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    L'uomo e il senso: dal problema alle possibili vie d'uscita


    Intervista a Armido Rizzi

    A cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1986-5-19)


    Domanda. Lo scopo di questa intervista è di riflettere sul senso della vita e la sua crisi. Ci rendiamo conto che già attorno al concetto di senso si sono aggrovigliati molteplici significati. Si può fare un po' di chiarezza terminologica e impostare i termini del problema?

    Risposta. Sono diverse le accezioni con cui è utilizzata la parola «senso». In genere lo si confonde con il significato: di una parola, di un messaggio, di un discorso. Oppure lo si usa in un'accezione psicologistica, dove allora crisi di senso diventa automaticamente angoscia. O ancora lo si può utilizzare in modo disincarnato, come se il senso fosse una sorta di supplemento che resta da risolvere una volta risolti tutti gli altri problemi, quelli parziali.

    DAL SENSO PRODOTTO DALL'UOMO AL SENSO IN CUI L'UOMO E' PRODOTTO

    Per fare chiarezza attorno a questo concetto e comprendere il vero nucleo del problema, occorre anzitutto definirne la base fenomenologica, che è l'ordine dell'azione. Senso equivale a fine, obiettivo, scopo: esso è il fine immanente a un'azione, quello che la fa nascere facendone scattare il dinamismo e l'intenzionalità, e l'alimenta nel suo stesso corso; l'azione è fatta perché l'obiettivo diventi realtà effettuale. Ogni azione pertanto ha sempre un suo senso immanente, diversamente non esisterebbe. Io credo che la vera soglia dell'umano sia questo orizzonte di senso che fa sì che l'uomo sia un essere agente intenzionale, e non solo un essere che si muove in base a movimenti puramente fisici o a degli istinti.
    Il problema del senso (non dei sensi parziali ma del senso globale che è fondamentalmente la domanda sul senso, come quando si parla del «senso dell'esistenza» ) si pone quando ci si interroga se lo stesso rapporto che c'è tra una singola azione e il suo obiettivo o senso, si verifichi tra l'esistenza umana e un qualcosa che sia il suo fine, un qualcosa in ordine a cui l'esistenza stessa è sbocciata.
    Parlare di «senso dell'esistenza» equivale a estendere il rapporto azione-fine a quella totalità che è la vita di un uomo. In altre parole: si dà un obiettivo e quindi una ragione d'essere in partenza dell'esistere dell'uomo? Siamo giunti qui a una domanda squisitamente filosofica.

    D. Ma questo è anche fondamentalmente un problema religioso.

    R. Posto in questi termini, il problema del senso è un altro modo di porre il problema della trascendenza: non necessariamente della trascendenza di un Dio personale, ma di un mondo che si dà come ordine, come razionalità, prima dell'intervento dell'uomo. Chiedersi se l'uomo abbia senso vuol dire chiedersi se si possa riprodurre nei suoi confronti quello di cui lui di solito è produttore. In altre parole: c'è qualcosa o qualcuno dentro il quale lo stesso produttore di senso è stato prodotto?
    E questo è certamente un problema religioso, ma è anche fondamentalmente il vero problema ontologico: se si definisce l'essere non solo come il darsi di cose brute, ma il darsi di una razionalità fondamentale non prodotta dall'uomo; e l'uomo come non solo colui che dota di senso quello che fa, ma come colui che nel suo esistere ha un fine in cui riconoscersi sensato. Comunque poi si pensi questa dotazione di senso, questo progetto: un soggetto infinito-persona, un soggetto infinito diffuso nel mondo...
    Non tutti credono all'esistenza di questo «progetto sensato». L'esistenzialismo ateo afferma che non esiste questo progetto ordinario, ma che l'uomo si trova gettato nel mondo, una pura contingenza o fattualità in mezzo alle altre, ma, a differenza delle altre, una fattualità promotrice di senso .

    Senso soggettivo, senso oggettivo, fondamento

    D. Quando si parla, per l'uomo, di senso soggettivo o oggettivo, non si intende certo porre il problema in questi termini di fondo. Eppure vi è una certa affinità tra queste questioni e il «senso» in cui l'uomo è pensato.

    R. Restiamo sempre a livello di senso globale e non di senso delle singole azioni, da cui siamo partiti. Vi è allora un senso soggettivo quando uno cerca o dà un senso alla sua vita, qualunque esso sia. E' qualcosa che la persona vive come fine che totalizza la sua esistenza, un fine ultimo attorno a cui organizza tutto il suo esistere: può essere il lavoro, l'arte, il guadagno..., o anche il senso autentico.
    Il senso oggettivo è quello che viene riconosciuto in una società come ragione valida per esistere. L'analisi antropologica rivela che una cultura è il sistema in cui si organizza il senso o le dimensioni di senso riconosciute nella società e come tali interiorizzate: il senso oggettivo è il senso oggettivato entro un determinato sistema culturale e sociale. Vi è poi, a ben vedere, un altro livello, che si potrebbe chiamare certamente trans-soggettivo, ma anche trans-oggettivo, perché si muove non al livello delle oggettivazioni sociali, ma a livello ontologico. E' la dimensione, come si diceva prima, in cui si determina se esiste o non esiste il senso.
    Questi tre livelli non si escludono, però si distinguono. Possono anche identificarsi, anche se non mai totalmente. Il senso oggettivo non si può mai identificare tout court col senso trans-oggettivo, ontologico; così come il senso soggettivamente vissuto non è mai una semplice trasposizione a livello di individuo del senso oggettivo.
    All'ultimo livello di senso (trans-oggettivo), io identifico senso e fondamento.
    Fondamento è una parola metaforica, che dice quello che sta sotto e regge, il basamento; senso invece non è un concetto metaforico, perché è la trasposizione analogica di un processo fondamentale antropologico Per cui il fondamento è quel senso trans-oggettivo, la razionalità dentro cui l'uomo e il mondo sono pensati e creati. Il senso oggettivo invece è l'oggettivazione sociale del fondamento, è il fondamento che si dà figure. Distinguo sempre tra evento e figure: l'evento e il senso, qualcosa che di natura sua è al di là dell'oggettivato, anche se noi lo percepiamo solo in figure, in quelle figure che sono l'espressione - per le esigenze dell'uomo - del senso definitivo: le religioni, le culture...
    Ma, anche se si cala dentro configurazioni sociali, il senso mantiene tutta la sua trascendenza. Altre figure, invece, soprattutto nell'orizzonte odierno di approccio scientifico alla realtà, negano non solo la trascendenza ma il fondamento stesso.

    LE RISPOSTE AI PROBLEMI DEL SENSO: RELIGIONI E CULTURE

    D. Restiamo al livello trans-oggettivo: se esiste cioè un progetto, un senso, inscritto nell'esistenza dell'uomo come suo fondamento. Quali .sono state le risposte dell'uomo?

    R. La risposta che noi conosciamo, e che è da tutta la storia del mondo, è una risposta che addirittura anticipa lo stesso problema, che si offre prima ancora della domanda. La religione si presenta come un'affermazione non teorica, non riflessa, di senso. Tale affermazione è il vero punto di partenza, ed è un'affermazione produttiva nel soggetto di quel senso che afferma.
    La religione dunque fondamentalmente non si preoccupa di essere risposta alla domanda dell'uomo, neanche risposta alla domanda di senso, perché è anzitutto un'offerta di senso che anticipa la stessa domanda, è affermazione di presenza.
    Se la religione fosse considerata una risposta ad una domanda precedente da parte dell'uomo, ciò significherebbe che l'esperienza originaria dell'uomo è quella di trovarsi in un mondo fondamentalmente giocato sul caso, sulla contingenza, un mondo che egli non può affrontare perché si trova disperso e disorientato. Nascerebbe allora il bisogno di senso, e l'esigenza di una risposta ad essa; la religione sorgerebbe così come risposta funzionale, consolatoria, rassicurante.
    Questa è la posizione - lo notiamo di passaggio - di molti approcci al fenomeno religioso, viziati da un comune punto di partenza che non prende sul serio quello che la religione dice di sé, la sua intenzionalità profonda .

    Il pensiero contemporaneo: l'uomo unico produttore di senso

    D. Se la religione .si è presentata come offerta di senso all 'uomo, anche la filosofia ha tale pretesa, oggi soprattutto.
    Siamo di fronte a una razionalità autonoma che fonda il senso, al di fuori o contro ogni discorso religioso. E' quanto sta accadendo nella cultura contemporanea?

    R. La filosofia fin dall'inizio si è assunta il compito di dire le parole sulla realtà, sul senso. Ma non le ha dette sempre al di fuori o contro le parole religiose. Anzi, per molto tempo essa si è pensata in quella posizione (ermeneutica) che accetta il fondamento religioso, ripensandolo e purificandolo dalle incrostazioni culturali: interpretandolo appunto.
    Ma accanto a questa posizione, si è venuta sempre più rinforzando quella che è alla base della filosofia moderna, la rivendicazione dell'uomo come unico produttore di senso.
    Forse Heidegger forza l'argomentazione, ma egli traccia la storia del pensiero come la storia di uno staccarsi da un fondo prerazionale con la nascita del logos, fino al logos che è pura tecnica, semplicemente un prendere le misure della realtà per dominarla. Qui siamo giunti all'estremo: abbiamo non solo l'espressione di un senso fattosi problematico, ma di un senso che non c'è più, perché ora l'unico produttore di senso (attraverso un intervento tecnico sulle cose) è l'uomo.
    Se si vuole guardare le cose nelle loro figure più marcate abbiamo da una parte
    l'uomo religioso, e dall'altra l'uomo della tecnologia e il suo porsi di fronte all'esistente per disporre: il «disporne» è l'essenza del tecnologico. Qui non c'è più traccia di trascendenza, perché il senso delle cose diventa il puro servirmene, il puro disporne. Questa mentalità tecnologica è la riduzione dell'uomo a unico produttore di senso: una visione grandiosa e tragica della vita, che diventa scelta di riempire il vuoto di senso, di produrre cultura perché la cultura è quel «piccolo frammento di senso che disegniamo nella totalità priva di senso che è il mondo».
    Nel medesimo alveo si colloca l'esistenzialismo di Sartre, che è un umanesimo perché pensato come produzione di senso in un mondo che non è senso. Ma questo esistenzialismo è un ateismo, perché l'esistenza dell'uomo è pensata al di fuori di un progetto creatore, come puro progetto. Alle spalle della decisione umana non c'è nulla di fondante: né un Dio creatore, né una natura finalisticamente orientata, né un ordine di valori oggettivamente consistenti. Così che l'uomo in partenza non è altro che questa sua capacità di decisione (esistenza, libertà) e sarà poi tutto ciò che egli si sarà fatto attraverso la decisione.
    A questo punto è importante prendere atto che queste visioni del mondo sono diventate di tutti (e non più soltanto di pochi) e che sono entrate nella vita quotidiana, cioè proprio là dove l'uomo produce senso. Ed è quando la convinzione di essere unico produttore di senso si cala a livello di vita quotidiana, che si ha il fenomeno della secolarizzazione, in cui non si ha neanche più il bisogno di enunciare la scomparsa del senso.
    Distinguo subito due forme di secolarizzazione, incompiuta la prima e compiuta la seconda .
    Intorno agli anni '60, anche se il tema di fondo era quello della scomparsa del religioso, restava tuttavia un discorso basato su un fondamento - per quanto laicizzato -, ma di una laicità «piena»: infatti, pur rifiutando ogni dimensione linguistica di trascendenza, conservava quella trascendenza immanente che sono il concetto di natura umana, la trascendenza della persona, il rapporto radicale all'altro, la presenza dell'utopia, ecc.
    La secolarizzazione compiuta è quella di oggi, che considera l'uomo non più come genere umano, come unità, ma come individuo che si trova con la sua volontà, la sua capacità di dare senso, la sua progettualità: un uomo che non ha altra misura se non la stessa sua progettualità nell'atto di farsi.
    Oggi, io ritengo, questo è il nostro orizzonte, proprio a livello di vita quotidiana.

    Tempo di crisi e crisi del senso

    D. Si è soliti parlare oggi di «epoca di crisi». In quale misura si può affermare che essa è essenzialmente crisi di senso?

    R. Certamente una delle linee di lettura più caratteristiche del nostro tempo corre lungo il concetto di crisi.
    In realtà ci sono stati, anche nel recente passato, altri periodi di crisi. Mi riferisco per esempio al periodo del primo dopoguerra, soprattutto in Germania, fino alle soglie della seconda guerra mondiale. Questo stato di crisi e questa riflessione sulla crisi sembrano poi rientrare nel dopoguerra, col sopravvenire della ripresa e col desiderio della ripresa, che cancella quella che avrebbe dovuto essere la meditazione sui due fenomeni che erano l'espressione massima della crisi, Auschwitz e Hiroshima.
    Fenomeni che vengono messi tra parentesi, forse per il comprensibile bisogno di rivivere, di ricominciare da capo, sospinto sia dalla ripresa economica e dalla rimonta capitalistica sia, più tardi, dal fenomeno del 68, la grande utopia mao-marxista. Quest'ultima, se da una parte continua e approfondisce la critica al sistema, all'esistente, dall'altra però ripropone, con ottimismo acritico, le tematiche del progresso e della storia lineare progressiva. Caduta questa bandiera, si ripropone in pieno quella crisi e quella cultura della crisi che era stato retaggio del periodo di inizio secolo; venuta meno l'ultima utopia (la trascendenza fatta immanenza e futurizzata in avanti invece che in origine), resta scoperta la crisi.
    Ma cos'è in crisi, qual è il vero soggetto della crisi?
    Non certo il senso trans-oggettivo, che formalmente non può entrare in crisi (esso c'è o non c'è), ma la circolazione collettiva di quel senso che si oggettiva e diventa poi anche soggettivo.
    O, se si vuole, è il senso oggettivo il vero cuore della crisi, in una parola la cultura.
    Specificando, è la cultura su cui è venuto crescendo l'Occidente sia pure attraverso mille vicissitudini; è quella che a ragione si può definire civiltà cristiana, cristiana perché anche là dove il referente trascendente confessionale è caduto, si è trasferito con la sua potenza di senso nell'utopia e nel progresso. E quando cade quest'ultima oggettivazione di senso, viene allo scoperto la crisi non tanto di Dio o della fede cristiana, ma della civiltà cristiana, di quella cultura che ha fatto da contenitore, da architettura del senso in tanti anni di storia.
    In questa crisi vi è qualcosa di «epocale», perché non vi è un travaso di senso, un senso nuovo emergente e che sostituisce quello vecchio, ma è una crisi dove non c'è più nessun raccoglitore o contenitore di senso, non c'è una cultura alternativa capace di ridisegnare il senso.
    Abbiamo alle spalle un'epoca in cui il senso fondante trans-oggettivo prendeva forma dentro una totalità - religione, cultura - e diventava senso totale, visione del mondo non teorica ma da vita quotidiana. Ci troviamo oggi, relativamente all'improvviso, l'individuo come unico produttore di senso, senza punti di riferimento, che guarda il mondo con mentalità tecnologica, che osserva ogni fatto (psichico, etico, istituzionale...) come un «si dà così», con un disincanto che esprime la serpeggiante secolarizzazione radicale.

    Una ricerca di vie nuove

    D. Se si prende sul serio la crisi radicale posta dalla fine della civiltà cristiana, vi sono vie di uscita alternative rispetto all'autofondazione del senso da parte dell'uomo, nuclei di una nuova cultura che non esprime solo pura progettualità o semplice gestione tecnica e pragmatica dell'esistente?

    R. Più che di una nuova cultura preferirei parlare di frammenti di una nuova cultura, e mi riferisco soprattutto a quanto si esprime col termine «ritorno alla naturalità», a tutto ciò che passa sotto il concetto di vitalismo. Penso che sia una risposta, o meglio tentativi di risposta, alla crisi, al trovarsi di fronte alla pura progettualità con il mondo nelle mani. E' come un bisogno di rimettere radici, che però non implica un ritorno al passato, alle forme di un organicismo dove il senso era la totalità - cosmica o sociale - e dove gli individui vi partecipavano come parti rispetto a non tutto, col sacrificio dunque della loro individualità.
    Ma bisogna anche essere critici nei confronti di questi tentativi, e globalmente non mi pare che possano essere considerati una autentica «terza via».
    Intanto, alcuni di questi sono semplicemente un ritorno all'organico, a varie manifestazioni dell'organico: tornare alla terra, alla religione, all'Oriente, per qualcuno alla tradizione ebraica (in ogni caso fuori dall'Occidente, essendo l'Occidente il luogo del declino e l'Oriente il luogo del sole che sorge), oppure al politeismo greco (prima del pensiero riflesso), al precapitalistico, alla medicina naturale, a una certa alimentazione...
    E poi alcune sono forme di puro sperimentalismo, non un'esperienza vera di un senso che afferra e dentro cui si è. Sono dei tentativi di sperimentare se una data soluzione va bene, disposti sempre a cambiare e a provare altre possibilità: dunque si è ancora dentro un atteggiamento progettuale, che cerca sì delle radici ma mantenendosi ben stretti i vantaggi del non avere radici.
    Certo, questa capacità di vivere una doppia cultura, di mettere insieme atteggiamenti contrapposti e di accettarli entrambi, è anche un'espressione della complessità del reale, un accettare le contraddizioni di cui è piena la vita. E quella posizione filosofica che passa sotto il nome di «pensiero debole» non è nient'altro che l'interpretazione, la legittimazione e il messaggio della situazione presente. All'interno del pensiero debole ci metterei a buon diritto il cosiddetto neopoliteismo, cioè quella attenzione alla pluralità delle manifestazioni dell'essere non riducibili ad unum; e ancora certi tipi di sociologia che esaltano il quotidiano nel senso del frammentario, delle piccole astuzie che risolvono i problemi quotidiani, della rinuncia alle soluzioni grandi... Questa è un'interpretazione più riflessa di quella che in genere si è soliti chiamare frammentazione: in fondo, si dice, l'essere è un miscuglio di bene e male, un caleidoscopio di cose che va accettato così. E' una non-esigenza di pensiero e pratica coerente, che non significa necessariamente disimpegno. E allora, in quanto distingue il totale dal frammento ed esprime l'esigenza di salvare l'individuo dalle pretese della totalità, il «pensiero debole» è una forma di «terza via», un tentativo di uscita dalla crisi, di porsi tra il «fondamento» e la progettualità pura. Ma in questo tentativo, non viene eliminato ciò che fonda, cioè il senso originario, e quindi ogni possibile relazione tra senso e individuo? Qui, mi pare, sta la debolezza del «pensiero debole ».

    LA NUOVA CULTURA NELLA RESPONSABILITÀ

    D. Si tratta allora, a quanto pare, di definire il rapporto senso-individuo in modo da non distruggere i due termini.

    R. La risposta che propongo infatti si muove sulla linea della relazione originaria tra senso e individuo: l'evento fondatore non costituisce una totalità dentro cui si muovano, come in seconda istanza, i singoli; ma è la rivelazione dell'Infinito dentro il singolo e a lui rivolta. E' solo in seconda istanza e come conseguenza che il tutto sociale e cosmico ne viene investito, in quanto condizione di vita dei singoli e luogo della loro autoespressione.
    Questo «terzo uomo» viene fuori leggendo semplicemente la tradizione ebraico-cristiana, è l'infinito-persona. Come a dire, il luogo della manifestazione dell'Infinito (che è una parola per dire il senso, il fondamento) è la persona: cioè né il sistema o la cultura o la totalità, né l'individualismo come libertà fine a se stessa.
    Il concetto di alleanza tra Dio e Israele, tra Dio e l'uomo crea un nuovo principio di identità dell'uomo: non più il fatto di essere radicato in un corpus compaginato, o al contrario di essere come una esistenza senza radici né misure, ma l'identità di vocazione, l'identità di appello. La nuova identità non è più dunque definita dal collettivo né dall'isolamento che si mette di fronte agli altri nella posizione della indifferenza o dell'antagonismo. Il «terzo uomo» è l'uomo come persona, in quanto distinto da membro della collettività e da individuo isolato; e la persona è luogo della manifestazione dell'Infinito.
    E come si manifesta l'Infinito, il senso, il fondamento? Non ontologicamente alla Heidegger, non cosmologicamente, ma eticamente (o meta-eticamente), nella parola, nell'appello, nella coscienza, nella responsabilità. Per cui la persona è essenzialmente l'individuo in quanto responsabile, in quanto chiamato a rispondere.
    Vi è una dimensione fondante, l'appello, e poi ci sono le dimensioni concrete: le relazioni con l'altro, con colui di cui sono responsabile. Bisogna intendere bene questo «altro»: non è l'uomo in quanto simile a me o in quanto entra nel mio progetto, ma in quanto diverso, appunto «altro», in quanto irraggiungibile da qualsiasi ordine di interessi e di motivazioni che possano scaturire sia dalla mia volontà di affermazione che dalla più profonda volontà naturale di reciproco rispecchiamento, sia dall'intenzionalità del dominio che dall'intenzionalità del desiderio. L'altro non è il vicino ma il lontano a cui sono chiamato a farmi vicino; è l'uomo come debolezza e vuoto, come bisogno e implorazione; l'uomo a cui potrei accostarmi soltanto in una radicale negazione di quanto sono.
    I termini che esprimono questa nuova intenzionalità possono essere quelli di fraternità, di agàpe, di dono.
    Si potrebbero ridire tutte queste cose a partire da una corretta fenomenologia dell'esperienza morale o della voce della coscienza: si arriverebbe a cogliere l'appello categorico, incondizionato, che instaura nel soggetto un senso nuovo e ridefinisce la stessa domanda sul senso nella direzione dell'alterità (del dono, della responsabilità, della giustizia).
    Questo appello incondizionato, questa percezione di un «tu devi» assoluto, che non ha bisogno a sua volta di essere fondato, è il luogo stesso del senso, perché è lì che cogliamo il valore nella sua assolutezza. Penso che le altre esperienze che a volte sono state definite portatrice del senso - l'estetica, l'esperienza amorosa... - siano soltanto percezioni di promesse di senso.

    D. Il luogo del senso , il nuovo principio della soggettività è dunque la cura, la responsabilità verso l'altro, soprattutto là dove questa diventa il fulcro di una nuova coscienza etica.
    Ma, oltre a questa responsabilità, vi sono altri luoghi significativi di scoperta o di approfondimento del senso, soprattutto da parte dei giovani oggi?

    R. Non direi tanto «oltre a questa», quanto piuttosto parlerei dei luoghi dove esplicare la responsabilità.
    Intanto, direi proprio di far perno sulla responsabilità: perché penso che molte volte i vissuti di contraddizione e oggettivamente di irresponsabilità non nascono da un declinare le responsabilità, ma forse da un non sapere dove investirla.
    Vedrei innanzitutto tre luoghi, o meglio tre culture, che sono come i tre luoghi di una filosofia (o teologia) europea della liberazione: cultura della solidarietà, cultura della pace, cultura della qualità. Luoghi dove applicare la responsabilità in senso liberante, cioè verso una trasformazione, non in senso conservante.
    Quando parlo di cultura non intendo in certo qual modo ricostruire una cultura nel senso antropologico totale, ma intendo una circolazione di modelli, un insieme di «comportamenti intonati a», e quindi intendo cultura in senso intermedio. Siamo pertanto sul piano dell'oggettivo (anche se di un oggettivo che non vuole essere totalizzante), ma con la consapevolezza di scaturire dal soggettivo.
    Qui cultura vuol dire una libertà che diventa stile di vita.

    Per una cultura della responsabilità

    D. Riprendiamo a una a una le tre culture. Cosa intende per cultura della solidarietà?

    R. In una parola, è trovare la risposta al perché, al senso, guardando agli altri, guardando a chi ha bisogno.
    Questo è un discorso molto ampio, e può essere fatto in campo filosofico denunciando la cultura dell'identità, che ha comandato tutta la tradizione occidentale e che si è espresso (amo l'altro perché è simile a me) anche in forme sottilmente sublimi. La cultura della solidarietà invece si fonda sulla consapevolezza che l'altro è altro e può essere accolto e amato nella sua alterità.
    E direi che il modo più cristiano per rispondere al problema del senso è quello di tirare fuori uno dalle domande su se stesso, e anche dalle domande sul senso. per fargli trovare il senso nell'incontro con l'altro, nel servizio all'altro.
    Per un cristiano il senso è la Parola che appella e invia all'altro, e il luogo in cui si oggettiva il senso è il servizio, la convivialità, il dialogo. E' uscire «dall'Occidente», che è già una vecchia esigenza di inizio secolo, ma non per ritrovare se stessi, o per ritrovare quella «freschezza» (il pensiero selvaggio, la natura...) con cui rifarsi la verginità di intellettuale decrepito, magari in mezzo a povera gente che muore di fame. La vera uscita dall'Occidente deve essere l'uscita dal principio che l'Occidente ha instaurato, che bisogna cercare se stessi, che l'identità bisogna cercarla dentro di sé, e che si è espressa in tante figure, da quelle più alte dell'interiorità cristiana, a quelle più meschine del curare il proprio «particolare» o i propri interessi.
    Trovare invece l'identità nell'altro, il senso nel fare un po' di strada insieme, cercandolo lì dov'è.
    Concretamente, sono d'accordo su tutto quello che oggi si chiama il volontariato, e quanto ho detto finora può essere inteso come un tentativo di fondazione del volontariato stesso.
    Il volontariato, non le caricature del volontariato, quello che si occupa degli altri dopo aver curato per otto ore i propri interessi, forse anche in maniera sporca.
    Io penso che il volontariato è davvero la possibilità veramente cristiana e veramente post-cristiana (nel senso detto prima, cioè di ciò che viene dopo la civiltà cristiana) di risolvere il problema del senso.

    Per una cultura della pace e della qualità

    D. Poi la cultura della pace e quella della qualità.
    R. Intanto la cultura della pace è molto legata a quella della solidarietà. Solidarietà dice che trovo la mia identità nell'altro; pace aggiunge che l'altro non è nemico.
    Noi abbiamo alle spalle (e dentro di noi) una sedimentazione di ricerca della nostra identità non solo isolatamente dall'altro, ma anche contro l'altro; di culture dove l'altro è il nemico, l'aggressore. Cultura della pace è quella più lucida cultura della solidarietà che cerca di abbattere, di sciogliere tutte quelle incrostazioni del rapporto all'altro come nemico, della competitività, di quelle forme ammantate di sacralità che sono «i propri diritti», quel corporativismo che è ricerca dei propri interessi rivestendoli di «lotta per i sacrosanti diritti». Una cultura dell'individuo ha bisogno sempre di essere cultura della guerra, della violenza, perché si rivestono i propri interessi di principi trascendenti: e questo vale per gli individui come per i gruppi sociali, i movimenti...
    Questo non significa che non bisogna difendere i propri diritti, rifiutare il sopruso; significa soltanto che se si tratta di costruire una cultura, non si può partire da questo principio e costruirci sopra l'ideologizzazione dell'altro come nemico da abbattere, di fronte a cui far valere i propri diritti.
    Infine la cultura della qualità.
    L'Occidente è, per la prima volta nella storia, un pezzo di umanità che a livello di massa è attestato su una piattaforma di sufficienza, che globalmente - pur con tutti i limiti di questa affermazione - non deve più lottare per la sopravvivenza, come è successo per gran parte della storia dell'umanità .
    Ogni forma di cultura, e anche ogni religione, è sempre stata legata e vista in un'ottica economica, fortemente segnata dalle condizioni economiche, dalla necessità elementare di sopravvivere.
    Oggi per la prima volta siamo in grado di sviluppare espressamente, intenzionalmente quello che è sempre stato come tra le righe: la qualità, il gratuito. Cioè quello che non è funzionale ad altro. ma è fine a se stesso: il rapporto con la natura che non è soltanto rapporto di lavoro comandato, un rapporto con la cultura intesa come «beni culturali», la fruizione di tutto quello che è la storia umana e anche un rapporto con l'altro che alla solidarietà coniuga la finzione: l'altro come bene da gustare e da godere, la convivialità, l'amicizia, la festa. Educare al gratuito è dunque educare a gustare i beni che non sono quelli di sopravvivenza; ma allo stesso tempo tutto questo interferisce sulla cultura della pace e della solidarietà.
    E' un desiderio e una speranza.


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