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    La pastorale dei ragazzi: nostalgie e strade nuove



    Tonino Lasconi

    (NPG 1987-02-70)


    A che punto è la pastorale dei ragazzi a vent'anni dal Concilio? L'interrogativo è interessante come tutte le domande che invitano alla verifica, ma soprattutto è urgente perché vent'anni sono tanti e non consentono più di navigare sull'onda dei «propositi» di rinnovamento o dei rinnovamenti di facciata.
    Prendiamo come paradigma il rinnovamento liturgico. La lingua italiana, gli altari girati, le candele asimmetriche, i canti con la chitarra... erano interventi necessari per superare la forza d'inerzia delle abitudini, sollevare il polverone della pigrizia secolare e accendere le ali dell'entusiasmo e della curiosità. Ma possiamo dire di essere ormai «liturgicamente rinnovati»?
    Nel campo della pastorale dei ragazzi, questi vent'anni sono stati frenetici di attività, ma possiamo dire di esserci «pastoralmente rinnovati»?
    La domanda esige un tentativo di risposta spregiudicato e senza troppi «distinguo» che consentano di nascondersi tra le pieghe dei ma e dei se. Scegliamo questa strada delle parole rotonde, coscienti che, a vent'anni, si può anche prendere un pugno nello stomaco!

    SPUNTI PER LA LETTURA Dl UN VENTENNIO

    Potrà sembrare superfluo e addirittura offensivo partire da una definizione di pastorale, ma una certa esperienzaccia mi spinge a mettere, alla base delle righe che seguiranno, una definizione, probabilmente non scientifica ma comprensibile e, forse per questo, un po' beffarda.
    La pastorale dei ragazzi è un insieme organico:
    - di esperienze di vita, cariche di «messaggi» e quindi capaci di diventare
    - proposte di vita significative e concrete
    - e di momenti di culto e di preghiera per celebrare la vita quotidiana trasformata dalle proposte di vita accolte
    - che la comunità ecclesiale mette in atto per
    - invitare i ragazzi a scegliere Gesù come «Signore»
    - e a diventare, in modo graduale e cosciente, suoi discepoli nel loro «oggi» e nella loro «realtà».
    A che punto è «questa» pastorale dei ragazzi, di quelle «persone» di 11-14 anni che vivono l'età della preadolescenza?
    Quali proposte di vita fa loro la Chiesa?
    Quali esperienze significative e quali momenti celebrativi offre loro? Riesce la Chiesa a proporre Gesù come Signore ai ragazzi perché scelgano di diventare suoi discepoli, non domani, «quando saranno grandi», né in situazioni prefabbricate, ma nel loro oggi e nella loro realtà di preadolescenti?

    Il moloch sacramentale

    Prima del Concilio, «quando i mulini erano bianchi» e tutto era quieto, buono e genuino, tra le mura concrete delle nostre parrocchie, la pastorale era «dare i sacramenti».
    A sei, sette, otto anni venivano date Cresima e Comunione e la faccenda era sbrigata. Dopo, il problema era di continuare a dare più comunioni possibili alle ragazze e ritardare al massimo, per i maschi, l'approdo tra i pasqualini. La preadolescenza non era una età stagliata perché non erano arrivati scuola media dell'obbligo e altri macroscopici fenomeni sociali a darle rilievo. I ragazzi erano per lo più delegati alle cure degli aspiranti di A.C.I. e degli Scouts che garantivano un buon livello di ricezione sacramentale.
    Il Concilio, che aveva fatto scattare la spinta al rinnovamento, non aveva potuto regolare la bacchetta magica per trasformare la mentalità dei responsabili della pastorale: inevitabilmente, la parola magica rinnovamento veniva inserita nei vecchi circuiti. Il vino nuovo negli otri vecchi! E ci si buttò, di gran carriera, a rinnovare l'operazione «dare i sacramenti».

    La geniale trovata

    Il primo passo fu quello di ritardare l'età della ricezione dei sacramenti. Siccome essi richiedono il «sapere e pensare chi si va a ricevere», era ovvio dare i sacramenti a ricettori in grado di capire un po' di più. E, dal momento che non si poteva ritardare il battesimo più dei due o tre mesi utili per catechizzare i genitori, si pensò, sganciandola dalla Prima Comunione, di posticipare la Cresima all'età della scuola media. Questa sarebbe diventata «un secondo Battesimo», il sacramento della maturità cristiana. Anche se molti Vescovi non erano entusiasti di questo cambiamento per il timore che potesse verificarsi un calo di cresime, la riforma prese velocemente campo e tutto sembrò risolto.
    La nuova prassi non tardò a dare i suoi frutti. Il movimento aspirantistico e gli Scouts, già in difficoltà per il profondo cambiamento culturale che si stava verificando tra i ragazzi e che rendeva contenuti e metodi bisognosi di veloci aggiornamenti, ricevettero una pesante mazzata. «Che gruppi e gruppi! Basta con la élite! Tutti i battezzati devono fare le stesse cose! Tutti i battezzati devono essere più impegnati!».
    Non ci si interrogava però se i ragazzi delle medie avessero, tra i loro più profondi desideri, quello di ricevere la Cresima. Se è vero, infatti, che a dodici anni si capisce più che a otto, è altrettanto vero che il dodicenne, prima di impegnarsi a comprendere il significato del sacramento, si chiede: «A cosa mi serve questa Cresima? Perché la devo fare?».
    Pur se non presa in considerazione, pur se rimossa e trascurata per la cronica abitudine di non partire dai problemi dell'uomo ma dalle esigenze del calendario liturgico, questa domanda covava e avrebbe pian piano cambiato, come vedremo tra poco, nome alla Cresima.

    IL FURORE CATECHISTICO: E I RAGAZZI?

    Posticipata l'età dei sacramenti e abbelliti i riti con intenzioni di preghiera lette dai ragazzi, processione delle offerte, canti con chitarra e battito di mani, presentazione dei ragazzi alla comunità, proclamazione solenne di fede da parte dei cresimandi..., urgeva affrontare un altro problema: il rinnovamento del catechismo, del mezzo per mettere i ragazzi in condizione di sapere meglio chi andavano a ricevere.
    Non sfiorò nemmeno l'idea di chiedersi se i ragazzi volessero il catechismo: questo era un problema da sovversivi!
    L'importante era aggiornare la pillola in modo che fosse inghiottita meglio.
    «Perché non cambiamo il nome?» propose qualcuno.
    E il catechismo fu subito e universalmente chiamato catechesi. Questo era importante altro che ruminare idee nuove e pericolose: «I dogmi sono sempre gli stessi, come la persona umana. Vogliono cambiare? Cambiamo i nomi... tanto per accontentarli ! » .
    A onor del vero, ci furono anche altre innovazioni: laici al posto dei preti, tavoli in cerchio invece che una fila dietro l'altra, cartelloni, diapositive, canti ritmici. . .
    La Commissione C.E.I. per i catechismi, avendo letto bene il Documento Base per il rinnovamento della catechesi, stava intuendo che le cose non sarebbero state facili. Il terzo volume del CDF, «Sarete miei testimoni», lasciava trasparire chiare incertezze di impostazione. Il «Vi ho chiamati amici» sarebbe stato il parto più travagliato e... come impressione strana quella lettera dei Vescovi a pagina 8! Poesia, arte raffinata di comunicazione, paternalismo, retorica...? Ai destinatari l'ardua sentenza! Intanto, anche se il «Vi ho chiamati amici» dichiarava che «non è una perdita di tempo confrontarsi con i ragazzi e con i loro punti di vista perfino nelle scelte pastorali che li riguardano» (pag. 61), le esigenze dei destinatari non varcavano ancora le soglie delle parrocchie. Là, le tavole della legge continuavano a recitare:
    1. Il sacramento va dato.
    2. Il sacramento va catechisticamente preparato.
    3. Chi non partecipa al catechismo viene ammansito con la minaccia di non ricevere il sacramento.

    Catechismo e volpe

    A mente fredda, uno penserebbe: «Se ai ragazzi non piace andare al catechismo, non si presentino per la cresima!». Sarebbe stato bello ma, disgraziatamente, insieme alla crescita veloce della adesione parziale alla fede, nella gente aumentava la sete di fare festa... approfittando di tutto, anche della Cresima. I preti si sentirono allora con il coltello dalla parte del manico: «La volete la Cresima? Allora pedalate!». Catechismo intensivo e (questo sì che era un vero dono del cielo!) la possibilità insperata di rivedere in parrocchia anche i genitori: «Se volete far cresimare vostro figlio, dovete venire a cinque incontri». Non penso sia successo solo a me di incontrare catechiste disperate e frustrate perché maschiacci di terza media accettavano di stare al catechismo soltanto dietro la minaccia «adesso chiamo il parroco e dopo vedete quello che succede!»; catechiste distrutte perché i ragazzi ridevano e facevano commenti volgari sulle volenterose e devote lezioni.
    Quanti incontri per genitori sono stato chiamato a fare! Che freddo allo stomaco al vedere quella gente con la faccia del «guarda che quello che dici non mi interessa affatto! Io qui ci sto perché ci son dovuto venire!».
    Che situazioni tragicomiche! Il parroco che, nel vedere la sala piena di adulti, si entusiasma e: «Dopo la cresima dei vostri figli continueremo ad incontrarci. Non vi sembra bello fare questi incontri in parrocchia?». E tutti a rispondere: «Sì, si, molto bello, molto interessante!».
    Dopo la Cresima. Al primo incontro: tre genitori presenti. Al secondo incontro: nessuno! Fa niente! Si, ricomincia con un'altra infornata di cresimandi e di genitori. Ricordo il parroco che, guardando sconsolato i trentasei cresimandi riuniti nel giorno del ritiro, profeticamente gemeva: «Di questi trentasei, mi accontenterei che, fra qualche mese, tre continuassero a venire in chiesa!».
    Nolenti e volenti, i ragazzi sono costretti a rimanere dentro le mura della parrocchia, tre o quattro anni più a lungo di prima. Ma questa permanenza forzata, invece di una educazione religiosa più approfondita, spesso produce l'effetto elastico: più mi tiri e più vado lontano quando mi lasci; e la Cresima sta diventando il sacramento dell'abbandono. Questo anche perché, il dodicesimo anno, normalmente quello della crisi preadolescenziale, diventa spesso proprio l'anno del sacramento della fede matura! Trovata geniale! come tirare una palla di ferro ad uno che cammina sopra una corda sospesa per aria.
    Si accendeva intanto il dibattito sui catechismi della CEI che stavano uscendo. «Gli esperti in catechesi» arricciavano il naso e sentenziavano che essi erano nati sorpassati. I parroci e le catechiste, invece, li trovavano difficili, generici, pletorici tanto che fioccavano le riedizioni del catechismo di Pio X: «Almeno, in poche pagine, ci trovi tutto!».
    Dei ragazzi invece si continuava a parlare troppo poco.

    La nozione e la notizia

    I ragazzi però sono persone con le loro esigenze e i loro problemi prima di essere dei cresimandi e dei catechizzandi, ed è «proprio» dei ragazzi costringere gli adulti a cambiare e a rinnovarsi. Essi hanno un'arma: l'interesse o il disinteresse. Se la proposta degli adulti li interessa, la seguono; altrimenti la subiscono finché ci sono costretti. E ricevere bei sacramenti e molto catechismo non li interessa, non perché sono cattivi, ma perché è come voler costruire la casa partendo dal tetto. Non serve. Nemmeno per crescere nella fede. Anzi, paradossalmente, catechismo e sacramenti imposti possono diventare un intralcio per una sana crescita religiosa.
    Nel catechismo, impostato sul modello scolastico, i ragazzi hanno il primo approccio con Gesù e il suo Vangelo a livello di nozione. Bisogna sapere qualcosa di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Garibaldi... e di Gesù per superare l'esame scolastico e fare il sacramento. Ma la nozione non si innesta nei problemi che inquietano l'esistenza e non contiene una risposta per la vita. Gesù «nozione» non può fare eccezione; non è Colui che ha una buona notizia per i tuoi problemi ma è uno di cui devi conoscere parole e fatti per ottenere uno scopo. un Gesù che va bene finché la vita è tranquilla o rassegnata: per i bambini e per i vecchi.
    Sulla frontiera della preadolescenza, quando tanti problemi si affollano, il ragazzo non sospetta neanche di poter cercare le risposte in Gesù «nozione». Sì, ha guarito i lebbrosi; ha detto di far fruttificare i talenti; è finito in croce...
    Ma a noi?
    È come Alessandro Magno: ha compiuto tante belle imprese, ma che c'entra con la mia voglia di differenziarmi dagli adulti, di staccarmi dalla famiglia, di trovare un gruppo di amici caldo e accogliente, di crescere forte e bello per piacere alle ragazze?
    Anzi, mi sa tanto che Gesù è una di quelle cose che i grandi vogliono imporre ai bambini per non farli crescere... come non farli fumare, non farli uscire la sera, farli vestire secondo i gusti degli adulti. E allora, via Gesù con tutto quello che sa di bambini piccoli!
    Quando pungono i problemi, ci vogliono le notizie e notizie vere, cioè quelle provenienti da esperienze significative e attraenti.
    Se incontro qualcuno che salta di gioia per aver fatto tredici al totocalcio, non ho bisogno del professore per capire che vincere è bello.
    Come può un Gesù imparato sui banchi, essere una «notizia» per i preadolescenti? Come può il Vangelo essere «buona notizia»? Figuriamoci poi quando, per avere cristiani seri, si sceglie la strada del rigorismo: «Chi supera la tot percentuale delle assenze, non fa la Cresima!». In questi casi, l'unica buona notizia che rimane da tanto catechismo è quella di essersi tolti la «rottura» della cresima.
    È accaduto soltanto a me sentire genitori e ragazzi esclamare: «Non vedo l'ora di finirla con questa cresima perché son proprio stanco di tutte le complicazioni che mi crea!», o addirittura di essere chiamato d'urgenza in famiglia perché il ritiro spirituale aveva fatto traboccare il vaso e il figliolo non voleva più ricevere il sacramento?
    Grazie ai meccanismi di autodifesa dei ragazzi, le speranze di raccogliere frutti abbondanti dai pur generosi tentativi di rinnovamento svanivano presto: dopo la Cresima, il vuoto. Perché? Bisognava cercare una risposta.
    E il rinnovamento diventava più problematico.

    I DUE BINARI DELLA PASTORALE RAGAZZI

    Si creavano due binari nella pastorale dei ragazzi: uno, percorso dalle parrocchie e dai gruppi «parrocchializzati», che insisteva nel partire dal catechismo e dai sacramenti; l'altro, faticosamente intrapreso da associazioni e gruppi non legati strettamente alle parrocchie, che tentava di invertire la rotta: prima il ragazzo con i suoi problemi e le sue esigenze, poi un annuncio del Vangelo calibrato sulle esigenze dei ragazzi, quindi una paziente e rispettosa «compagnia» che portasse il ragazzo verso una sempre più personale conoscenza di Gesù e verso una crescente e responsabile partecipazione alla vita della Chiesa.
    Due binari che, per diverso tempo, hanno camminato senza incontrarsi, anzi tra polemiche spesso aspre. Le parrocchie tendevano a considerare un intralcio ogni attività che non fosse direttamente finalizzata alla Cresima. I gruppi non si facevano problemi a rinfacciare alle parrocchie l'inutilità del loro lavoro ai fini di una vera educazione alla fede dei ragazzi. Alzi la mano chi non ha sentito parroci dichiarare: «Nella mia parrocchia, di ACR, di Scouts, o di altri gruppi nemmeno se ne deve parlare! Qui si fa il catechismo per tutti e basta!»; e in controcampo, educatori laici: «Il parroco non ci vuole, ci snobba, ci combatte, è fermo al Concilio di Trento!».
    All'accusa di poco contenuto («I ragazzi dei vostri gruppi giocano sempre, cantano, vanno in giro per il quartiere, fanno cortei, interviste, inchieste... ma non sanno nemmeno i dieci comandamenti!»), veniva contrapposta quella di ritualismo e nozionismo.
    All'accusa di scarso attaccamento alla vita della parrocchia e della diocesi («I vostri ragazzi fanno la manifestazione per la pace, i camposcuola, le loro preghiere, le loro messe, ma, al dunque... alla processione del patrono non si vedono mai!»), si rispondeva con denunce di campanilismo e di concezione parrocchiale preconciliare.
    Polemica spesso dolorosa per la buona fede e la generosità presenti in tutti e due gli schieramenti; polemica dura perché da una parte pesavano abitudini secolari ed esigenze reali come la massiccia richiesta di sacramenti non di educazione alla fede; dall'altra, intuizioni educative più che convinzioni ed animatori più volenterosi che preparati. Scontro fecondo di situazioni stranissime come quella di ragazzi aderenti ai gruppi costretti a doppia razione di catechismo: quello parrocchiale e quello del gruppo; come quella di ostacolare l'adesione dei ragazzi ai gruppi anche se si veniva sperimentando che soltanto gli aderenti ai gruppi non troncavano il rapporto con la Chiesa dopo la Cresima.
    In realtà iniziava uno di quei periodi, paragonabili alle doglie del parto, in cui vecchie abitudini destinate a rompersi resistono e nuove mentalità faticano a chiarirsi e ad affermarsi.
    «Prima evangelizzare poi catechizzare; prima la fede poi i sacramenti!». «Chi l'ha detto che non si può evangelizzare con il catechismo? Chi lo dice che i sacramenti non educano alla fede?».
    Uno scontro inevitabile e, a mio parere, utile perché fecondo, prima o poi, di strade veramente nuove.

    Il cristiano «immaginetta»

    Le associazioni e i gruppi, ponendo al centro del loro lavoro il ragazzo non il sacramento, accettano un cammino graduale del ragazzo verso la fede. Il ragazzo ha i suoi momenti di stanchezza, di incertezza, di dubbio, di volubilità. Pazienza! Dio non ha fatto così con il popolo eletto? Gesù non ha agito così, con i discepoli? Li ha formati pian piano, sopportando ritardi, stanchezze e anche tradimenti. inutile fare citazioni perché tutta la Bibbia è il racconto della grande pazienza di Dio!
    Chi invece parte dalla prospettiva «prima il sacramento», non ragiona così. Ma: il bambino è nato cristiano; deve quindi venir su con tutte le messe e le varie cosine al posto giusto. Al primo sgarro, il ragazzo passa nella grande schiera dei cattivoni che si sono «allontanati» per colpa della televisione, delle madri che vanno a lavorare fuori casa, delle femministe, dei sindacati, della pornografia, dei doppi turni, delle scuole di musica e danza, dei tornei domenicali di pallone. «Tornerà per sposarsi in chiesa e allora cinque incontri non glieli leva nessuno! ».
    Saette infuocate piovono sulle associazioni e sui gruppi che non riescono più a trattenere i cresimati: «Dove sono quegli educatori di una volta che tiravano su quei cristianoni tutti d'un pezzo? Oggi, sfornate soltanto mezzi sbandati, mezzi radicali, mezzi comunisti, obiettori di coscienza!». Non è facile convincersi che il «Babbo, il Paese, il Campanile» hanno perso l'incidenza educativa dell'epoca della civiltà contadina! Ma bisognerà riuscirci. Oggi c'è il ragazzo bombardato da mille proposte, proposte di vita. È duro anteporre queste due parole ai sacramenti e al catechismo! Ma bisogna decidersi a farlo.
    Partire dalle richieste dei ragazzi è pericoloso perché quelli, si dice, vorrebbero sempre e soltanto giocare!
    «I ragazzi e le vecchiette devono fare quello che decidiamo noi per il loro bene, altrimenti con chi si fanno le suggestive celebrazioni liturgiche, prodotte in grande abbondanza dai liturgisti? Con chi si fanno le sperimentazioni che i monasteri di grido diffondono? Va bene, quelli le hanno pensate per gli adulti, ma siccome gli adulti in parrocchia non ci vengono...».
    Chi non ha assistito al crudele tentativo di far recitare (e cantare!) i vespri ai bambini e alle vecchiette sprovviste degli occhiali? Pochi giorni fa, una adorabile nonnina mi diceva: «Non posso più andare nella mia parrocchia perché lì, invece del rosario, vogliono per forza farci dire le vespere!».
    Il cristiano stampato in serie, da piccolo, ed inserito come una immaginetta segnalibro tra le pagine dei registri parrocchiali, non esiste più.

    La critica è una virtù

    Quando mi capita di parlare, con questo tono, di questi problemi, i parroci presenti, prima o poi, sbottano: «Tu ce l'hai con i parroci! Voi teorici parlate bene perché non state nella realtà! Voi siete campati per aria!»... ed altre cosine meno fini.
    Ma, ahimè, anch'io sono parroco e anch'io combatto ogni giorno con la tentazione di pensare che è la gente ad essere sbagliata; che, se il mondo tornasse quello di prima, tutto andrebbe a posto. Anch'io, tutti i giorni sono tentato di suonare la campana e: «Se volete venire, venite, sennò peggio per voi!». Anch'io sono, per istinto, portato a «curare» quelli che vengono e ad infischiarmene delle novantanove pecorelle che sono rimaste fuori... per obbedire alla parabola di Gesù che, per l'appunto, invita a non preoccuparsi delle novantanove perdute perché «noi abbiamo fatto il nostro dovere».
    Anch'io sono tentato di montare sul cavallo clericale e saettare con il dito puntato: «La vuoi la Cresima? Allora beccati il catechismo!». Anch'io devo stringere i denti per non dimenticare i ragazzi che sono passati dalla cappella vicino all'altare, al fondo della chiesa, al piazzale. Anch'io faccio fatica a convincermi che, proprio adesso che sono rimasti fuori, hanno più che mai bisogno dell'annuncio del Vangelo.
    Non è questione di mode o di gusto di condannare tutto ciò che si faceva prima «come se prima fossimo dei cretini», ma inserire il senso critico, detto più propriamente discernimento, tra le virtù cristiane. Il mondo è cambiato e cambia più di quello che noi possiamo immaginare, abituati come siamo a giocare con i princìpi eterni ed immutabili. Il problema è quello di ricordarci che il cristianesimo è la religione della incarnazione non della astrazione.
    Né c'è da essere pessimisti, tutt'altro! Possiamo permetterci di fare questi discorsi spregiudicati perché siamo convinti di essere ormai cresciuti e maturi. I tentativi fatti in questi vent'anni erano necessari e necessariamente non calibrati. Non è possibile cambiare e rinnovarsi dalla mattina alla sera, senza incertezze e senza sbavature. Soltanto i fanatici e gli eretici credono nella palingenesi violenta.
    Tutti noi che abbiamo faticato e fatichiamo in questi anni con i ragazzi crediamo nella Chiesa, in questa Chiesa che tribola e fatica per arrivare ad essere «sposa senza rughe». Il peccato sarebbe rifiutarsi di cambiare e affermare, più o meno inconsciamente: «la Chiesa rimane così. Cambi il mondo; cambino i ragazzi: tutto torni a come era cinquant'anni fa!», perché Dio ha creato la Chiesa per il mondo non viceversa.
    In tutta l'Italia, non si contano le iniziative, le esperienze, le attività, gli studi le proposte valide, sensate, costruttive. E se possiamo parlare così, è perché, pur tra mille errori, si è lavorato sodo. Mai come oggi, io credo, tanti ragazzi hanno affollato le esperienze estive che sono sempre più ben preparate e ben fatte. Mai come oggi tanti giovani e giovani adulti sacrificano tempo, ferie, soldi, capacità per annunciare il Vangelo ai ragazzi. Questo «seme gettato a marcire» comincia a dare i suoi frutti.
    Però bisogna andare avanti e prendere coscienza che la realtà dei ragazzi è profondamente mutata. Pensiamo a quello che era l'Italia cinquant'anni fa e proviamo a immaginare quanto questi mutamenti possano aver trasformato i ragazzi che sono i più sensibili ai cambiamenti. Non possiamo continuare a blaterare: «perché una volta questa cose funzionavano?». Se non fosse una stupidaggine, sarebbe una bestemmia.

    DA PARROCCHIA A PARAOlKIA: LA SVOLTA NELLA PASTORALE

    Adesso è tempo che i cambiamenti partano dal profondo non dalla facciata.
    La parrocchia è sorta come paraoikìa, una piccola comunità di cristiani che andava nelle campagne per portare il Vangelo in mezzo agli abitanti dei villaggi. La paraoikìa era una comunità provvisoria, mobile, attrezzata soprattutto per annunciare il Vangelo, per la plantatio ecclesiale.
    Con il passare degli anni, per cause storiche e culturali, che qui non possiamo illustrare, la paraoikìa è diventata una struttura stabile.
    Ormai tutti erano cristiani: il capo dei barbari si era convertito e la massa l'aveva seguito. La paraoikìa poteva addirittura ereditare ed intestarsi dei beni, diventando un «beneficio» appetibile per i preti. La paraoikìa diventava parrocchia, una fetta di Chiesa stabile, ferma, attrezzata culturalmente non più per annunciare il Vangelo dal momento che tutti erano cristiani, ma per «curare» i cristiani con il catechismo e i sacramenti. La paraoikìa ora diventa la cura, e il presbitero il «curato», anzi, il signor Curato. Il soggetto della pastorale era lui, tutti gli altri potevano soltanto esigere le sue cure zelanti.
    Con la fine della civiltà contadina, questo schema è saltato in modo rapido, clamoroso, traumatico. Oggi la parrocchia si ritrova ad essere «in terra straniera», a dover annunciare il Vangelo senza averne più la mentalità. Era chiaro che inizialmente si tentasse di recuperare la gente con quello che si sapeva fare: i sacramenti e il catechismo dei bambini (magari abbelliti); ma questo non poteva e non può bastare, se non altro per quel famoso proverbio che dice di non attaccare il carro avanti ai buoi.
    La crisi della fede, nella gente di oggi, nasce nella testa; nello smarrimento di valori che non sono più recepiti come importanti; nella ricerca di nuovi significati; nel bisogno di dare «senso» ad una vita affannata appresso alle cose.
    I bisogni, i tempi, i ritmi, i perché della vita sono cambiati e c'è bisogno, prima di tutto e soprattutto, di una «parola» che abbia «senso».
    «Occorre evangelizzare non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici la cultura e le culture dell'uomo... partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (E.N. 20).
    Tutti gli sforzi della pastorale devono essere indirizzati verso l'evangelizzazione, verso la capacità di ripresentare «proposte di vita» che suscitino stupore, che stimolino interrogativi e si facciano scegliere.
    La parrocchia deve ridiventare paraoikìa, una comunità che annuncia il Vangelo in terra straniera.

    Pastorale e pastorale dei ragazzi

    Qualcuno sospetta, lo sento, che si stia andando fuori tema, dal momento che qui si doveva parlare della pastorale dei ragazzi. Altra illusione da far crollare! Non si può ragionevolmente credere di poter fare la pastorale dei ragazzi senza fare la pastorale in generale. Dobbiamo abbandonare la crudele illusione di «curare» gli adulti, acchiappandoli come genitori con il cappio dei sacramenti dei figli. Né, d'altra parte, possiamo sperimentare metodi nuovi e rispettosi della persona, come raccomanda Paolo VI, con gli adulti e continuare con i ragazzi alla vecchia maniera sacramentalizzandoli e catechizzandoli «perché lo devono fare», senza prima evangelizzarli.
    Dobbiamo ficcarci bene in testa che questi bambinetti di seconda elementare, intruppati per iniziare la preparazione alla prima Comunione, devono essere aiutati a scegliere Gesù come Signore; altrimenti costruiremo un castello con le carte da gioco: cade appena uno soffia. E questi «soffi» che portano via i ragazzi, tirano sempre prima e sempre più spesso.
    Ma che vuol dire evangelizzare? No, non significa fare il catechismo meglio. Ci vuole altro! Siccome la risposta è piuttosto impegnativa, ricorro a documenti inoppugnabili (Documento Base, Evangelii Nuntiandi), conosciuti e studiati ma spesso interpretati rovesciando l'invito evangelico: «...Mettete il vino nuovo in otri vecchi!».
    1. DB 52: «La Parola di Dio deve apparire ad ognuno una apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori, una soddisfazione alle proprie aspirazioni"
    Se pensiamo di poter realizzare queste righe migliorando semplicemente il catechismo vecchia maniera, viene quasi da ridere... o da piangere.
    2. DB 55: «Cristo può essere accolto, se è presentato come evento salvifico nelle vicende quotidiane degli uomini».
    Che nesso c'è tra il Cristo del catechismo e le vicende quotidiane dei ragazzi?
    3. DB 77: «Chiunque voglia fare all'uomo di oggi un discorso efficace su Dio, deve muoversi dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio».
    L'uomo di oggi è anche il ragazzo; anzi, il ragazzo è più di oggi degli adulti. Se non riusciamo a vedere nel ragazzo altro che il cresimando, allora possiamo «vedere e passare oltre», lasciando il samaritano all'ammirazione e all'imitazione di quelli che ascoltano le nostre esercitazioni oratorie.
    4. EN 63: «L'evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non si tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non si utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la sua vita reale».
    Ma i ragazzi sono un popolo? Chi ci vive in mezzo non ha dubbi.
    5. Comunione e comunità missionaria 36: «Urge la necessità di trovare forme appropriate per un primo annuncio (la sottolineatura è del testo!) del messaggio cristiano fedele alla Parola di Dio e attento alle legittime attese dell'uomo... Al primo annuncio segue la catechesi. Da un lato essa sostiene e fortifica la fede dei credenti e dall'altro previene i pericoli di un indebolimento della fede stessa che può arrivare alla defezione... Sia l'annuncio che la catechesi devono essere sostenuti e accompagnati dal dialogo (la sottolineatura è del testo!), nella verità e nella carità».
    Una autentica pastorale dei ragazzi può soltanto partire dalla convinzione che ad essi il Cristo non può essere imposto «perché sono piccoli e devono fare i sacramenti». Cristo non violenta nessuno, tanto meno i ragazzi: Lui sta alla loro porta e bussa.
    Nei confronti dei ragazzi più che mai la comunità ecclesiale, comunque essa si concretizzi, deve trasformarsi da parrocchia in paraoikìa.
    Senza questa conversione possiamo fare tutto il catechismo che vogliamo: servirebbe sempre più a portare i ragazzi fino al sacramento dell'abbandono.

    LE ACQUISIZIONI EMERGENTI DA UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA

    Dopo aver cambiato la disposizione dei banchi ed esserci riempiti la testa di canti ritmici e fracassoni, siamo arrivati al momento di doverci convertire, dentro, culturalmente. Perché impaurirci o sentirci depressi? Tutto quello che abbiamo fatto finora ci è servito per raggiungere una nuova coscienza, per essere pronti per un ulteriore passo in avanti.
    «Diteci cosa dobbiamo fare?».
    E no! Questa domanda fa parte della mentalità da buttare via. La conversione non va d'accordo con le ricette della nonna: essa esige studio, ricerca, dialogo, sperimentazione seria, verifica attenta.
    Nessuno sa cosa dobbiamo fare, ma tutti dobbiamo sapere che è urgente intraprendere strade nuove.
    Dobbiamo dunque partire alla cieca? No, alcune indicazioni scaturiscono ormai chiare da quello che abbiamo fatto fin qui, anche dagli errori e dalle approssimazioni. Proviamo a sussurrarle e a gridarle insieme, perché se è vero che nessuno ha la soluzione in tasca, è altrettanto vero che non possiamo far finta che esse siano opinabili.

    Il Vangelo è una «buona» notizia

    Non possiamo imporre Gesù a nessuno, nemmeno al bambino di tre anni, né sotto forma di sacramento, né sotto forma di nozione, né sotto forma di imposizione morale. Gesù è una notizia annunciata da una esperienza vissuta. Non dobbiamo ammettere deroghe a questa verità.
    È questa la capacità che dobbiamo recuperare; è questa la conversione che dobbiamo fare.
    Come portare questa notizia ai ragazzi? «Con segni che creano stupore e con una predicazione instancabile» (EN 11-12).
    La nostra «serietà» sta qui, non nel vendere più cari i sacramenti o nel penalizzare la gente con incontri imposti. Un gesto che testimonia la vita nuova in Cristo fa breccia nei ragazzi più di mille imposizioni.
    Gesù deve essere per i ragazzi Colui che potenzia e rafforza la loro voglia di vivere e di essere felici; Colui che soddisfa le loro aspirazioni alla libertà, alla gioia, alla festa.
    Se la comunità cristiana emette segni di conformismo, di sciatteria, di pigrizia, di piccineria, lo stupore che ne uscirà sarà «con zavorra», uno stupore che tira in basso, che farà dire al ragazzo: «fammi correre a cercare altrove». Lo stupore suscitato dalla vita della comunità deve essere uno stupore «con le ali»: un sentimento che incoraggia, che fa ammirare, che fa sognare di poter fare anche noi così: perché è bello, è forte, è significativo... è bestiale!
    Nella comunità i ragazzi devono essere, come in una famiglia, coloro che stimolano a fare di più e a fare meglio. Non entusiasmiamo i ragazzi con i «no» che imponiamo, ma con i «sì» che testimoniamo.
    I ragazzi devono sentirsi amati, stimati, apprezzati, accolti con calore, con affetto gratuito. Ricordiamo: mille no non sono capaci di suscitare un sì.

    La logica educativa dentro la pastorale

    Maccheroni da piccoli, latte da grandi. Dobbiamo smettere di fare il contrario di quello che ci insegna San Paolo: «Quand'ero bambino, mi nutrivo da bambino; ora che sono grande...».
    Noi siamo disposti a fare lo sconto agli adulti. «Si sa, poverini, con la vita di oggi, non possono venire a messa tutte le domeniche; non possono rispettare in pieno la morale cristiana; non possono...». Con i ragazzi invece siamo inflessibili: devono fare e sapere tutto!
    È possibile che, a dodici anni, un ragazzo debba avere tutto il «contenuto» cristiano in testa? possibile che non gli sia perdonato di aver preferito il torneo di pallone alla messa domenicale?
    Dobbiamo proporre al ragazzo un Gesù sulla sua misura. Non per inventare un Gesù «per bambini» (è già successo: il cuoricino di Gesù, i fioretti, le preghierine...), ma per rispettarlo come persona che si rapporta alle altre persone in modo graduale. Non si diventa amici sapendo tutto dell'amico ma accostandosi a lui a poco a poco.
    Dobbiamo seminare nei ragazzi l'ammirazione per un Gesù che aspetta, che ha pazienza, che perdona, che non impone pesi troppo gravi, che comprende le crisi e le stanchezze, che non si scandalizza dei suoi umori mutevoli, delle sue stranezze, della sua voglia di dimostrare che non è più un bambino.
    Una buona e saggia famiglia non educa bene i figli imponendo loro a dodici anni le cose che essi potranno fare e capire a venti anni! Così deve essere la comunità cristiana. Non possiamo rimproverare i ragazzi di non essere venuti alla processione del Corpus Domini se non c'erano gli adulti. Non possiamo essere intransigenti con i ragazzi e comprensivi con gli adulti. la logica «educativa» che deve entrare nella pastorale.
    Il cristiano «immaginetta», il dodicenne imbottito di teologia, di morale, di riti per fare la Cresima, ricevuto il sacramento, lascia la Confessione, poi la Comunione, poi la Messa, poi l'idea che la fede sia una cosa seria compatibile con un ragazzo che frequenta la scuola media superiore... Va in frantumi, un pezzo dopo l'altro. Dobbiamo invertire la rotta e adottare la strategia di Dio che impiega duemila anni per portare gli uomini alla capacità di capire che Lui è tre Persone, che la «carne» risorge, che bisogna amare i nemici.
    È così scandaloso un ragazzo di dodici anni che non sa bene cosa sia la Trinità? veramente uno che non ha capito niente il dodicenne che non sopporta la predica troppo lunga? Chi è veramente preoccupante, il cristiano adulto che si confessa soltanto a Pasqua o il dodicenne che si accosta al sacramento da camposcuola a camposcuola? Bisogna rimproverare l'adulto che non partecipa alla liturgia penitenziale o il ragazzo che si è permesso di marinarla?
    Non possiamo continuare a buttare sulle spalle dei ragazzi tutto ciò che non riusciamo a fare con i grandi.
    Ma con gli adulti non ci si riesce? Non per questo dobbiamo sfogarci con i ragazzi! Sarebbe come se, non riuscendo a far lavorare bene gli impiegati statali, il governo facesse fare il lavoro ai ragazzi... perché a quelli glielo si può imporre!

    La fede nella logica del seme

    Che diremmo se vedessimo un contadino seminare i cocomeri? Bene, nelle nostre parrocchie, questo lavoro viene fatto continuamente. Noi pretendiamo di seminare il frutto maturo della fede con il germe. È da questa pretesa che nascono i risentimenti contro coloro che trascurano il contenuto e che non esigono la partecipazione a tutte le funzioni. Vorremmo mettere la fede nei ragazzi come si mette il pollo nel congelatore. Ma la fede non è un oggetto da incorporare nel ragazzo in modo tale che rimanga là dentro fino alla vecchiaia! La fede è un rapporto personale con Gesù. Noi dobbiamo arare nel ragazzo il terreno perché germini il seme della fede. Questo seme svilupperà piano piano e produrrà frutti proporzionati all'età.
    Non possiamo innestare nel ragazzo la nostra fede, ma lavorare perché sorga la sua fede.
    Se ci convinciamo di questo, non ce la prenderemo più con i gruppi che fanno giocare i ragazzi, che organizzano le feste... Un giovane che, perché cristiano, si mette a servizio della voglia di giocare dei ragazzi, getta in loro il seme della fede. Può darsi che quei ragazzi, a quattordici anni, abbandonino tutto. Ma, siamo certi, quando si sentirà triste e depresso, gli tornerà in mente che può ricorrere ai cristiani per avere ciò di cui sente la necessità.
    A volte immagino le nostre parrocchie nei confronti dei ragazzi, come ditte che vogliono vendere frigoriferi al Polo Nord! Essi vogliono giocare? Noi offriamo il non gioco. Vogliono far festa? Imponiamo loro la noia. Vogliono parlare dell'amicizia? No, si parla della Confessione.
    Ma allora il Vangelo dove lo mettiamo? Con il Vangelo, evangelizziamo il gioco, la festa, l'amicizia, l'amore.

    Una fede che germina «insieme»

    Chiesa significa comunità di persone che vive e annuncia il Regno di Dio presente nel mondo. L'espressione più lontana e incomprensibile di Chiesa è il «solitario», fosse anche un prete, che dice cose incomprensibili se non vengono vissute insieme. Per questo le nostre parrocchie devono tornare ad essere comunità di comunità: tanti gruppi, di ogni tipo, che si ritrovano insieme nella Eucarestia. Deve finire questa sciocca paura dei gruppi che portano via i ragazzi dalla parrocchia. Soltanto da una fede concretamente vissuta da gruppi di adulti, di giovani, di ragazzi, i ragazzi potranno essere evangelizzati.
    Cosa importa se i ragazzi mancano qualche volta alla messa parrocchiale perché fanno la messa di gruppo? proprio attraverso il gruppo che i ragazzi matureranno il desiderio di appartenere ad una comunità più grande.
    Se una famiglia tiene il figlio sempre dentro casa e non lo manda a scuola, a fare sport, con gli amici, lo rovina e, prima o poi, lo costringe a scappare di casa. Più invece una famiglia stimola il figlio a fare esperienze, più svilupperà in lui l'importanza della famiglia.
    Se, invece di temere la concorrenza dei gruppi e di dedicare il 90% del tempo al catechismo dei bambini, le comunità ecclesiali dedicassero il 90% del tempo e delle energie a stimolare la nascita e la vita di gruppi di ogni tipo, farebbero un gran servizio ai bambini e ai ragazzi e al Vangelo.
    I bambini e i ragazzi li abbandoniamo? Assolutamente no: avremmo trovato il modo migliore per evangelizzarli, catechizzarli e farli crescere nella fede.

    Su strada

    A che punto è la pastorale dei ragazzi a 20 anni dal Concilio? ad un punto cruciale. Esauriti i tentativi di rinnovare cambiando la suppellettile, con la ricchezza delle tante strade tentate e dei mille errori, fatto tesoro dei successi e degli insuccessi, con il sostegno di analisi e studi sulla realtà dei ragazzi, è arrivato il «tempo favorevole» per compiere un salto di qualità.
    È necessario considerarsi su strada. Le associazioni e gruppi devono farsi carico delle esigenze concrete delle parrocchie; queste devono accogliere le sperimentazioni, l'inventiva, la ricerca, la fantasia.
    Abbandoniamo la routine pastorale del ricominciare ogni anno le stesse cose con stoica rassegnazione e, soprattutto, partiamo sempre dalle esigenze dei ragazzi, non per farci imprigionare dal loro modo, ma per aprirlo alla Parola che dà senso anche alla loro vita.
    Gettiamoci nell'avventura. La fatica sarà tanta ma... chi la sente la fatica dell'avventura?


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    p a g i n A


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