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    Apprendere nel gruppo giovanile ad essere donna



    Giancarlo De Nicolò

    (NPG 1984-7-25)


    Questo documento è frutto di una serie di incontri con educatori ed animatori di gruppi giovanili: Paola Cara, Cristina De Luca, Giancarlo De Nicolò, Franco Floris, Maria Mannino, Stella Morra, Paola Pellegrino, Agnese Pompei.


    Le linee educative proposte negli interventi di Bellenzier e Sutera impostano il quadro di fondo su cui si deve muovere ogni altro intervento educativo: esse infatti richiamano all'essenziale e a ciò che in definitiva fonda ogni possibile educazione di persone: l'autonomia, la responsabilità, il rapporto relazionale. E valgono anche come proposte fatte ai gruppi ecclesiali, in quanto luogo dove le persone crescono, maturano, si rendono capaci di rapporti corretti con le altre persone, con la realtà.
    È tuttavia possibile, a livello operativo, una specificazione delle proposte stesse, una loro «storicizzazione». Esse infatti devono essere ridette nei termini più vicini ed adeguati alla realtà dei gruppi giovanili ecclesiali: i quali non vivono in astratto, ma vivono nell'oggi storico, con certi specifici problemi, in concrete situazioni, con particolari difficoltà e modi di uscirne.
    Una premessa fin d'ora chiarisce questo intervento: esso offre una proposta che, se è valida per le adolescenti e le giovani dei gruppi, non è tuttavia specificamente coniugata al femminile. Riteniamo anzi che le proposte offerte valgano come linee educative per il gruppo giovanile nel suo insieme. Questa è già una precisa presa di posizione, e una scelta educativa: lo «spazio donna» lascia il posto ad uno «spazio persona» nel gruppo; non crediamo ad un modello educativo che va bene per le ragazze, e ad uno diverso per i ragazzi, pur accettando momenti specifici di formazione, soprattutto su alcuni temi o in alcuni momenti particolari.

    L'ANALISI CHE «TIRA» LA PROPOSTA

    Viene assunta in pieno l'analisi storica, sociologica e psicologica offerta dall'articolo di Morra e dai vari studi di Bellenzier (cf dossier luglio/agosto 1983): essa offre una visione d'insieme del movimento femminista, dell'influsso da esso esercitato sulle giovani, dei modelli via via offerti di formazione della giovane, del nuovo modo con cui le ragazze oggi si pongono davanti ai problemi su cui tempo prima avevano battagliato le loro «sorelle maggiori».
    L'analisi presenta dunque, in generale, un orizzonte che per molti versi può dirsi di incertezza, di disorientamento, quando non di crisi, che convive con alcune presunte (?) sicurezze offerte da certe appartenenze, da certi modelli imposti o seguiti dall'accettazione di certi condizionamenti, e anche da una certa «conquista» di libertà. Sono tuttavia sicurezze che ben presto devono fare i conti con il clima di «crisi» che si vive, e che funziona come lo sfondo che prima o poi riesce ad «avvelenare» qualunque certezza acquisita o presunta libertà conquistata.

    I gruppi giovanili e la politica dello struzzo

    Un giudizio globale sull'insieme dei gruppi giovanili non può certamente essere detto in poche battute: esigerebbe l'attenzione a molte componenti, soprattutto sociologiche e psicologiche.
    Tuttavia è proprio la funzione stessa «psicologica » dei gruppi come loro ragione d'essere che oggi fa problema.
    Il gruppo, di qualunque tipo esso sia, ha anzitutto una funzione socializzante, non solo come piccolo mondo in cui vengono mediati e sperimentati significati e modelli di comportamento da apprendere, ma anche come «ambito vitale caldo» che permette senza traumi il passaggio dalla famiglia al rapporto con il mondo della società e delle istituzioni. Esso quindi tende a funzionare come un «filtro» che attenua, smorza i problemi più ampi, i conflitti, tutto ciò che nel mondo di «fuori» potrebbe sconvolgere la progressiva crescita del giovani.
    Ma tale funzione protettiva del gruppo oggi non paga più a sufficienza: ben presto il giovane è costretto a buttarsi «al di fuori», la crisi lo tocca in molti altri ambiti di vita, nella famiglia o nella scuola, soprattutto nell'esperienza di lavoro negato o non adeguato. E si ritrova così investito in pieno dalla crisi, ma sprovveduto, senza adeguate capacità di affrontarla, di battersi.
    Ora, è proprio il rifiuto, o almeno la poca attenzione al problema, di prendere sul serio la crisi o di lasciarsi coinvolgere da essa (che non è solo economica, ma sociale, culturale) da parte dei gruppi giovanili e dei loro membri, che sembra uno dei dati più preoccupanti, più interpellanti.
    Le spie più evidenti di questa situazione possono essere ravvisate nei vari tentativi di circoscrivere l'esperienza del giovane (specie se adolescente) ad un unico ambito: sportivo, culturale, religioso... Come se bastasse rispondere a qualche esigenza o bisogno del giovane per «prepararlo» all'ingresso nella società. In ogni caso poi il giovane stesso si accorge ben presto che soltanto attraverso molteplici appartenenze egli trova risposta ad altre sue esigenze.

    Le finte oasi di pace dei gruppi ecclesiali

    La situazione dei gruppi giovanili ecclesiali, per certi versi, sembra ancor più preoccupante, rispetto agli altri gruppi giovanili, quanto al fare i conti con la crisi.
    Non si tratta del solito vezzo di autocritica spietata o persino esagerata che talvolta prende chi lavora in ambito cattolico, quanto piuttosto di lasciarsi interrogare da certi fatti, o almeno da certi rischi che facilmente si corrono in tali ambienti.
    Vi è anzitutto una certa convinzione, perlopiù inconscia, da parte dei membri di questi gruppi, a considerarsi «fuori dalla bagna», a ritenersi diversi da chi è «fuori», a sentire che «dentro» si è maggiormente al riparo e al sicuro. Come se esistesse un tranquillo dentro e un pericoloso fuori, a cui l'appartenenza ai gruppi ecclesiali in qualche modo desse riparo.
    Ma il «fuori» non esiste: le persone che vivono fuori o dentro sono le stesse, avvertono gli stessi problemi, vivono le stesse difficoltà o angosce, hanno gli stessi interrogativi sia sul presente che sul futuro. Se al giovane cattolico è mancata finora la «coscienza dolente» che ha caratterizzato l'esperienza di altri giovani, sembra che ora le carte si siano rimescolate: nessun luogo è più in grado di offrire troppo facili sicurezze o zone di riparo: la crisi butta giù ogni muro di protezione, mette in discussione valori o sensi ultimi, risucchia in un vortice di insicurezza e di paura.
    Ma se è vero che il giovane avverte ora lo sconvolgimento, non è sempre altrettanto vero che le istituzioni (e i gruppi in esse) si sentono coinvolti o prendono coscienza della realtà.

    E la giovane donna dei gruppi ecclesiali?

    Forse è proprio la giovane donna quella che avverte con maggior acutezza la crisi generalizzata.
    Per lei infatti la crisi è obiettivamente aggravata, sia come giovane che come donna, e riflette difficoltà e contraddizioni in campo sociale e personale.
    Basti pensare all'effettiva difficoltà di inserimento nel mondo lavorativo (e quindi, attraverso di esso, ad una possibile nuova presenza nel sociale), al peso degli stereotipi culturali, alla difficoltà di emancipazione. Problemi che evidentemente non sono risolti dal «ritorno a casa» che sembra per certi versi attraversare la nuova esperienza femminile. Soggettivamente tale esperienza è vissuta o come dramma avvertito e sofferto, o viene rifiutata attraverso l'assunzione di modelli consumistici o in una appartenenza al gruppo rassicurante e «alienata».
    La mancanza di una prospettiva educativa, per la giovane, che effettivamente faccia i conti con la crisi che si respira nell'aria è presente anche nei gruppi ecclesiali, e si mostra soprattutto nella tendenza a porre come centrali tematiche e problemi che hanno a che fare specialmente con l'identità personale (il che implica una concentrazione sul sé), con il rapporto ragazzo-ragazza (una piccola apertura del sé), con l'adeguamento a modelli (comprese certe spiritualità mariane) che sono astorici, astratti, acritici.
    Quando poi l'impatto con la realtà della vita diventa inevitabile, la giovane è sprovveduta, non possiede gli strumenti necessari per affrontare la realtà nella sua durezza.

    SENTIERI DI EDUCAZIONE

    Proponiamo alcuni «sentieri» che in qualche modo affrontano i nodi problematici presentati. Sono appunto sentieri, non strade già collaudate e sicure. Essi sono tracciati mentre li si percorre, sono segnati se sono in molti a tentarli.

    Qualche postulato come premessa

    È ormai chiara la consapevolezza che ogni possibile «soluzione» al problema dello «spazio donna» va ricercata negli ambiti della politica e del mutamento culturale, cioè in un'effettiva volontà decisionale che muti il peso delle forze in gioco, e in un mutamento di sensibilità, di valori (di cultura, appunto).
    Il che è come dire che non ci si aspettano novità a breve termine. Tuttavia pensiamo che la scelta della «via dell'educazione» è decisiva, forse l'unica oggi possibile, per far maturare la coscienza dei problemi, iniziare una certa sensibilizzazione, far chiamare per nome il disagio, far sì che siano sempre più coloro che l'avvertono e cercano vie d'uscita.
    Dire: «scelta della via dell'educazione» è però ancora restare nel generico.
    Quella che presentiamo è una definita scelta di campo, rischiosa e discutibile, ma che ha il sapore della sfida e della profezia. In una parola si potrebbe dire che la scelta dell'ambito è il gruppo.
    Quindi si rinuncia fin dall'inizio a fare un discorso educativo separato, che propone piste educative alla sola ragazza o a gruppi di ragazze, che punta sull'autocoscienza o sulla rivendicazione o sullo specifico, che ricerca nella direzione psicologistica dell'autocomprensione del sé o della propria emarginazione la ridefinizione dell'identità.
    La ricerca di una nuova comprensione di sé è invece nella direzione della maturazione della persona nel gruppo, della persona (maschio o femmina) relazionata all'altro e alla realtà.
    Questo non significa che viene rinnegata l'esigenza di riscoprire la propria identità sessuale, ma che questa non può essere compresa se non nella direzione dell'essere relazionale della persona. È quest'ultimo che ridefinisce l'essere maschio o femmina, che matura l'autonomia nella relazione, che si responsabilizza nei rapporti, nel conflitto, nei rischi affrontati, nei compiti assunti, nel prendere sul serio la realtà.
    Il contesto di crisi che, manifesto o latente, sottostà ad ogni esperienza di vita che i giovani e le giovani oggi vivono, ridefinisce quindi gli obiettivi educativi, pone priorità, rimescola le carte, non permette una chiusura contemplante attorno al proprio sé, ma rimette in discussione anche il modo con cui finora si è posto e risolto il problema dell'identità. La crisi, in una parola, disvela i problemi di fondo: che sono quelli di vivere la crisi senza soccombere davanti ad essa.
    La nostra è quindi una proposta offerta al gruppo nel suo insieme, come vero ambito vitale maturante, che prende sul serio i problemi e prospetta possibili vie di uscita, e che offre quindi uno spazio adeguato dentro cui anche la ragazza sperimenta e trova soluzione anche ai suoi specifici problemi, trova in una parola la sua via.

    Il sentiero del «prendere coscienza» o del coraggio

    Il primo obiettivo, da ritenere come prioritario e a cui il gruppo nel suo insieme (le persone che lo compongono, gli educatori ed animatori) deve tendere, è quello di assumere sul serio la crisi senza lasciarsi travolgere da essa.
    In concreto, devono essere offerti strumenti e metodi di coscientizzazione sulla realtà e sulle sue dinamiche. Questo significa conoscere la realtà sociale non solo nelle sue manifestazioni esterne, e in quanto coinvolgono la mia esistenza, ma nelle sue dinamiche profonde, nelle sue radici culturali e strutturali. Questo se non altro apre ad una visione «storica » del mondo, lo toglie dal fissismo naturalistico per cui ogni fenomeno è visto come inevitabile, naturale, permette di comprendere che la società, ogni società, nasce e si sviluppa per le interazioni umane che stanno alla base, è insomma una «costruzione sociale».
    È ovvio che gli strumenti di lettura della realtà non sono solo quelli offerti dalla conoscenza «sociologica», ma anche da quella storica, economica, politica, filosofica. Apparirà così più evidente come certi fenomeni (emarginazione, disoccupazione, massificazione, omologazione...) non sono frutto del caso o del destino, ma conseguenze di un certo modo di vedere e di agire.
    Tale lettura permetterà inoltre di interpretare non solo ciò che succede a livello macroscopico, ma anche di cogliere i semi di novità e di trasformazione presenti nella società civile.
    Tale presa di coscienza non avviene soltanto come conseguenza di uno studio approfondito, ma anche attraverso un più stretto contatto con la realtà esterna (con chi vive già esperienze di lavoro, di emarginazione, di inserimento nelle varie strutture), e quindi attraverso la comunicazione di esperienze, la testimonianza.
    Il quadro della realtà che emerge non appare così troppo idilliaco, come quello di una civiltà agreste del passato. Esso appare in tutta la sua crudezza.
    Occorre pertanto preparare il giovane a quella che si prospetta come una situazione difficile (di inserimento, di assunzione dei ruoli, di partecipazione, di creatività) che è tale per tutti e ancor più per la giovane.
    Rendersi conto di questo significa prepararsi ad assumere il rischio anche personale, la non garanzia, la propria responsabilità, sapendo di non poter contare su soluzioni miracolistiche, a poco prezzo. Significa capacità di collaborazione, di muoversi per piccoli passi, di interiorizzazione di un progetto realistico e verificabile.
    È qui che riemerge la necessità di un certo cercare nuovi spazi di azione, anche con ritorno all'«ascetica», alla duttilità, alla pazienza: che vuol dire commisurare forze, energie, mezzi alla situazione ««dura » che attende e che sfida.

    Il sentiero del ricupero della dimensione storica

    Si può esplicitare l'obiettivo proposto secondo le tre dimensioni storiche dell'esistenza.
    Alla ricerca della propria memoria. Ricuperare il senso della propria memoria (delle proprie radici, si diceva) è un potente antitodo al senso di solitudine e di abbandono, alla pretesa di ricominciare tutto da capo, come se il mondo e la società nascessero oggi, come se i significati fossero inventati daccapo ogni giorno, come se la storia fosse solo la storia di sé.
    Ricuperare la memoria (sia in generale che quella femminile) significa in fondo ritrovare se stessi, punti di collegamento e nuovi riferimenti, compagni di strada, le parole e i simboli per dire se stessi e comprendere la realtà.
    Vivere e agire nel quotidiano presente. Attrezzarsi di fronte al reale in concreto significa darsi le ragioni del vivere, puntare a valori e a scelte realizzabili, rinunciare agli idealismi utopici, al «tutto e subito», a facili scorciatoie.
    Gli strumenti di cui ci si può servire sono non soltanto le conoscenze circa la realtà, di cui si diceva, ma anche atteggiamenti (di rispetto, di prudenza, di coraggio), e capacità di operare scelte nel piccolo. Pensiamo operativamente ad alcuni ambiti di vita, che sono appunto il «quotidiano presente»: famiglia, scuola, parrocchia, quartiere, l'attenzione al «reale malato» (situazioni di handicap, di solitudine, di povertà, di emarginazione, di bisogno).
    Aprire a nuovi spazi nel sociale, per un futuro nuovo. Non si tratta di riproporre utopie o immagini futuriste della società, ma di pensare ad atteggiamenti di coinvolgimento, di apertura dell'io: cominciare a pensare al «noi» significa un atteggiamento di ascolto, dialogo, confronto, collegamenti, assunzioni comuni di responsabilità e di pronunciamenti. Significa inoltre cercare nuovi spazi di azione, anche con immaginazione creativa: sono probabilmente gli spazi offerti dal cosiddetto «umanesimo generico»: pace, ecologia, volontariato... Significa infine ricercare collegamenti con le strutture del territorio, uscendo dalla cerchia ristretta e campanilistica dell'azione del gruppo, o dall'azione vista solo come mezzo educativo per la persona.

    Il sentiero dell'azione

    L'azione deve tornare ad essere il completamento naturale della presa di coscienza: la consapevolezza della realtà serve infatti per nuove prospettive di azione.
    Abbiamo già accennato a possibili ambiti di azione, che sono validi per ogni tipo di gruppo e per ogni membro del gruppo.
    Vogliamo ora riferirci in particolare alla situazione della ragazza, così com'era finora «confinata» a determinati ambiti, per aprire a lei nuove prospettive e nuovi ambiti. Si potrebbe quindi definire questo obiettivo educativo: dall'azione confinata all'azione allargata.
    Pensiamo soprattutto a due confinamenti da oltrepassare.
    Il primo si riferisce a quelli che tradizionalmente sono stati «riservati» alla donna nella sua azione sociale ed ecclesiale: azione di supplenza, di riserva, catechesi dei più piccoli, servizi «domestici» o tipicamente casalinghi, anche fuori della casa stessa. La ragazza (e l'educatrice, la suora, l'animatrice più grande) deve imparare a reagire davanti alla limitazione del suo raggio di azione in ambiti tradizionali o mortificanti. Il gruppo allora deve essere sempre più il luogo in cui si matura la coscienza di tale limitazione, e in cui vengono offerte nuove piste di azione.
    Il secondo confinamento riguarda la vita stessa del gruppo: la giovane deve essere abituata (e le devono essere offerte concrete possibilità) a partecipare ai processi di informazione, decisione, controllo e verifica nel gruppo. La sua presenza non può più essere unicamente in funzione di ascolto e assenso alle decisioni altrui, ma deve entrare nel vivo della partecipazione dialettica, e quindi democratica, anche come punto di partenza di una maggior partecipazione e presa di coscienza del funzionamento delle strutture decisionali in altri ambiti, fuori del gruppo stesso.

    Il sentiero del frammento di senso

    Ci riferiamo al significato dell'esperienza ecclesiale e di fede dei giovani.
    Troppe volte fede e appartenenza ecclesiale sono vissute come esperienze di fuga, di setta, di inazione, magari in attesa di un futuro escatologico, o come sicurezza di fronte alle ombre della paura; o sono vissute in una prospettiva integrista che direttamente suggerisce soluzioni immediate magari ispirate all'esperienza evangelica o delle prime comunità cristiane.
    Quindi o come fede da cenacolo o come cavallo di battaglia.
    Ma la fede e l'esperienza ecclesiale, vissute nella logica dell'incarnazione, devono poter «ricevere» e «dare», alla crisi storica, quella vissuta nell'oggi. E così anche la fede dei giovani, dei gruppi ecclesiali.
    Questo significa, da una parte, che la crisi non può essere assunta fino in fondo, come totale insignificanza o nullità della vita e dell'esistenza, come negazione senza appello, come morte irrevocabile del senso o di quella Presenza che sostenta l'esistenza.
    Ma, d'altra parte, la fede e l'appartenenza ecclesiale non possono essere vissute come se la crisi, il vuoto, la mancanza di precisi punti di riferimento non le toccassero minimamente.
    Esse allora saranno vissute non più come ideologiche, troppo sicure, al di fuori di ogni rischio, ma nel frammento in cui si manifestano e si svelano, nell'ottica della quotidianità, nella logica del piccolo.

    QUALI CONDIZIONI RENDONO «PRATICABILI» GLI OBIETTIVI?

    Non ci addentriamo in un trattato di metodologia educativa, ma indichiamo alcune attenzione e interventi senza dei quali gli obiettivi hanno vita unicamente sulla carta.

    La figura dell'educatore

    Due annotazioni, una generica e l'altra più specifica.
    La «coscienza educativa» dell'educatore deve spingersi fino ad avvertire le nuove forme del disagio giovanile.
    E se, come abbiamo detto, esse si esprimono soprattutto nella coscienza sempre più avvertita della crisi che sembra coagulare ogni altra forma di disagio, allora l'educatore dovrà tenere conto di essa, chiamarla per nome, avvertirne i segni. Dovrà anche rendersi conto delle forme di «fuga» o di rifugio in cui i gruppi tendono a riparare, e proporre vie praticabili, capaci di affrontarla e, possibilmente, di viverla (o uscirne).
    Ma il contesto di crisi tocca anche le stesse proposte che vengono fatte: esse non potranno più essere offerte come le soluzioni definitive, per sempre, ma come blocchi concreti e praticabili, i cui risultati si possono toccare con mano, possibili da verificare.
    E in particolare, per quanto si riferisce alla figura dell'educatrice (animatrice, suora) nel gruppo, essa deve rendersi conto che la sua figura e ruolo sono determinanti sull'immagine di donna che interiorizza (o su cui si confronta) la ragazza. Gli sbocchi di azione vissuti dall'educatrice sono quelli che la giovane vede possibili per sé, unicamente quelli. L'educatrice non può più prestarsi allora per compiti troppo settoriali e che perpetuano un'immagine di donna tradizionale, materna, in funzione di appoggio o di «servizio domestico».

    A mo' di ragnatela

    Non ci sono metodi sicuri, pronto uso, per il raggiungimento degli obiettivi.
    Accostarsi con piena consapevolezza alla realtà, assumendola ma cercando insieme di superarla, proporsi vie di uscita alla crisi, vivere esperienze di fede «precarie» non sono obiettivi raggiungibili mediante ricette facilmente prescritte.
    Esigono piuttosto una certa strategia di insieme che, nata e sperimentata inizialmente nell'ambito del femminile, pensiamo utile proporre al gruppo nel suo insieme. Essa non è formulata in passi precisi e definiti, perché è un metodo che è vissuto nel suo farsi, che nasce e si modifica nel suo concreto sperimentarsi, che diventa realtà mentre lo si attua. E insieme una proposta e una scommessa.
    Il nome stesso, «la ragnatela», nato e proposto in uno degli ultimi gruppi del neofemminismo, indica la strategia globale.
    Pensiamo che vivere nel gruppo l'esperienza di coscientizzazione e di azione, o di fede nella crisi dei riferimenti globali, esiga di uscire da un metodo individualistico, o di separazione, o di rivendicazione, o di puro confronto, una strategia di nuovi collegamenti e allargamenti.
    Indichiamo alcuni passaggi irrinunciabili di tale strategia.
    Il punto di partenza è l'esperienza personale e soggettiva dei singoli membri del gruppo, perché più immediatamente verificabile e constatabile. Essa deve essere «svelata», riconosciuta, manifestata; e successivamente ricollegata e integrata con le altre esperienze del soggetto che la richiamano, la spiegano. La biografia personale del soggetto rivela così una storia abbastanza unitaria, pur nelle esperienze personali di frattura e di divisione.
    L'esperienza di collegamento deve essere allargata fino a toccare l'esperienza degli altri soggetti, e la storia. Il problema o l'esperienza di uno diventa di molti altri, diventa comune, culturale. Può essere un'esperienza di coscienza di una nuova alienazione o emarginazione, o di qualche soluzione nuova intuita o già sperimentata.
    Questa non è la vecchia «autocontemplazione», in cui ciascuno comunica agli altri per sentirsi confermato o rassicurato; qui è in gioco la possibilità stessa di scrivere una storia comune, di sentirci tutti coinvolti, di trovare spiegata negli altri la propria esperienza, di leggerla con parole più precise.
    Tale esperienza presuppone la capacità di leggere la realtà non solo con gli strumenti offerti dalle scienze dell'uomo, ma anche attraverso una lettura «sapiente», carica dei significati del passato e capace di coglierne i segni del futuro.
    Il collegamento avviene a due livelli: il primo riguarda i contenuti, il che significa la capacità di individuare i nuclei di esperienze che creano una nuova coscienza collettiva, che rimodellano l'identità, che si offrono come campi di azione (ad esempio, la pace, la non violenza, la novità di rapporti interpersonali, il «reale malato»...). I fili della «ragnatela» si ricollegano e si riportano ad alcuni nodi o punti di contatto, e da lì ripartono per nuovi contatti e collegamenti.
    Il secondo livello è quello delle persone. Esso allora richiama la capacità di ulteriori contatti, di rapporti interpersonali sempre più allargati, anche verso le strutture e le istituzioni.
    Da notare che l'esperienza storica della donna suggerisce uno spostamento del modulo comunicativo dalla quantità alla qualità, dal possesso al dono, dall'uso al rispetto, dalla razionalità strumentale alla capacità espressiva...
    E infine, la nuova esperienza, sentita come comune, attorno a un nucleo di valori e come nuovo modello del reale, deve potersi sperimentare e orientare all'azione. Anche qui, in una gradualità di interventi e in un allargamento del raggio di azione: dall'ambito personale o dei rapporti interpersonali, alla famiglia, alla cerchia ristretta del gruppo, al territorio, alle istituzioni.


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