto strumentale, se non addirittura, in certi casi, conflittuale: l'educazione dà una mano all'evangelizzazione, ma senza sconfinare troppo nell'ambito di quest'ultima, altrimenti il rischio è la riduzione della fede ad una «produzione umana» e la conseguente perdita del senso del dono e della proposta che le sono propri.
    I processi educativi, infatti, essendo regolati da precise logiche e partendo sempre da una determinata visione antropologica, sono da collocarsi nell'ambito di quei gesti intenzionali attraverso cui una generazione precedente aiuta la nuova a raggiungere la sua pienezza in umanità, attraverso l'esercizio progressivo della «criticità». Sono quindi processi tipicamente culturali, in quanto producono cultura e la comunicano.
    L'evangelizzazione invece si preoccupa di sollecitare l'accoglienza libera e responsabile dell'annuncio di salvezza contenuto nel vangelo del Signore. La sua comunicazione avviene prima di tutto attraverso la testimonianza di vita della comunità ecclesiale (esperienze vitali offerte) tradotta in messaggio e celebrata nei sacramenti della Chiesa.

    Le convergenze

    Le diversità però non escludono i punti di convergenza.
    La pastorale infatti agisce in situazioni e con persone già segnate dalla cultura dominante e dai molteplici progetti d'uomo ivi presenti; accoglie modelli e strumenti di natura chiaramente tecnica e profana, accettando un reciproco condizionamento; infine i contenuti dell'evangelo, come abbiamo già osservato, sono sempre espressi in termini (rivestimenti, forme vitali linguistiche e gestuali) culturali attraverso un dialogo tra «dare» e «ricevere».
    La logica dell'incarnazione ci ha fatto riconoscere in ogni azione pastorale la presenza di un «visibile» e di un «mistero», cioè di un «segno» umano che veicola il «contenuto», che non è prima di tutto «qualcosa da conoscere» ma un «incontro da sperimentare».
    Per alcuni la potenza del mistero è tale da non dare spazio ad alcuna collaborazione umana e quindi non ha senso, nell'evangelizzazione, parlare di educazione.
    Per altri la comunicazione tra Dio e l'uomo instauratasi nell'Incarnazione è un fatto unico ed irripetibile da non poter essere assunto come generatore di progetti educativi.
    Per noi, che assumiamo l'Incarnazione come criterio fondamentale della pastorale, l'educazione (in senso scientifico e tecnico) offre un contributo irrinunciabile anche per l'educazione alla fede.
    Nel rapporto tra educazione ed evangelizzazione parleremo quindi di «educabilità indiretta della fede».
    «Indiretta» perché la fede rimane un dono, un'iniziativa gratuita ed amorosa di Dio, alla quale l'uomo può rispondere solo con un'accoglienza obbediente, libera e responsabile nell'intimità della propria coscienza. In questo senso l'educazione alla fede non potrà mai essere ridotta ai processi educativi. Questi ultimi rivestono un'importanza decisiva nell'attivare, predisporre e sostenere il dialogo misterioso e salvifico tra Dio e l'uomo.
    Tutto quello che umanamente può servire a liberare la capacità dell'uomo di rispondere liberamente e responsabilmente al suo Signore dunque ci interessa. Per questo ci interessa l'educazione, nella sua dimensione più scientifica e tecnica, direi più «laica», come scienza umana chiamata a dare un contributo «inutile» rispetto al dono, ma «indispensabile» rispetto alla sua comunicazione qui e ora.
    Per rifarci ad un'immagine evangelica, crediamo fortemente nella potenza del seme, che contiene già in germe tutta la realtà nuova che Dio nel suo misericordioso progetto ha preparato per l'uomo, e ci crediamo al punto tale da guardare con premurosa attenzione alla terra, perché quel seme, la Parola di Dio, ha voluto aver bisogno della terra, la nostra umanità, restituendogli dignità e capacità di produrre il frutto insperato di una nuova umanità.

    L'educazione: una scommessa

    Ma questa scelta non ha il sapore dell'evidenza e della sicurezza, anche perché l'educazione, come tutti i fatti umani, rimane sotto il segno del rischio e del peccato, e quindi del fallimento.
    Nella società complessa, dove l'uomo è al centro di fatti che spesso lo condizionano e lo soffocano, preferiamo parlare di «scommessa educativa» come la via povera da privilegiare per ridare all'uomo la gioia di vivere, la forza di sperare e la capacità di rigenerare se stesso e la società. Scommettendo sull'educazione la comunità ecclesiale sa di dare un nome concreto e operativo alla «promozione umana» come «parte costitutiva» dell'evangelizzazione. E sa anche che la pastorale non può essere ridotta ai processi educativi, perché per restituire felicità e speranza all'uomo d'oggi, come di sempre, bisogna assicurare l'incontro col Signore della vita attraverso l'annuncio esplicito dell'evangelo e la celebrazione liturgica dell'amore di Dio.
    «La scommessa educativa non esclude queste esigenze, ma suggerisce la modalità e l'intenzione con cui esprimere questo servizio pastorale ulteriore. Chi crede all'educazione sa che solo all'uomo restituito alla coscienza della sua dignità e alla passione per la vita, possiamo annunciare il Signore Gesù, come la risposta risolutiva del suo desiderio di felicità e di vita, da invocare ed incontrare nella verità e nella profondità della sua esistenza umana[3].
    Tutto questo ci obbliga a rileggere e riscrivere i nostri progetti a partire dalla «mediazione educativa», così come abbiamo cercato di presentarla, come traduzione pastorale della logica dell'Incarnazione. Per la pastorale dei preadolescenti in particolare vuol dire incamminarci sulla strada, non facile ma appassionante, di quell'intervento educativo che li aiuti ad assumere con fiducia e speranza la fase di cambio che stanno vivendo, rinunciando ad appiccicare loro addosso proposte forti o confezionate su altre misure e che rischiano di limitare l'inedito che si portano dentro; significa liberare la loro voglia di crescere in compagnia di tutti, anche del Signore della vita.

    IL PRIMATO DELL'EVANGELIZZAZIONE A PARTIRE DAGLI ULTIMI

    In un tempo di rapidi mutamenti, di larga complessità e di secolarizzazione, la Chiesa italiana, nel suo cammino di rinnovamento conciliare, ha fatto proprio già da anni il primario compito dell'evangelizzazione.
    Oggi si preferisce parlare di «rievangelizzazione» o di «nuova evangelizzazione», ma, mi sembra, la prospettiva di fondo rimanga quella indicataci nel «Rinnovamento della catechesi» che, tra contraddizioni e ritardi, ha segnato e continua a segnare l'azione pastorale delle nostre Chiese locali.
    Siamo sempre più consapevoli che solo nell'esperienza gioiosa e liberante del Signore della vita, nell'incontro con Gesù di Nazareth, è possibile trovare il senso della nostra vita, e, intorno a Lui e nella sua passione per la vita, riorganizzare l'esistenza nell'integrazione fede-vita.

    Una testimonianza che si fa messaggio

    La comunità ecclesiale desidera non solo riconoscere e confessare la presenza di Dio nella vita quotidiana dei preadolescenti, ma sente anche il bisogno di comunicarlo, di renderli partecipi e consapevoli del Dio che in Gesù di Nazareth si è fatto compagno di strada anche, e forse soprattutto, della loro vita in crescita.
    Questo annuncio avviene attraverso la struttura comunicativa della testimonianza di vita della comunità e dell'evangelizzatore, che diventa messaggio interpellante per la vita dei destinatari.
    Ma non esiste un annuncio allo stato puro. La logica dell'Incarnazione ci ha insegnato che la Parola di Dio, per diventare parola per l'uomo, si fa parola d'uomo. Tutto questo ci costringe a mettere in primo piano sì la testimonianza dell'evangelizzatore, ma anche la relazione comunicativa esistente tra il soggetto dell'evangelizzazione e i concreti destinatari.
    Questa relazione comunicativa può facilitare l'accoglienza del messaggio evangelico come «buona notizia» per i preadolescenti, oppure può disturbare i contenuti ed impedire l'esperienza che esso suscita.
    Molto dipende dalla cultura (come l'insieme di orientamenti antropologici, modelli di vita, valori, significati offerti dall'attuale clima sociale che non lasciano indifferente il vissuto quotidiano dei preadolescenti) in cui si incarna la parola evangelizzatrice. Ce ne accorgiamo tutti i giorni, stando coi ragazzi, quanto il nostro linguaggio, i nostri sistemi di significato, i parametri culturali che utilizziamo nel nostro impegno evangelizzatore, sono lontani mille miglia dalla loro vita: fino a sperimentare impotenza e smarrimento davanti a quell'«allontanamento», che ha già il suo timido inizio nella preadolescenza e culmina nel tempo critico del passaggio all'adolescenza o al dopo-Cresima.
    Vuol essere questa solo una premessa, per introdurci nel discorso sulla scelta dell'evangelizzazione nella pastorale dei preadolescenti.

    Ripartire dagli ultimi perché ci sia «messaggio» per tutti

    Dobbiamo prendere sul serio l'invito, espresso dai nostri Vescovi ne «La Chiesa italiana e le prospettive del paese», di ripartire dagli ultimi. La Chiesa del Concilio si è autodefinita «sacramento universale di salvezza». Cerchiamo perciò una pastorale che dia la possibilità a tutti i preadolescenti di accogliere l'Evangelo di Gesù, dentro la loro vita segnata dall'esuberanza ma anche dall'incertezza della crescita. Non vorremmo che questo fosse impedito o non facilitato dalla nostra vuota capacità comunicativa, rischiando di far diventare vuota, lontana e priva di significato rispetto al loro vissuto e alle loro attese, quella Parola di Dio che è anche per loro destinata, e vuole liberare la crescita, per appassionarli alla vita.
    Ripartire dagli ultimi allora, nella pastorale dei preadolescenti, non vuol dire fare una scelta di categoria contro altre, ma sceglierne una che ci permetta davvero di poter dialogare con tutti e camminare con chi va più adagio.
    Questa scelta mi sembra ancora una volta radicata profondamente nel modo di fare di Gesù, oltre che esigita da un tempo di complessità e di pluralismo che non ci permette di assumere nessuna cultura come egemone per veicolare la proposta.
    Significa rinunciare a interventi «specializzati», validi a certe condizioni e in determinati ambienti, ma che rischiano nella normalità di promuovere alcuni e di escludere altri. Il Dio che ha parlato in Gesù di Nazareth non vuole lasciare indietro nessuno a cominciare da coloro che vivono ai margini, in situazioni disperate e apparentemente irredimibili.
    La cronaca quotidiana non ci risparmia le drammatiche condizioni in cui sono costretti a vivere e spesse volte a morire tanti ragazzi. Le diverse forme di povertà, da quelle economiche, sociali e culturali, a quelle più subdole ed insidiose che sfuggono ad una superficiale lettura, come le povertà affettive, morali, spirituali, sembrano avere sul mondo dei ragazzi le conseguenze più drammatiche.
    La forza profetica del Vangelo ci spinge ad assumere questi preadolescenti come depositari di un potenziale salvifico, di una capacità di autoliberazione, se incontrano un'autentica proposta educativa, capace di diffondere su tutti la vita.
    A partire da questi vogliamo verificare i nostri canali comunicativi, il nostro linguaggio, la nostra ansia evangelizzatrice.
    Scopriremo che per stare con tutti bisogna stare coll'ultimo; che una pastorale dei preadolescenti si misura sulla capacità di non perdere per strada nessuno, di non «produrre nuovi lontani», perché legge per tempo il fenomeno dell'allontanamento, ma soprattutto perché si lascia interpellare da quelli che già vivono ai margini.

    LA PASSIONE PER LA VITA COME SINTESI

    Ho offerto queste riflessioni, che nascono da convinzioni personali ma che sono ormai patrimonio di tante Chiese locali, come coordinate di fondo nella ricerca di un progetto pastorale coi preadolescenti.
    Ho cercato di far scaturire dal criterio teologico dell'Incarnazione le precomprensioni che ci possono permettere di dialogare con fecondità coi preadolescenti di oggi, nella loro concreta situazione, per assumere la loro erompente domanda di vita come domanda educativa, nella compagnia fiduciosa e confortante della comunità ecclesiale ansiosa di comunicare loro quel «di più» che nasce dall'incontro col Signore della vita.
    Mi rendo conto di aver forse suscitato domande e lanciato provocazioni, più che aver individuato punti fermi e soluzioni certe.
    La scommessa rimane.
    Ma in fondo tutto è riconducibile a quella passione di Dio per la vita che Lo ha portato nell'evento dell'Incarnazione a scommettere sull'uomo il proprio Figlio.
    Una pastorale dei preadolescenti non può che prendere le mosse da questa passione per la vita, la stessa di Dio, che ci porta a scommettere sull'educazione, come la via povera per consegnare alla vita e al Signore della vita i preadolescenti di oggi.
    Gesù di Nazareth portava dentro di sé questa passione, e le narrazioni evangeliche la manifestano soprattutto dinanzi alla morte di preadolescenti (dai Vangeli sinottici risulta che ne risuscita due: la figlia di Giairo in Mc 5,21-43 e il figlio della vedova di Naim in Lc 7,11-17).
    Possiamo leggere simbolicamente questi racconti di miracoli se riconosciamo in Gesù il Signore della vita che si fa compagno di strada dei preadolescenti di tutti i tempi, anche di oggi, nella loro fatica di crescere e di cambiare, di dirigersi cioè, ancora contraddittoriamente ma inarrestabilmente, verso la stagione giovane e adulta della vita, che richiede un morire al vecchio per risorgere al nuovo. Il carattere di «esodo» di questa età, può stupendamente incontrare la fede pasquale della comunità ecclesiale. Questo brano di Cesare Bissoli ci aiuta a tentare questa operazione.
    «Era proprio una ragazza di dodici anni che in quel giorno stava sconvolgendo la vita di un papà e di una famiglia, anzi di una città. Tutti ne parlavano, e mai come allora forse i ragazzi erano diventati oggetto di attenzione speciale. Ma i pareri erano diversi. Alcuni erano sconsolati, ma freddamente certi, che la ragazza era morta. Ed erano i più, la gente che contava. Altri, anzi uno solo, diceva: 'Non è vero, non è morta, ma dorme, e vado a svegliarla'. Costui era deciso, pur nel vago generale sospetto che per questo profeta i ragazzi morti, e anche gli adulti e i bambini morti, non sono mai tali.
    Da che parte stare? Dalla parte dei più, di coloro che restano congelati dalla costatazione e lasciano tutto come prima, o dalla parte di coloro o di Colui che, nonostante tutto, vuole cambiare le cose? È stato il problema del papà della ragazza, dei familiari, di quei pochi che erano andati con il Maestro e sentivano il disagio generale.
    Una condizione aveva posto il Maestro: credi, anzi, continua a credere, nonostante tutto! Nel difficile cammino della speranza, questa sola parola: credi, fidati di me, cammina con me!
    Sappiamo quello che avvenne. Quella ragazzetta di cui conosciamo l'età, dodici anni, e non il nome, perché tutti i ragazzi potessero darvi il proprio, aprì gli occhi, e anche la bocca, per gustare la vita)».
    Questo, credo, deve essere anche l'impegno della comunità ecclesiale, che ricalca le orme del suo Signore nel difendere, promuovere, desiderare la vita in pienezza di chi ad essa si sta aprendo.


    NOTE

    [1] Cf Tonelli R., Pastorale giovanile. Dire la fede in Gesù Cristo sulla vita quotidiana, LAS, Roma, 1987, pp. 109 e ss.
    [2] Tonelli, oc, p. 111.
    [3] Cf Tonelli R., Pastorale giovanile e animazione, LDC, Torino, 1986, pp. 47 e ss.


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