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    Una critica alle interpretazioni del mondo giovanile dal '77 a oggi



    Franco Ferrarotti

    (NPG 1985-9-7)


    Categoria analitica difficile e sfuggente quella di «giovani». Soprattutto in un contesto culturale dominato da ambigue generalizzazioni concettuali e da una quasi assoluta carenza di indagini empiriche.
    Parlare dei giovani nell'Italia degli anni '80 rischia di divenire un esercizio divinatorio o di scadere nel comparativismo indebito, del tipo «rivoluzione silenziosa», «anni del riflusso» e analoghe banalità.
    Conviene allora all'analista sociale attenersi alle manifestazioni concrete, alle espressioni visibili, ai «movimenti reali» che hanno scandito e scandiscono il tempo sociale dell'universo giovanile.

    IL '77: LA FINE DELLE ILLUSIONI

    Del 1977 - soprattutto del '77 bolognese e romano - si è detto e si è scritto. Se ne è richiamata l'identità, quella di costituire l'epifania spettacolare, la teatralizzazione di una crisi latente maturata nei movimenti di azione collettiva di matrice sessantottesca.[1] È col '77 che viene meno l'illusione di una traslazione diretta del «sociale antagonistico» nel politico. Arcaico e postmoderno nelle sue manifestazioni espressive, esposto a reti comunicative e mediali più ampie e più permeate dalla cultura di massa, libero dai pregiudizi élitistici del '68, il movimento del '77 segna l'epilogo di una crisi e di un superamento delle opzioni culturali e strategiche attorno a cui si era aggregata la stagione della politicizzazione dei primi anni '70.
    A differenza del '68, il '77 «vuole tutto». Non solo e non tanto il potere politico - panacea per intellettuali in crisi di status - quanto la ricchezza sociale. Una richiesta, già di per sé dirompente, che trova scarse possibilità di ammortizzamento nel precario sistema del Welfare italiano. E che, soprattutto, impatta con processi strutturali, di crescente compressione del capitale variabile impegnato nelle grandi imprese. Sono gli anni del decentramento produttivo, del lavoro nero, del precariato diffuso (e, inevitabilmente, dell'apologia del «sommerso» ). Il grande capitale, a modo suo, ha capito: riduce i costi, affolla le retrovie, prepara la stagione delle nuove tecnologie che si aprirà con gli anni '80. Quella, per intenderci, in cui «il nuovo modo di fare l'automobile» sarà affidato ai robot e finanziato dall'espulsione produttiva, con paradossale eterogenesi dei fini rispetto ai miti di cui si era nutrita la filosofia dell'operaio sociale.
    La teoria della «seconda società», pur approssimativa negli strumenti concettuali adottati, coglie l'impasse della questione, ipostatizza un sociale «diverso» e lo affida a una mediazione politica priva di gambe e di fiato. In un certo senso, è la versione speculare dei rapporti Censis e dell'apologia dell'economia invisibile o «sommersa». Il ghetto economico e quello sociologico: a far da sutura una non meglio precisata «condizione giovanile», consumata fra indotto clandestino ed Estate Romana.
    Agli uni e agli altri sfuggono il dato culturale e quello sociologico. Nel '77 si consuma, anche, un processo di estraneazione e separazione come «rifiuto della storia» e dell'intenzionalità dell'agire politico. L'equivoco ideologico dell'«operaio sociale» produce una mitologia della sovversione che ha smarrito progetto e direzione. È una chiave di lettura non secondaria del terrorismo italiano e della sua deriva.
    A dissolversi è il senso normativo del lavoro, la sua capacità unificante, la sua «idealità». Nessuna meraviglia che fra le vittime illustri di questo processo vi sia il movimento sindacale. E nessuna meraviglia che la sua costituzionale difficoltà a trovare credito e ascolto nella forza lavoro inattitra - soprattutto giovanile, femminile, intellettuale - si trasformi progressivamente in divaricazione, talvolta in conflitto.

    SCENARI DEGLI ANNI '80

    Ritengo pertanto che accontentarci di seguire la moda, adagiandoci sulla descrizione morfologica delle nuove aggregazioni giovanili, non serva allo scopo. Gli anni '80 segnano una frattura radicale, ma priva di linearità e di apparente consequenzialità. È certo vero, in altri termini, che i nuovi movimenti privilegiano, anche in Italia, aggregazioni per issues, o problemi specifici, a basso coefficiente ideologico, a raggio territoriale limitato e debole interconnessione. Ma un simile identikit non consente di individuare traiettorie sociali, non fa emergere dinamiche esistenziali operanti sotto la superficie tipologica, non rende conto della storicità dell'agire.

    Quali categorie interpretative e traiettorie sociali

    Rischiamo così la stessa deriva analitica del vecchio funzionalismo politologico, con la sua metafisica dello «sviluppo politico» e i suoi tragitti obbligati (solidarietà che si fa interesse, ecc.), sino all'irrilevanza Non possiamo, cioè, dimenticare che si sono destrutturati gli stessi sistemi di coerenza e che ogni operazione tipologica diviene in tale prospettiva vittima e complice della tentazione formalistica.
    Né mancano autori sensibili alla sirena psicologistica. Ed ecco farsi avanti la nuova parola magica: identità.
    Tutto o quasi sarebbe riconducibile a una ricerca del sé come immagine e come proiezione di bisogni profondi. Dalla P38 a John Travolta, dal «piccolo è bello» alla seconda ondata del femminismo, la chiave esplicativa è pronta e buona per tutti gli usi. Negli interstizi di un conflitto metafisico fra natura e cultura - il cui pendolo oscilla fra aspirazione egalitaria e rivendicazione di diversità - si colloca la risorsa identità. Spunto suggestivo, ma privo di capacità esplicativa reale, soprattutto per comprendere la dinamica di un universo giovanile socialmente frantumato e ricomposto solo in superficie dall'influenza omologante dei nuovi media o di stili di vita indotti dal sistema di consumo.
    In questi termini e all'interno di questa ottica interpretativa, il bisogno d'identità diviene, di volta in volta, resistenza all'omologazione (e la condizione giovanile finisce per assimilarsi a quella di una minoranza etnico-linguistica, di una «nazione senza stato» ) oppure, simmetricamente, serve a spiegare dinamiche di parcellizzazione economica, impulsi a sperimentazioni alternative (self-help, volontariato), persino vocazioni alla marginalità. Spiegazioni troppo estensive e fungibili per spiegare - o, meglio, per comprendere - davvero qualcosa.

    Una lettura «culturale» e sociale

    Il nuovo universo giovanile va indagato proprio a partire da una critica del formalismo e delle astrazioni concettuali. Va, cioè, de-metafisicizzato e declinato storicamente. Lavoro che non si presenta facile né di sicuro successo. Ma se prescindessimo da una lettura votata alla decifrazione paziente delle intersezioni fra trasformazioni socio-economiche in atto e dinamiche culturali emergenti - nell'accezione propriamente antropologica di «cultura» - per inseguire schemi preconfezionati, faremmo di peggio che negarci la comprensione scientifica dei fenomeni in atto. Perché avalleremmo, ancora una volta, la confusione fra etica ed estetica dei comportamenti collettivi - confusione che è da sempre una tentazione caratteristica della intellighentsia italiana. Tentazione tanto più gravida di effetti perversi per una società nazionale che ha conosciuto l'industrializzazione senza sviluppare una vera cultura industriale, e in cui la weberiana «etica della responsabilità» si è tradotta spesso in culto e difesa del «particulare», in ideologia e pratica della corporazione, se non dello spirito e della pratica di mafia.
    Chi può dire, per esempio, quanto questa confusione abbia contribuito ad alimentare pulsioni irrazionalistiche e drammatiche «fughe dal compito», di cui la parabola del terrorismo può essere rappresentazione?
    Sotto questo angolo visuale, può aver ragione chi nega la contraddizione fra «tempo delle mele» e «anni di piombo». A patto, però, che la sovrapposizione di fasi esistenziali vissute in un indistinto contesto generazionale, non perda di vista - per amore di metafora e gusto del paradosso - la trama decisiva. Il post- '77 inizia forse soltanto con l'omicidio di Moro. È il «parricidio simbolico» che liquida l'ingombrante eredità del '68. Il re è nudo. Il Palazzo è abitato da fantasmi. L'utopia del contropotere ha scelto la propria condanna. Criminalizzata dalla spirale del terrorismo tardivo e privatizzata nella versione ancillare che ne propone la cultura politica neoradicale, l'utopia declina. E, con essa, un altro dei significati mitopoietici, un altro dei valori unificanti.[2]

    LA CONDIZIONE GIOVANILE OGGI: UN QUADRO INTERPRETATIVO

    Le generazioni giovanili che si affacciano agli anni '80 vivono - e, ovviamente, soffrono - un'anomia diffusa.

    Un'analisi economica e politica del periodo

    Situazione, va detto, non solo italiana, ma che nel caso italiano si carica di implicazioni e tensioni in gran parte peculiari. Perché l'Italia sperimenta processi di riconversione produttiva e dell'intero sistema economico qualitativamente diversi che altrove. Il collante del tacito patto sociale stipulato negli anni dell'austerità e della solidarietà nazionale è sempre più debole, ma sufficiente a fornire un minimo di protezione ai lavoratori «garantiti», in cambio di mano libera alle aziende nella fase della ristrutturazione. A saldare i conti ci sono il debito pubblico e la marea montante di giovani condannati alla disoccupazione. La legge fissa, forse per la prima volta nella storia, la categoria anagrafica di gioventù. Per la famigerata legge «285» essa ha termine a 29 anni. Sarà la prima generazione ad accedere al lavoro in età «non giovanile»...
    Gli anni '80 inaugurano però altri scenari, oltre la dimensione economica che pure rimane essenziale nell'analisi del periodo. Scenari per alcuni inquietanti. Si parla di militarizzazione strisciante dell'apparato istituzionale, in nome dell'emergenza terroristica. Esagerazioni polemiche e non prive di venature paranoiche. Ma come dimenticare le ombre inquietanti delle stragi impunite, dei poteri occulti, di una questione carceraria che coinvolge ormai migliaia di detenuti «politici», un numero paragonabile e forse superiore a quello ospitato nelle galere spagnole o nord-irlandesi? Fatti e situazioni che pesano sulla quotidianità, sul senso comune, su quella che chiamerei l'«autopercezione» di una società, specialmente di un settore strutturalmente fragile della società, come il mondo giovanile. L'esasperazione dei miti adolescenziali di ritorno, la rabbia e la violenza che pervadono tanto le relazioni intersoggettive quanto le condotte di aggregato - si pensi al tribalizzarsi del tifo sportivo - vanno collocati su questo fondo. Così si può ironizzare, ed è stato fatto, sull'esperienza di vita di una generazione in cui sono i padri a imitare mode e stili di vita dei figli. Certo è, però, che dietro l'ironia si cela una crisi e un declino ulteriori dei riferimenti esistenziali, con una crescita dell'insicurezza collettiva.[3]

    Trame e condizionamenti sociali

    Tanto più, lo ripeto, in un paese per alcuni tratti atipico nel contesto occidentale. L'Italia è il paese dove il malthusianesimo demografico arriva più tardi, ma con maggiore accelerazione dei fenomeno: la struttura della famiglia tradizionale, i suoi stessi modelli comportamentali, sono sconvolti nell'arco di un decennio. In meno di cinque anni la struttura produttiva si trasforma e la produttività industriale per addetto si impenna in parallelo con una dolorosa riconversione occupazionale. In nessun altro paese, proprio per la dimensione che il fenomeno ha assunto nell'Italia a cavallo fra gli anni '70 e '80, il tentativo di fuoriuscita dalla stagione del terrorismo ha implicazioni così ampie e inquietanti. Si pensi al caso del pentitismo - con i suoi corollari etico-ideologici che fanno velo alla fredda razionalità del diritto - o a quello, emergente, della dissociazione come «critica del decennio» e messa a nudo di un conflitto rimosso, ma forse non risolto. E, soprattutto, l'Italia è il paese in cui continua a difettare il filtro politico capace di fornire risposte al sovraccarico quantitativo e alla metamorfosi qualitativa della domanda sociale, espressa dai movimenti degli anni '70.
    Non è un caso, mi sembra, che il decennio in corso si apra col biennio del silenzio: all'intensificarsi dei processi adattivi del sistema economico e alla persistente vitalità culturale della società fa riscontro un minimo storico delle iniziative di massa. E i giovani sembrano i più refrattari a intraprendere la strada della mobilitazione collettiva, anche quando sono in gioco interessi vitali. La fiammata pacifista ed ecologista è, infatti, del tutto riconducibile alla strategia dell'«evitamento» descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi. È riappropriazione di una razionalità difensiva, quasi istinto di conservazione nutrita da inclinazioni al fondamentalismo che non può trovare saldatura se non contingente con le stesse organizzazioni della sinistra e la loro memoria storica.
    Continuano a funzionare, invece, filtri informali, privatistici o clientelari, di accesso, selezione e aggregazione delle domande individuali e collettive, in presenza di un sistema politico bloccato e incapace di autoriforma. Di un sistema in cui si rincorrono e si sovrappongono la crisi dello stato liberale di diritto e quella dello stato sociale contemporaneo.

    Il disincanto dei giovani come spia delle contraddizioni sociali e ricerca di nuove vie

    Il deflusso dei movimenti e la crisi dell'universo giovanile trovano spiegazione in un contesto politico che riesce a destrutturarsi senza perdere la sua rigidità. Per questo il disincanto degli anni '80, malgrado tutto, è forse ancora carico di una critica radicale - forse solo potenziale - dei sistemi e degli apparati del potere. La condizione giovanile è spia della contraddizione. Proprio nel suo essere politicamente e disperatamente «apolitica». Nel suo essere, cioè, immagine di figure sociali talmente deboli da non potere essere neppure «integrabili». Una contraddizione che ha in sé coscienza dell'oppressione, ma anche bisogno di progettualità. Un disincanto che potrebbe riscoprire la speranza. Per spingere l'analisi al di là del puro dato sociografico, tuttavia, è necessario uno sforzo interpretativo che non si limiti né si contenti della conferma dell'ovvio. In comportamenti che possono apparire alla survey classica irrilevanti quantitativamente e quindi marginali, accade che si celino i semi dell'avvenire, si diano straordinarie possibilità di sviluppo strategico futuro. Il nesso fra marginalità e creatività non va mai sottaciuto né sottovalutato. Ho notato altrove (specialmente in Cinque scenari per il 2000, Roma-Bari, Laterza, 1985, p.161) che gran parte delle ricerche odierne sui giovani finiscono per essere patetiche poiché sono di fatto inconsapevolmente fuorvianti. Esse tendono a scorgere nei giovani le vittime del cosiddetto «riflusso», interpretato come uno sprovveduto ritorno al privato, mentre i gruppi giovanili odierni sono alla ricerca di una nuova socialità, ossia di un individualismo socialmente orientato e consapevole. Essi costituiscono l'avanguardia della nuova oralità nell'epoca dell'espressività spontanea e della solidarietà non più militante, bensì lucida. Ho già osservato che la società gruppocentrica di domani non si presenta con soluzioni prefabbricate. Il dilemma è chiaro: da un lato, il rischio dell'infantilismo di massa e del conformismo generalizzato, ma, dall'altro, la possibilità di realizzare le potenzialità di ogni individuo, di dar corso ad un nuovo individualismo, non più nemico della socialità, capace di riconoscere e accettare l'alterità degli altri.[4]


    NOTE

    [1] Mi si consenta di rinviare il lettore in proposito alla mia ricerca Giovani e droga, Napoli, Liguori, 2a edizione 1981.
    [2] Si vedano in proposito, per una analisi che si propone di investire dialetticamente fondamento strutturale e piano ideologico-simbolico, i miei Alle radici della violenza, Milano, 1980; L'ipnosi della violenza, Milano, Rizzoli, 1981.
    [3] Ho rilevato questo dato specialmente in «Nostalgia dell'autorità», saggio d'apertura del volume collettaneo In nome del padre, Roma-Bari, Laterza, 1984.
    [4] Cf Cinque scenari per il Duemila, cit., pp. 167-168. Fra le ricerche recenti sui giovani, una felice eccezione, anche per via del metodo delle storie di vita adottato, è costituita da G. Lutte, R. De Angelis, L. Giuliano, G. Pantosti, M.L. Solimena, D. Visca, I giovani e le istituzioni - i giovani sono diversi, Roma, Editrice Ianua, 1984.


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