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    Per ritrovare la pace tra l'uomo e le cose



    Armido Rizzi

    (NPG 1984-10-11)


    Le note che seguono non vogliono (e non possono) essere più di un «indice ragionato» su quello che è certamente uno degli argomenti più suggestivi e insieme più intricati. Procederemo in tre momenti: una fenomenologia dei diversi livelli di realtà presenti nelle cose e nel loro rapporto con l'uomo; una patologia, cioè l'indicazione di alcuni disturbi che, nel rapporto uomo-cose, si verificano ai diversi livelli; una profezia, che individui nel presente i fronti su cui battersi perché quel rapporto raggiunga la sua statura piena.

    LE DIMENSIONI DELLE COSE

    Non è certo per la magia del numero tre che ravvisiamo nelle cose una triplice dimensione, cui corrisponde la triplice loro relazione con l'uomo.

    Dimensione pragmatico strumentale

    Le cose sono anzitutto strumenti che servono all'uomo per il raggiungimento dei suoi scopi, e diventano quindi momenti interni alla sua prassi. Noi non guardiamo alle cose prima come realtà-in-sé, per poi impugnarle e servircene; il nostro primo incontro con esse è la prospettiva interessata, funzionale, entro cui spontaneamente e originariamente le collochiamo.
    È stato Heidegger, nella sua grande opera Essere e Tempo, a richiamare questa verità, dimenticata da una tradizione di pensiero che nelle cose vedeva prima di tutto delle «sostanze» che si presentano al pensiero nella loro identità metafisica e soltanto in seguito vengono considerate nella loro utilità.
    Contro questa visione, che privilegia nell'uomo la componente teorica, Heidegger ha ricordato, in una pagina famosa, che «la foresta è piantagione, la montagna è cava di pietra, la corrente è forza d'acqua, il vento è "vento in poppa"»[1]: in una parola, che nel mondo siamo attori prima che spettatori, operatori prima che teorici.
    La ragione di questo è che l'uomo si trova definito, nella sua più elementare costituzione, come essere di bisogno; ma, a differenza degli animali, non può soddisfare il suo bisogno se non articolandolo in un progetto, cioè nel disegno intenzionale mezzi-fine, strumenti-scopi. A sua volta il progetto si fa esecuzione attraverso il corpo come strumento primo («strumento congiunto» dicevano i medievali), soprattutto attraverso la prensilità delle mani. Ecco: bisogno-progetto-corpo: è questo l'arco intenzionale che anticipa nella struttura antropologica l'incontro con le cose. È l'orizzonte della techne, di quell'elementare tecnica di dominio del mondo, senza la quale l'uomo sarebbe sopraffatto da ciò che lo circonda e l'umanità si sarebbe estinta fin dal suo primo rappresentante. È quella che oggi molti chiamano «cultura materiale»: l'ordine degli strumenti approntati per il controllo della realtà, cioè in ampia (e, fino a ieri, quasi totale) misura per la sopravvivenza.

    Dimensione gratuita

    I bisogni dell'uomo non sono mai soltanto oggettivi (per esempio: fame come necessità di cibo) ma sempre anche bisogni vissuti (fame come appetito). C'è un legame «viscerale» tra l'uomo e le cose, che è alla base del loro stesso rapporto funzionale. Ma tale legame, come quello del neonato con la madre, non è ancora «umano»; è una specie di simbiosi, dove l'uomo è pura istintività e le cose pure sensazioni (gradevole/sgradevole): a questo livello l'uomo non è ancora uomo e le cose non sono ancora cose.
    Tuttavia, come nel legame simbiotico bambino-madre si annuncia in qualche modo prefigurato il loro futuro rapporto intersoggettivo, così nel vissuto di ogni bisogno si annuncia un ordine di bisogni superiori, che si dirige alle cose non più come focolai di sensazioni né come strumenti per degli scopi, ma come «beni gratuiti», realtà amabili e fruibili per se stesse.
    Possiamo dire che, aldilà della necessità di sussistenza, c'è nell'uomo un bisogno di vita, cioè di qualità, di bellezza; e che le cose, oltre ad aiutare l'uomo a sopravvivere, gli si offrono perché egli possa vivere. O possiamo anche dire che, dentro tutti i bisogni parziali e aldilà di tutti gli scopi che l'uomo si dà, agisce in lui un bisogno di senso, e che le cose soddisfano questo bisogno presentandosi all'uomo non come strumenti ma come valori, dentro un orizzonte non più comandato dal progetto, dalla techne, bensì dalla recettività, dall'eros.
    Valori od oggetti gratuiti sono per esempio i «beni culturali», cioè tutti quei prodotti dell'industriosità umana in cui, oltre al carattere strumentale, di uso pratico, è presente almeno una traccia di bellezza. Valore gratuito è la sessualità come luogo d'incontro di due soggetti umani nella ricchezza insieme fisica e simbolica della corporalità; o anche, più ampiamente, l'amicizia come relazione in cui sono coinvolte armoniche molteplici dell'affettività. Ma c'è anche una gratuità del necessario: mangiare non è soltanto soddisfare un'esigenza biologica ma, in molte culture, stabilire con la terra e con i commensali un rapporto di solidarietà che ha una sostanziale connotazione religiosa.
    Il gratuito non è dunque soltanto una classe di cose accanto all'altra classe, del necessario; è davvero una dimensione di ogni cosa, che l'uomo trova cronologicamente dopo la dimensione strumentale ma che è ontologicamente prima di essa.

    Dimensione «spirituale»

    Indico con questo nome quella caratteristica della realtà che trova la sua espressione matura nei documenti della tradizione biblica.[2]
    L'uomo della bibbia vede nelle cose - sia strumenti che beni gratuiti - un dono che Dio gli fa, un frutto della sua parola creatrice (benedizione); così che esse gli portano, insieme con la loro utilità e la loro bellezza, la testimonianza dell'amore personale che le genera e le porta. L'orizzonte ultimo delle cose non è né la techne né l'eros: è la charis, la grazia. Dietro la stessa gratuità delle cose (il loro valore-in-sé) c'è la gratuità di chi le offre (la sua iniziativa di puro dono); dietro la bellezza naturale e culturale degli oggetti c'è la bellezza della bontà personale da cui esse ultimamente scaturiscono.
    A questa dimensione radicale delle cose corrisponde nell'uomo la dimensione della fede, in un'accezione altrettanto radicale che non va confusa con l'una o l'altra delle religioni ma è la base comune a tutte, ed è la dimensione religiosa presente anche in molti che non appartengono a nessuna confessione istituzionale. La fede è accogliere il mondo come grazia, e dunque dire «grazie» a chi lo dona, comunque egli venga pensato o chiamato. «Grazie alla vita che mi ha dato tanto... mi ha dato gli occhi per le forme e i colori, l'udito per i suoni e i rumori, la parola e l'abbecedario, i piedi per percorrere il mondo; mi ha dato cuore e cervello, riso e pianto; mi ha dato un uomo da amare»: così cantava Violeta Parra, pur condividendo l'oppressione del suo popolo cileno.
    Si noti che, mentre le due dimensioni precedenti rispondono al bisogno dell'uomo e vengono definite a partire da esso, in quest'ultimo caso è l'uomo a rispondere a un'iniziativa da cui si riconosce anticipato. E tuttavia quest'iniziativa non gli porta, essenzialmente, una «altra vita», una sorta di beni ulteriori e superiori; gli regala questa vita, nella ricca varietà della sua rispondenza ai bisogni umani. Perciò la fede trascende i bisogni non in direzione dell'alto ma del profondo: nel riconoscere che essi, insieme con i beni che li colmano, vengono da un principio buono, a cui è possibile e giusto affidarsi.
    Ma il dono non è soltanto l'origine delle cose; è anche la loro destinazione. Esse sono fatte sì per i bisogni dell'uomo; ma di ogni uomo. La gratuità divina da cui le cose provengono vive in esse come legge, come esigenza a essere vissute dall'uomo con lo stesso animo di gratuità. E il corrispettivo umano di questa esigenza della fede radicale è l'amore altrettanto radicale: la giustizia. Giustizia è dare a ognuno il «suo»: quel suo che spetta a ogni uomo perché Dio - la vita, l'essere, la natura... - gliel'ha destinato.
    Il rapporto tra l'uomo e le cose raggiunge la sua pienezza quando arriva a quel livello che, avvolgendo i due precedenti, realizza la completa riuscita del mondo: che tutti sopravvivano e tutti vivano in forza dello scambio dei doni da parte di tutti. Ognuno donatore e ognuno fruitore: ecco il desiderio più profondo inscritto nel cuore delle cose, la loro sostanza «spirituale».

    PATOLOGIA

    Ognuna delle dimensioni brevemente descritte può presentare, e di fatto presenta, aspetti patologici, che consistono nello squilibrio del rapporto con le altre, dovuto a un eccesso o a un difetto di sviluppo.

    Il tecnologismo e il naturalismo

    La dimensione strumentale raggiunge nella tecnologia proporzioni ipertrofiche, come ormai sappiamo anche troppo bene. Ma è anzitutto il caso di ribadire che la componente tecnica non può né deve essere eliminata dall'esistenza dell'uomo; e componente tecnica vuol dire dominio sul mondo, capacità di muoversi tra le cose in modo da rendere il mondo abitabile per l'uomo. Lo strumento prolunga la mano, la macchina prolunga lo strumento: la storia dell'umanità consiste in buona parte in questo sviluppo della sua capacità di presa sulle cose.
    Chi ne nega la legittimità in nome di un naturalismo totalizzante dovrebbe rifiutare non solo la civiltà industriale ma anche le culture preindustriali, come l'agricoltura e la caccia, che comportano l'intervento sul tessuto naturale (vegetale e animale), e accettare soltanto la cultura della raccolta. Ma la scoperta della «natura» fa tutt'uno con l'invenzione dell'agricoltura, cioè dell'attività dell'uomo dentro la natura stessa e su di essa. Per il raccoglitore la terra è suolo, terreno inerte su cui prendere i frutti bell'e fatti; per l'agricoltore la terra è grembo vivo, da cui i frutti nascono («natura» viene da nascere) e nella cui gestazione attiva l'uomo può intervenire. Il naturalismo spinto, in quanto rifiuto della tecnica, è una patologia per difetto nel rapporto tra l'uomo e le cose.
    Ma ben più grave è oggi il suo contrario: la tecnologia. Intendo per tecnologia quella visione del mondo (sia essa teorizzata o anche solo esercitata nella pratica) che considera le cose come puri strumenti della prassi umana, pure funzioni in ordine al conseguimento degli obiettivi che l'uomo si prefigge. Strumenti come utensili o, prima ancora, strumenti come dati, come materiali dell'azione e del futuro prodotto. Qui la tecnica, l'intervento dell'uomo, assurge a logos della realtà: prima di quest'intervento non ci sono cose reali, formate, compiute, ma soltanto pezzi e ritagli per la possibile costruzione; l'unica cosa reale è l'oggetto fabbricato: l'essere si identifica con il marchio di produzione.
    Viene così cancellata dalle cose la dimensione del gratuito e dall'uomo la dimensione di recettività e di fruizione. Il carattere esplicitamente distruttivo che ha la tecnologia quando viene rivolta alla produzione delle armi nucleari, è il disvelamento della logica intrinsecamente distruttiva che essa porta in sé quando assurge a principio ultimo del rapporto tra l'uomo e le cose.

    Il consumismo e l'aristocratismo

    Ma la fruizione non è il sanatutto. Anch'essa ha le sue malattie. Il consumismo è un guasto interno al rapporto fruitivo tra l'uomo e le cose, è un tarlo insediato al livello del gratuito. Si potrebbe dire che esso consiste nel trattare i beni di vita (valori, qualità) come se fossero beni di sopravvivenza: assimilandoli attraverso la loro distruzione; appunto, consumandoli. Inoltre il consumismo implica una dismisura: anche nella fruizione dei beni necessari esso avanza un'esigenza che va ben oltre il necessario. In una parola: il consumismo è il culto della quantità: quantità di oggetti e quantità (= intemperanza) della loro consumazione. Per questo attenta alla qualità, la deforma, la svuota.
    Ma c'è, anche qui, una figura patologica antitetica: l'aristocraticismo. È il culto della qualità per se stessa, ignorando che essa è destinata all'uomo, a tutti gli uomini. Di fatto, il culto della qualità senza l'attenzione ai suoi destinatari comporta inevitabilmente il carattere elitario di questi, il loro numero ridotto, con l'esclusione degli altri, della maggioranza.
    Un tempo erano i liberi a poter coltivare le attività gratuite (la «contemplazione») perché mantenuti dal lavoro degli schiavi; poi sono stati i prìncipi, poi la borghesia. Così il carattere aristocratico degli oggetti («ariston» vuol dire molto buono, eccellente) si è coniugato alla situazione aristocratica dei fruitori (gli «aristoi»: i «pochi ma buoni»).
    Ciò che qui viene negato è la terza dimensione delle cose: la loro essenza di dono, la gratuità amorosa che le sottende e le dà a tutti.

    Lo spiritualismo

    Ma c'è anche una patologia di questa terza dimensione, ed è quando l'intenzionalità «spirituale» delle cose si trasforma in spiritualismo. Allora esse perdono la propria consistenza e vengono estenuate a puri simboli dei «beni invisibili»: il pane diventa la parola di Dio, la sessualità un'immagine dell'Alleanza, gli occhi una metafora della fede, e così via.
    Ora, se è vero che fa parte della ricchezza delle cose anche la loro capacità simbolica, non è meno vero che il primo simbolismo, ad esse connaturale, è di esprimere da parte di ognuna la variopinta relazione con il tutto, e poi di annunciare la presenza personale che le produce e le dona.[3] Il simbolismo proiettivo, che dai beni visibili passa agli invisibili, è una componente ulteriore, che non va negata ma neppure ha diritto, a sua volta, di negare le altre o di metterle in ombra.
    C'è più di una tradizione religiosa che ha in comune con la tecnologia, sia pure per ragioni diverse, la svalutazione delle cose nella loro qualità intrinseca e della fruizione di essa da parte dell'uomo.
    Le cose sono pure apparenze, sono «vanità», sono caduche, non riempiono il cuore dell'uomo: questi e altri motivi legati alla «fuga mundi», in Oriente o nella tradizione cattolica, provengono da spiritualità che hanno perso il senso autentico della spiritualità delle cose, di quella loro alleanza con l'uomo che reciprocamente li salda e li definisce.

    PROFEZIA

    Se leggiamo i segni dei tempi, cioè l'appello che l'oggi ci rivolge e la grazia che ci dona, possiamo individuare soprattutto due indicazioni: una interna all'Occidente, l'altra nel rapporto con il Terzo Mondo.
    Per la prima volta nella storia dell'uomo l'Occidente si trova ad aver risolta su larga scala il problema della sussistenza, offrendo alla quasi-totalità della sua popolazione una quantità di beni sufficiente a farla emergere dall'indigenza. Questa situazione mette l'uomo di fronte a una possibilità e a un compito inedito: reinvestire nella acquisizione dei beni gratuiti le energie fino a ieri necessariamente spese nella lotta per i beni di sopravvivenza.
    È questa la vera rivoluzione culturale: chi si è conquistato il pane deve ora conquistarsi la bellezza, l'amicizia, la conoscenza, la convivialità.
    Rivoluzione, non semplice evoluzione perché questo risultato non verrà da sé: sarà frutto di una scelta di civiltà, o non sarà. Privilegiare la produzione di beni secondo il principio della quantità, piegando a questo obiettivo gli stessi beni gratuiti (come fa l'industria culturale), oppure sostituire al principio-produzione il principio-educazione, che abiliti tutti alla riappropriazione del patrimonio naturale e culturale dell'umanità: è questo il bivio di fronte al quale ci troviamo.
    Ma la piattaforma di sussistenza raggiunta dall'Occidente non fa che rendere più vistoso e scandaloso il divario con quella parte di umanità che ne è ancora priva. Il rapporto tra l'uomo e le cose resterà ferito a morte finché la maggior parte degli uomini non avrà sufficienza di cose. Anche qui siamo di fronte a una situazione tipica del nostro presente, a un segno dei tempi: la destinazione universale dei beni, che fino a ieri restava, in certa misura, un principio astratto a causa della difficoltà degli scambi a distanza, diventa oggi istanza concreta in ragione dell'orizzonte planetario che penetra ormai nel nostro stesso quotidiano.
    Se dentro l'Occidente si tratta di conquistare sul piano generale il secondo livello del rapporto con le cose - il primato del gratuito -, nella relazione tra Occidente e Terzo Mondo si tratta di accettare e vivere la radicalità del terzo livello nei confronti dei primi due: soltanto lì dove beni strumentali e beni gratuiti vengono investiti dal movimento della solidarietà universale, lì dove diventano beni «spirituali», il rapporto tra l'uomo e le cose raggiunge la figura compiuta dell'alleanza.


    NOTE

    [1] Essere e Tempo, Milano 1953, p. 83.
    [2] Questo non vuol dire che essa abbia valore soltanto per chi aderisce a questa tradizione come a propria confessione di fede; si può anche leggere la bibbia come grande testo culturale, dove è sedimentata un'esperienza della realtà che può essere condivisa anche senza l'appartenenza confessionale.
    [3] Ho sviluppato questo pensiero in: Per un simbolismo del quotidiano, in: Terra paese dell'uomo, Sotto il Monte 1983, pp. 133-146.


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