Pastorale Giovanile

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    Uguaglianza, felicità, uova e latte /2



    Sussidio sulla «felicità» per gruppi giovanili (seconda parte)

    Paola Molinatto

    (NPG 1983-3-40)


    3. Confronto di antropologie

    Per interpellare l'attuale prassi giovanile, è necessario accogliere e ripensare il tema della felicità dentro il clima culturale che offre modelli tra loro abbastanza differenziati di uomo alla ricerca della felicità.

    FELICITÀ-SORRISO: PICCOLI ANALGESICI PER SOPRAVVIVERE

    Scrive Lucio Lombardo Radice: «C'è una pratica e una ideologia di massa che colloca la felicità nel privato-presente, punto e basta in modo netto e brutale. Parlo della pratica e della ideologia del consumismo. Il consumismo pratico ha un retroterra teorico nella definizione dell'«essere "felici" come di un "fruire di piaceri individuali" di un "godere l'attimo fuggente" non nella contemplazione di un grande futuro, ma proprio così com'è, attimo da vivere con il massimo di compiacimento, di soddisfazione, per gettarlo poi via consumato dietro le spalle. La vita "felice" sarebbe una vita facile, ricca di piaceri e se possibile di orgasmi frequenti; "libera" non provata da responsabilità».
    L'antropologia che sottende ad una società impregnata di consumismo, così efficacemente descritta da Lucio Lombardo Radice, è fondata sull'accettazione pratica della «modestia» dell'uomo, in quanto non ne afferma né la grandezza né la miseria. Concependo la relazione e la comunicazione con gli altri, in funzione del valore dominante, il consumo (delle cose, delle persone, della vita) criterio ultimo dell'agire diviene il soggettivismo.
    In questo modo, l'uomo che consuma è un uomo solo. Che però non giunge ad affermare l'assurdità della vita. Piuttosto si preoccupa di scansare le difficoltà più grosse, di evitare gli ostacoli accontentandosi. Oppure, secondo l'espressione di Woody Allen: «in conclusione è chiaro che il futuro che offre grandi opportunità, è anche disseminato di trabocchetti. Il trucco consiste nell'evitare i trabocchetti, prendere al balzo le opportunità e rientrare a casa per l'ora di cena». In questa logica la sofferenza è veramente un non-senso. Non c'è niente per cui valga la pena di lottare. È espressione di dolore, sofferenza, o morte, che in qualche modo devono essere occultati. Basti pensare come nelle nostre società, le malattie, la morte, vengono esorcizzate attraverso tutta una serie di procedure sociali che mantengono fuori dall'esperienza quotidiana queste situazioni-limite. Ma poiché queste dimensioni sono costitutive dell'esperienza umana, è possibile soltanto rifugiarsi in una felicità-sorriso, il cui prototipo è l'annunciatrice televisiva che ogni sera sembra rassicurare l'utente che «tutto va bene».
    È una concezione di vita centrata su una felicità a basso-prezzo: bastano allora piccoli analgesici per sopravvivere. Ne scaturisce l'utopia di una felicità-per-me che si realizza nel presente, senza grosse aspettative.

    L'HOMO FABER

    Il processo di razionalizzazione caratterizzante l'epoca contemporanea può essere considerato uno degli elementi fondanti per l'affermarsi della società industriale, e oggi, un nodo insieme ad altri, di una crisi che mette in discussione e riformula le strutture sociali, politiche ed economiche dell'intera società.
    L'etica del lavoro che costituì almeno in parte il punto d'avvio di una radicale trasformazione della società (che storicamente comincia a profilarsi fin dalla riforma protestante, per essere poi presente, seppure secondo modalità diverse, sia nel mondo borghese, sia in quello socialista), non è certamente priva di una propria antropologia.
    Non si tratta di un modello dominante, come del resto nessuno di quelli che stiamo delineando, e sebbene variamente intaccato dalla crisi, è portatore di una mentalità di fondo, con la quale ci pare importante confrontarsi. Secondo il modello dell'homo faber, l'uomo è ciò che produce. Da una parte, lo sviluppo di una società tecnologizzata e informatizzata ha diffuso la convinzione che l'uomo è veramente in grado di costruire e produrre ciò di cui ha «bisogno». In questo modo, la scienza, soprattutto nella sua variante neo-positivista, che ha dilatato un'impostazione empirista basata sul principio di verificazione, è divenuta il punto coagulante di numerose utopie a medio e lungo termine, confidanti nell'ipotesi di uno sviluppo illimitato .
    Sebbene questo «mito dello sviluppo» sia oggi largamente smentito e quindi in crisi proprio nei suoi tentativi di concretizzazione storica, nella nostra cultura è presente una mentalità che pone al primo posto l'oggettività, e la razionalità strumentale e che da un punto di vista antropologico assegna al lavoro, ciò attraverso cui l'uomo possiede e trasforma il mondo, un primato non indifferente.
    In questa prospettiva la felicità dell'uomo si costruisce in una dialettica tra la produzione e il soddisfacimento illimitato dei bisogni. Ma anche nell'impostazione marxiana, seppure con un retroterra molto diverso, è presente l'antropologia che abbiamo denominato dell'homo faber. «Marx antropologicamente è rimasto in balìa dell'etica aristotelica, per la quale l'uomo è quello che egli stesso si fa, un creatore di se stesso, causa sui. Perciò anche il regno umano della libertà può essere edificato soltanto sul regno della necessità. L'uomo è essenzialmente un produttore. Se ciò è vero sarà importante solo che egli crei condizioni umane per diventare uomo» (Moltmann).
    Ne deriva così un'antropologia secondo la quale l'uomo è definito da ciò che produce, secondo la logica dell'impegno, del cambio politico, fondata sull'oggettività, nella quale però l'uomo rischia di essere spersonalizzato, in quanto, per esempio, è molto difficile rispettare la gratuità e l'importanza della dimensione ludica dell'esistenza. È possibile al massimo concepire la festa come «intervallo nella lotta», «riposo del guerriero», «a servizio del cambio politico e della reintegrazione delle forze per tornare al lavoro». La felicità si gioca allora tutta nel futuro, nella nuova società che si intende realizzare, e per la quale oggi si lotta.

    FORSE ULTIMA LETTERA A MEHMET
    Non vivere su questa terra
    come un inquilino
    oppure in villeggiatura
    nella natura
    vivi in questo mondo
    come se fosse /a casa di tuo padre
    credi al grano al mare alla terra
    ma soprattutto all'uomo.
    Ama la nuvola la macchina il libro
    ma soprattutto ama l'uomo.
    Senti la tristezza
    del ramo che si secca
    del pianeta che si spegne
    dell'animale infermo
    ma innanzitutto la tristezza dell'uomo.
    Che tutti i beni terrestri
    ti diano gioia
    che l'ombra e il chiaro
    ti diano gioia
    che le quattro stagioni
    ti diano gioia
    ma che soprattutto l'uomo
    ti dia gioia.
    (Nazim Hikmet, da Forse ultima lettera a Mehmet, in Poesie, introduzione pag. 16, Newton Compton Ed., Roma, 1972).

    L'UOMO SENZA VOLTO E SENZA STORIA

    «Il pensiero contemporaneo, quello della "nuova generazione", si caratterizza soprattutto per il suo scetticismo rassegnato. (...) Lo psicologo Viktor Frankl dice: "Ogni età ha la sua neurosi ed ogni età ha bisogno della sua psicoterapia. In effetti, la frustrazione con la quale oggi siamo confrontati non è più quella sessuale del tempo di Freud, ma di tipo esistenziale. Il paziente tipico dei nostri giorni non soffre più, come al tempo di Adler, di un complesso di inferiorità ma di un senso profondo di assurdità, strettamente imparentato con un senso di vuoto". Scetticismo rassegnato. Paura di precipitare in qualcosa, ma al tempo stesso né rappacificati né riconciliati con la vita: non più la delusione dei reduci sconfitti, soldati di una causa perduta, ma piuttosto il vuoto di persone ormai sazie, di individui ingozzati da convinzioni, concezioni del mondo, offerte religiose»[1] Un certo clima culturale che circola tra i giovani non sembra esprimere in qualche modo il disagio di cui Frankl si faceva interprete?
    La perdita di punti di riferimento, la mancanza di prospettive comuni, la difficoltà da parte di molti giovani a orientare la propria vita in un progetto, non ci dà l'impressione di aver perso il senso dell'equilibrio?
    Alcune analisi della condizione giovanile parlano di un diffuso nichilismo, che emerge dai tanti segni di un mondo sociale ormai incapace di fare proposte significative per la vita dei giovani. La caratteristica di questo modo di comprendere, pensare e vivere l'esistenza quotidiana, è la perdita di qualunque rapporto con la storia e con il futuro. Come si può infatti sperare o pensare ad un domani più felice, se l'esistenza è un intervallo tra il nulla, e come tale produce solo assurdo? Non solo, ma se viene rifiutata tutta la tradizione di pensiero monoteistica ed occidentale, in ultima analisi la cultura cui apparteniamo, su quali valori giocare la propria vita?
    Come vivere nel presente senza memoria, e quindi sradicati?
    «Si provi ad immaginare per un attimo di camminare sulla terra pensando che è un caso, che è roba che sta lì per puro caso, che il suo statuto ontologico, cosmologico, assiologico, non esiste, che non esiste, che non c'è un ordine. (...) Senza un tema, un "andare verso", senza un senso dell'origine, c'è un trovarsi già di fronte a quello che in termini heideggeriani si chiama: "l'essere gettato", l'essere buttato nel cosmo. (Chi si cura più del pezzo di lametta buttato stamattina nel cestino dei rifiuti?). Ecco l'essere buttato. Equivale ad un susseguirsi di falle nel tessuto della realtà, per cui le cose di ieri non hanno continuità con l'oggi» (I. Mancini).
    Radicalizzando la precarietà e la contingenza dell'esistenza umana, la prassi e la riflessione intessuta di nichilismo giunge ad affermare la in-identità dell'uomo, senza unità, né futuro. Dunque esiste solo l'immediatezza, nell'ambito di una moralità in cui unica norma è la sopportazione. Che senso ha allora la ricerca di felicità?
    Al massimo è possibile catturare degli istanti di gioia, ma troppo amari in quanto costituiscono solo un'illusione. Se l'uomo non ha identità, se non esiste niente in cui valga la pena credere, per cui essere responsabili, non è forse impensabile desiderare di essere felici? In questa prospettiva, anche il tempo, come il comportamento dell'uomo, rimane diviso infinitesimamente in istanti, privi di unità. Significativamente simbolo della cultura del negativo è il rizoma, pianta senza radice e senza fusto. «Si staglia così una immagine di uomo fatta solo di corpo e della sua libera e inarginata espansione: niente sopra e niente radici, nient'altro. Rimane questa configurazione corporea che è l'unico mezzo di comunicazione e porta con sé la crisi del pensiero e della parola».[2]
    Gli interrogativi e la sofferenza che emergono da questo vissuto sono molto seri. Non ci permettono di scherzare sulla testa di chi fa esperienza sulla propria pelle del non-senso della vita. Ci impediscono di non vedere tutta la fragilità e la contingenza dell'esistenza umana.
    Ed in qualche modo la mancanza di orientamento così diffusa, e non solo tra i giovani, esprime come vadano prese sul serio le parole che Szczesny scriveva: «Ciò che ogni uomo nelle diverse circostanze della vita, e contando soltanto sulle proprie forze, deve superare, ciò che lui non può né modificare, né eludere, sono le condizioni fondamentali della a stessa esistenza: egli si sperimenta come un essere zeppo di contraddizioni, impostato in modo contraddittorio; il corso della sua vita è limitato. È sotto la minaccia dell'età e della malattia, degli incidenti e delle delusioni. Fallisce sia quando deve risolvere problemi privati e sociali, come quando cerca di giungere alla ragione delle cose. E in definitiva non sa affatto dove si radichi e che senso abbia questa vita, dalla quale viene espulso senza essere interrogato, come senza essere interrogato è venuto alla luce».[3]

    LA TUA ANIMA È UN FIUME
    La tua anima è un fiume, mio amore,
    scorre in alto tra le montagne
    tra le montagne verso la piana
    verso la piana senza poterla raggiungere
    senza raggiungere il sonno dei salici piangenti
    la quiete dei larghi archi di ponte
    dell'erbe acquatiche dell'anatre dalla testa verde
    senza raggiungere la dolcezza triste delle superfici piane
    senza raggiungere i campi di grano al chiaro di luna
    scorre verso la piana
    scorre in alto tra le montagne
    tirandosi dietro le nubi, che si fondono e si separano
    portandosi di notte le grosse stelle
    le stelle delle cime delle montagne
    il sole azzurro delle cime delle montagne
    scorre schiumeggiando
    mescolando nel fondo le pietre bianche con quelle nere
    scorre con i suoi pesci che nuotano contro corrente
    vigili nelle curve
    s'inabissa e s'inalbera
    pazza del proprio fragore
    scorre in alto tra le montagne
    tra le montagne verso la piana
    verso la piana inseguendola
    senza poterla raggiungere.
    (Nazim Hikmet, Poesie, Newton Compton Ed., Roma, 1972, pag. 104).

    PRENDI O SIGNORE
    Prendi o Signore la mia intelligenza
    ed illuminala, ed illuminala
    con la tua sapienza
    ed allora sì, il progresso sì ci sarà
    ma sangue e morte più non costerà
    o Signore, mio Signore!
    Ecco o Signore, prendi le mie mani
    e con esse tu potrai anche oggi accarezzare
    il ridente volto, il ridente volto di un bambino
    e sostenere i deboli nel loro cammino o Signore.
    La mia parola sia la tua parola
    e sia libera, e sia libera da qualunque compromesso
    sia capace di infondere speranza in ogni cuor
    nel cuor del misero e dell'oppresso Signore.
    Gioia, speranza, pena, dolore
    gratitudine, compassione, amore e ancora amore
    questo ed altro Signor io
    ripongo al servizio dell'amor.

    E POI ANCORA...

    «Uno degli Upanishad racconta come Indra si presenta a Pradjapati, lo spirito creatore, per sapere da lui come si trova e si conosce l'io. Dopo un'attesa di mille anni riceve la risposta: "Quando qualcuno giace in un sonno senza sogni, quello è l'io, l'immortale, il permanente, tutto l'essere". Indra se ne va ma torna pensando che un uomo in una tale condizione non riconosce più se stesso e non distingue "Quello sono io" e neppure "Quelli sono gli altri". E Pradjapati conferma che è così».[4]
    Sicuramente molti giovani, negli anni settanta ed anche oggi, si sono rivolti «ad Oriente», alla ricerca di esperienze umane e religiose che potessero essere risposta ai problemi di senso della vita. E in qualche modo, un certo misticismo, specie nelle varianti occidentalizzanti delle scuole buddhiste e induiste, propone un inserimento nel reale, un modo di vedere la vita e i desideri dell'uomo, che rimanda ad una antropologia secondo la quale la felicità (che può chiamarsi Nirvana, il vero io, ecc.) si scopre uscendo, allontanandosi da questo mondo illusorio che schiavizza l'uomo. Sono abbastanza evidenti i rischi di fuga dalla realtà, da se stessi, di consumismo spirituale, di banalizzazione delle tradizioni che l'Oriente offre.
    Qui ci interessa, per il discorso che andiamo svolgendo, soltanto sottolineare come anche questa «svolta ad Oriente» non sia indifferente per il nostro obiettivo di rivelazioni di alcune prospettive antropologiche nell'ambito delle quali il tema felicità è impostato e sviluppato in termini estremamente differenziati.
    A questo proposito è anche possibile solo ricordare come anche nel cristianesimo sono stati presenti modi di pensare che, accentuando la dimensione escatologica, rinviano i problemi, i desideri e sogni dell'uomo e la loro realizzazione quasi esclusivamente al di fuori della storia.

    4. Prima viene l'identità

    RIPARTENDO DAGLI INTERROGATIVI

    L'esperienza fondamentale del nostro tempo «è dunque l'esperienza della grandezza e miseria dell'uomo. È l'esperienza di una tensione tra una trascendenza, verso cui l'uomo continuamente s'incammina, andando oltre la fatticità del dato ed un rimanere disperatamente legato dentro la fatticità del dato; una tensione tra essere e senso della realtà. In questa situazione s'impone con forza all'uomo la domanda sul senso del suo Esserci e sull'intero della realtà. Date queste condizioni come si può arrivare all'identità con se stessi e con il mondo? come si può trovare un'esistenza felice e compiuta?».[5]
    Numerose analisi condotte sul piano delle scienze umane, in questi ultimi anni hanno messo in luce come l'identità dell'uomo è continuamente minacciata, precaria, fragile. In questo contesto, come giungere ad una «esperienza di esperienze», che come tale implica la capacità di fare unità nella propria esistenza? Vivendo un'esperienza frantumata, è possibile trovare la gioia di vivere? La riscoperta di un centro cui fare riferimento, in rapporto al quale giocare la propria vita, non è forse indispensabile per essere felici?
    Se dunque la ricerca della propria identità personale e sociale può essere un punto di partenza per ripensare l'esistenza in termini di felicità, quali sono gli aspetti irrinunciabili, che concorrono alla formazione di una vita adulta, equilibrata e felice?
    Le riflessioni che seguono sono un tentativo di mettere in relazione tra loro alcuni processi che possono essere significativi per la formazione dell'identità.

    L'IDENTITÀ COME RELAZIONE

    L'identità rimanda immediatamente ad una dimensione relazionale che può realizzarsi, ed è espressione di un equilibrio dinamico, frutto di una pluralità di comunicazioni. E l'uomo è se stesso, constata e sviluppa la sua individualità proprio nella relazione, con l'altro, con la realtà circostante, nella contestualità di un territorio e in riferimento ad una storia personale e sociale. Basti pensare che l'immagine che ognuno di noi ha di se stesso è in qualche modo continuamente messa in discussione e costituita dalle innumerevoli relazioni che definiscono la nostra presenza nella dimensione professionale, affettiva, politica, ludica, ecc.
    Senza relazioni l'uomo non cresce, si impoverisce, può soltanto richiudersi in sé. Sappiamo benissimo infatti tutta l'importanza che hanno le primissime relazioni del bambino con la madre per il suo sviluppo futuro. Tutto questo perché l'uomo è un sistema aperto.
    L'identità poggia sulla dialogicità dell'essere.
    Il dialogo, frutto di una molteplicità e di una comunione di relazioni, presuppone una profonda fiducia e accettazione dell'altro. È un agire che trova espressione nell'amore.
    Il dialogo arricchisce, fa crescere, permette a ciascuno, ma insieme ad ogni altro, di sognare una vita nuova, più felice. Soprattutto il dialogo abilita all'accoglienza, alla solidarietà: «se il dialogo è l'incontro degli uomini per "essere di più", non può farsi senza speranza; se i soggetti del dialogo non sperano nulla dal loro "che-fare", non ci può essere dialogo. Il loro incontro è vuoto e sterile. È burocratico e noioso. Finalmente non c'è dialogo vero se non esiste nei soggetti un pensiero vero Un pensiero critico. Un pensiero che, non accettando la dicotomia mondo/uomini, riconosce tra loro una solidarietà che non si spezza. (...) Non esiste dialogo però se non esiste un amore profondo per il mondo e per gli uomini. L'amore che è fondamento del dialogo, è anch'esso dialogo».[6] Altrimenti è discussione animosa, imposizione di sé sull'altro, diventa luogo di dominazione e di conflitto. Se si costruisce invece con creatività nell'amore, è luogo di incontro. Si intravvede così una strada che fa perno sulla soggettività, ma senza isolarla dal mondo, definendola invece nel suo rapporto con gli altri, con il volto dell'altro.

    LA TRANSAZIONE

    L'esperienza è dunque un processo complesso ed è frutto dell'interazione di variabili poste lungo gli assi costitutivi dell'esistenza umana. È importante allora creare «transazione» tra queste dimensioni, così che l'equilibrio che ne scaturisce dà identità all'uomo. Utilizzando il concetto di transazione vogliamo indicare come i poli di queste dimensioni non presentano affatto dicotomie; sono poli di una dialettica continua, e solo come tali vengono compresi. La transazione poi, rimanda sempre ad un «inter-» che è presente in ogni comunicazione, ed ha quindi un elemento di fede, poiché gli elementi in gioco possono essere detti e compresi solo l'uno nell'altro.
    Schematizzando il più possibile, l'interazione tra queste variabili fondamentali può essere così presentata con il seguente grafico.

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    PROCESSI Dl FORMAZIONE DELL'IDENTITÀ

    Tenendo conto di questo orientamento di fondo, ci pare importante:
    * ricercare la transazione tra il sistema sociale e il mondo vitale quotidiano. Il mondo vitale costituisce l'ambito delle relazioni primarie, in cui «le comunicazioni e le interazioni di esperire vivente, come le azioni, chiamano in causa rapporti diretti e diffusi tra le persone, in un medesimo ambiente locale e in un dato tempo comune. Sono rapporti tra l'Io e l'Altro, o pochi Altri, che insieme vivendo, facciamo Noi».[7]
    Per sistema sociale, «intendiamo un insieme di relazioni sociali tipizzate e dotate di alcune proprietà». Abbraccia l'ambito del pubblico, dell'istituzionalizzazione e si compone secondo una struttura sociale.
    Ora, questa transazione è particolarmente rilevante in una società che presenta un evidente stato di dissociazione, quasi schizofrenia, conseguenza di una crisi dei rapporti intergenerazionali, e quindi della capacità di interagire con i codici. Altrimenti, l'individuo vive a livello di identità personale e sociale una continua scissione e contrapposizione.
    Tanto che si potrebbe dire che soggettività (rappresentata dalle relazioni primarie) e oggettività (rappresentata dal sistema sociale), sono categorie utilizzabili solamente se vengono comprese l'una nell'altra; sono invece involucri vuoti se considerate separatamente.
    * Comprendere come l'uomo può scoprire la sua individualità, e quindi originalità e irrepetibilità solo nel rapporto continuo ad una contestualità più ampia. Sviluppando cioè una sua socialità. Si può stare con gli altri, quando l'individualità come tale è vissuta e rispettata; in altre parole, si tratta di stabilire una dialettica continua tra compagnia e solitudine. O, secondo un'altra espressione, occorre passare da una competenza linguistica ad una competenza di tipo comunicativo.
    * Recuperare la dimensione dello spazio. La corporalità e il territorio riassumono la caratteristica di un radicamento dell'essere nello spazio fisico e sociale.
    * Recuperare il tema del tempo e della storia, nelle sue relazioni tra passato, presente e futuro.

    DIMENSIONE STORICA DELL'ESISTENZA

    L'esistenza umana, in quanto esistenza storica, si svolge nel tempo, e ad esso è relativa. Ma quale rapporto esiste nella nostra cultura tra la vita dell'uomo e lo scorrere del tempo?
    Nella tradizione occidentale e soprattutto nella società industrializzata cui apparteniamo, il tempo è stato considerato come qualcosa che scorre, indipendentemente da ciascun soggetto, quasi scandito dai colpi anonimi ed esterni di un metronomo, sempre uguali quanto ad intensità e velocità.
    Così che l'uomo si ritrova a dover adeguare la propria vita a questo ritmo. Ma probabilmente si tratta soltanto del «consumo» di un tempo ormai logorato dal suo stesso rincorrersi.
    Ma in quale direzione? Perché?
    Se l'uomo vuol vivere con dignità, non può lasciarsi afferrare dal tempo, che nel nostro mondo sociale è l'unico oggetto la cui offerta supera sempre la domanda, un'eccedenza di cui nutrirsi, o meglio, da cui si rischia di essere mangiati .
    La logica del tempo «vuoto» infatti, ripropone, all'insegna del possesso, la dialettica tra l'essere dominati dal tempo e l'appropriarsi, possedere o manipolare il tempo. Ma in realtà quest'alternativa è fasulla, ci conduce in un circolo chiuso.[8]
    Piuttosto, ci sembra importante riscoprire la pienezza del tempo presente con i suoi eventi quotidiani (chi sono io, la realtà delle persone con cui vivo, nel qui-ora di una situazione), luogo in cui l'essere radicato nell'oggi e tensione tra passato e futuro, si apre nella libertà, alla vita.
    Ma per meglio comprendere la portata della dimensione storica dell'esistenza, possiamo provare a calarci nella situazione immaginaria (ma non troppo...) degli abitanti della cittadina di Macondo, così come ci viene narrata da García Marquez.[9]
    La vita di questa gente procedeva, come in ogni storia, in modo tranquillo, fino a quando... i sintomi di una strana malattia, la peste dell'insonnia, non cominciarono a colpire alcune persone. Dapprima, nessuno se ne preoccupò: «"Se non dormiremo, tanto meglio", diceva José Arcadio Buendía, di buon umore. "Così, la vita ci renderà di più". "Ma l'india spiegò loro che la cosa più temibile della malattia dell'insonnia non era l'impossibilità di dormire, dato che il corpo non provava alcuna fatica, bensì la sua inesorabile evoluzione verso una manifestazione più critica, la perdita della memoria. Significava che quando il malato si abituava al suo stato di veglia, cominciavano a cancellarsi dalla sua memoria i ricordi dell'infanzia, poi il nome e la nozione delle cose, e infine l'identità delle persone e perfino la coscienza del proprio essere, fino a sommergersi in una specie di idiozia senza passato. José Arcadio Buendía, sbellicandosi dalle risa, ritenne che doveva trattarsi di una delle tante malattie inventate dalla superstizione degli indigeni».
    Così a poco a poco, mentre andava diffondendosi la mancanza della memoria, che, come abbiamo visto, rende persino irriconoscibile l'uomo a se stesso, significativamente alcuni, continuando a non dormire «rimasero a sognare svegli per tutto il giorno. In quello stato di allucinata lucidità non soltanto vedevano le immagini dei loro stessi sogni, ma vedevano perfino gli uni le immagini sognate dagli altri. «All'inizio, erano contenti di non dormire, perché allora c'era tanto da fare a Macondo che il tempo bastava appena. Lavoravano tanto che ben presto non ebbero più nulla da fare... Quelli che volevano dormire non per stanchezza, bensì per nostalgia dei sogni, ricorsero a ogni tipo di metodi spossanti».
    Risulta abbastanza chiaro come nel racconto Marquez percorre un itinerario molto vicino alla nostra riflessione: non solo l'identità personale e sociale sta in rapporto con la memoria storica, ma quest'ultima interagisce con i sogni e quindi con la dimensione di progettualità che orienta ogni esistenza.
    Ma soprattutto nel brano che segue possiamo comprendere l'impossibilità di vivere l'esistenza presente, l'oggi di ogni situazione, quando viene a mancare il radicamento nel tempo storico. José Arcadio Buendía, per difendersi dalla malattia che aveva colpito Macondo, ricorse ad un ingegnoso rimedio: «Con uno stecco inchiostrato segnò ogni cosa con il suo nome: tavolo, sedia, orologio, porta, muro, letto, casseruola. Andò in cortile e segnò gli animali e le piante: vacca, capra, porco, gallina, manioca, malanga, banano. A poco a poco, studiando le infinite possibilità del dimenticare, si accorse che poteva arrivare un giorno in cui si sarebbero individuate le cose dalle loro iscrizioni, ma non se ne sarebbe ricordata l'utilità. Allora fu più esplicito. Il cartello che appese alla nuca della vacca era un modello esemplare del modo in cui gli abitanti di Macondo erano disposti a lottare contro la perdita della memoria: Questa è la vacca, bisogna mungerla tutte le mattine in modo che produca latte e il latte bisogna farlo bollire per aggiungerlo al caffè e fare il caffelatte.
    Così continuarono a vivere in una realtà sdrucciolosa, momentaneamente catturata dalle parole, ma che sarebbe sfuggita senza rimedio quando avessero dimenticato i valori delle lettere scritte. Sull'entrata della strada della palude avevano messo un cartello su cui era scritto "Macondo" e un altro più avanti nella strada centrale che diceva "Dio esiste". In tutte le case erano stati scritti segni convenzionali per ricordare gli oggetti e i sentimenti. Ma il sistema esigeva tanta sollecitudine e tanta forza morale che molti cedettero all'incanto di una realtà immaginaria, inventata da loro stessi, che risultava loro meno pratica ma più riconfortante». Fu così che alcuni idearono «l'artificio di leggere il passato nelle carte», invece di leggere, come prima, il futuro.


    5. Percorsi verso la felicità

    LA FESTA: CELEBRAZIONE DI UN VISSUTO QUOTIDIANO CONDIVISO

    Assistiamo ad un progressivo deterioramento della festa nel nostro mondo secolarizzato e urbanizzato. Eppure, nella logica di quanto abbiamo detto fino a questo momento, ci sembra importante riabilitare la festa, perché, se vissuta nel suo senso più autentico, esprime il desiderio di ricominciare, di non arrendersi, nonostante tutto. E nel nostro tempo, intessuto di nichilismo o almeno di disillusione, scoprire di poter far festa, è in qualche modo presupporre che la vita abbia un senso.
    Se invece la vita di tutti i giorni è un assurdo, festeggiare è da stupidi, è perdere tempo, pura illusione. Invece, crediamo che «nonostante tutte le esperienze dei limiti dobbiamo tuttavia sempre di nuovo impegnarci nella vita. E così l'esperienza della finitezza implica l'esperienza di un "tuttavia" e di un "ancora una volta". Proprio sullo sfondo di una minaccia del nulla e dell'assurdo sperimentiamo in continuità che le cose possiedono una certa solidarietà, che ci sono ore belle e dei buoni incontri, in breve "che vale la pena". Proprio per il fatto che la felicità non è ovvia, possiamo sperimentare la felicità come felicità».[10]
    Proprio perché la festa non è mai scontata, diventa segno del desiderio di non vivere in modo alienato. E poiché la festa è celebrazione del feriale, può essere tale solamente se il carattere di contrasto che gli è proprio dice la dignità dell'esistenza in ogni momento, anche quando per affermarla occorre soffrire, darsi da fare lottare. In questo senso la festa include i tre aspetti dell'immaginazione: è contatto, espressione e protesta; contatto, per il fatto di sentire le realtà essenziali quando ognuno penetra il proprio essere e il mondo; espressione comunitaria, in forma artistica e ludica, propria intuizione; protesta a causa dell'avvertito contrasto della sua affermazione con la realtà difettosa. Allora l'esuberanza e l'eccesso che zampillano da ogni festa sono celebrazione del desiderio di una vita migliore.
    Sappiamo bene poi, come non si possa festeggiare in solitudine.
    Anzi, se guardiamo alle caratteristiche delle feste religiose e non, nelle culture pre-urbane, si coglie molto bene come la festa è il luogo privilegiato dell'incontro e della socializzazione (basti pensare al significato che assume lo spazio della piazza nel creare riferimento e solidarietà nel paese). È evidente come nell'attuale contesto sociale e culturale, i giovani devono inventare e appropriarsi di nuovi modi e spazi per far festa.
    Ma certamente liberare la festa e i suoi significati, vuol dire assumere tutta l'importanza dello stare insieme, dello stabilire solidarietà e comunione con tutti: in breve, l'accoglienza e la compagnia reciproca. La festa infine, è anamnesi. È e-vocazione vitale di quel di-più che si è vissuto nella ferialità. Perché attraverso la memoria è possibile celebrare i piccoli fatti quotidiani che sono stati esperienza di pienezza, come nuovi eventi nel presente. Possiamo allora dire che nel suo insieme la festa è un grande "simbolo", cioè un evento concreto che indica una realtà ancora più grande e sublime che in un certo modo la contiene: l'anelito umano ad una felicità senza limitazioni.

    IL GIOCO: METAFORA DELLA FELICITA' Dl VIVERE

    Il gioco non parla, argomentando, sulla vita. Piuttosto, secondo l'espressione di Ricoeur, è «metafora viva». Esprime la realtà dell'uomo e del suo mondo secondo la logica comunicativa della «poesia». La metafora parla attraverso un linguaggio ricco che sa andare nella profondità delle cose, così che si porta dentro un di-più sulla vita, poiché «la metafora, per la sua natura iconica, è al servizio di una ridescrizione inedita della realtà; se è vero che essa non ci dà informazioni secondo un modulo empirico è ben vero che essa modifica il nostro rapporto con la realtà, il nostro modo di guardare ad essa. Il linguaggio poetico cambia il nostro modo di abitare il mondo. Dalla poesia noi riceviamo un nuovo modo di essere nel mondo, di orientarci in questo mondo» (P. Ricoeur).
    In questo senso crediamo che il gioco esprime in profondità la vita.
    L'agire ludico presenta un carattere di opposizione all'antropologia dell'homo faber, che può concepire il tempo libero solo come subordinato al tempo di lavoro, così che anche il gioco è alienato, poiché finalizzato ai ritmi del tempo lavorativo. Si comprende allora come giocare ha senso solo nella dinamica del gratuito, che fa esplodere l'allegria e la gioia per la vita, fino ad abilitare chi gioca ad una modalità di conoscenza dell'altro che è sempre scoperta di novità. Giocando infatti, ognuno è chiamato ad essere se stesso (non è forse vero che nel gioco tutti si sentono più liberi e sicuri della propria personalità?) e ad inventare nella creatività un modo sempre nuovo per ricercare l'identità di sé e dell'altro.
    Così inteso il gioco non è evasione dalle preoccupazioni quotidiane, perché al contrario, solo «chi è capace di giocare e di danzare sa prendere le cose sul serio. È "preso" da ciò che sta facendo, ma la sua serietà è serenità, gioia, libertà traboccante».[11]
    La gratuità che caratterizza il gioco, dice in qualche modo la gratuità dell'esistenza.
    Ma anche l'aspetto di relazione è una componente essenziale del gioco. Gadamer esprime molto bene come giocando ci si immette in un movimento che in modo dinamico ridefinisce continuamente la comunicazione del giocatore con gli altri giocatori e con la realtà. «Il movimento dell'andare e venire è così centrale per la definizione essenziale del gioco, che diventa indifferente chi o che cosa sia tale movimento. Il movimento ludico come tale è per così dire senza sostrato. È il gioco che viene giocato o che si svolge: non c'è nessun soggetto stabile a giocarlo. Il gioco è compimento del movimento come tale. Così per esempio parliamo di gioco di colori e in tal caso non intendiamo affatto che c'è un unico colore che dà in un altro, ma intendiamo l'unitario processo, e l'unitario spettacolo in cui appare una mutevole varietà di colori».[12] Allora possiamo dire che la vita stessa è gioco, e quindi comprendere l'esistenza come luogo in cui si esprime il grande gioco tra la realtà, l'uomo e Dio, nella storia. Chi poi ha appreso la difficile arte del gioco, può percepire, in una dialettica tra gratuità e dono, l'esistenza quotidiana nella sua unità, in una sintesi vitale. In questo senso, il gioco è sempre novità, è rivoluzionario, implica il rischio, in quanto è scommessa ultima sulla vita. Per questo il gioco fa crescere le persone libere alla ricerca della verità. Ed esige la fiducia reciproca. «Anche il linguaggio umano è uno splendido gioco o meglio, un gioco comunitario. Parlandoci a vicenda con fantasia e immaginazione, scoprendo le grandi possibilità del nostro linguaggio, noi diventiamo compagni di gioco che si aiutano l'un l'altro a scoprire le dimensioni essenziali della verità. Il fatto che con le parole uno possa fare anche un gioco fatuo, non contraddice queste verità, ma semplicemente smaschera colui che non rispetta le regole del gioco. Il gioco del linguaggio e delle parole, quando è genuino, è fonte di gioia. È l'esperienza che la mia verità è bella solo se diventa anche la tua e che non troverò la mia verità se non sono aperto alla tua».[13]
    Ed è forse grazie a questa esperienza del ludico che vivendo la tensione della felicità, della compagnia, nell'amore, occorre in ogni momento decidere di «giocarsi la vita».
    Acquista allora una rilevanza tutta particolare il tema della «scommessa» Poiché giocare è in fondo una profezia: il gioco, con la sua struttura logica, sospende il mondo serio, portando nello spazio-tempo del ludico, quasi ad affermare che ogni atto gioioso e creativo può e deve superare qualsiasi atto distruttivo.

    L'HUMOR: ESPERIENZA Dl SUPERAMENTO

    Soprattutto nei paesi di lingua inglese è andata diffondendosi una particolare attenzione al senso dell'umorismo, tema invece abbastanza estraneo alla nostra cultura. Eppure ci sembra importante, proprio nel contesto del discorso sulla felicità, riflettere sull'umorismo, un atteggiamento tanto spontaneo, quanto profondo.
    L'umorismo (come si presenta nella letteratura, e, pur semplicemente, nell'esperienza di tanti piccoli fatti quotidiani), comunica una saggezza molto profonda. La capacità di sorridere, di cogliere le incongruenze di tante situazioni, è possibile solo quando si è stabilito un rapporto maturo con la realtà circostante.
    Probabilmente il senso del comico e dell'umorismo può essere considerato un'esperienza di «disclosure»: «si tratta sempre di situazioni che offrono aspetti osservabili ed anche qualcosa al di là dell'osservabile, qualcosa che si vede e qualcosa che non si vede». In altri termini, significa che ad un certo punto la realtà presenta un'improvvisa chiarezza, si apre, «dischiude» qualcosa di più. Per capire a quali tipi di esperienza facciamo riferimento, secondo la formulazione di Ramsey, possiamo riportare un esempio semplicissimo, eppure estremamente rappresentativo di come l'umorismo è talvolta la chiave fondante dell'aprirsi di una situazione. «Prendiamo un party freddo e formalistico, dal quale l'etichetta esclude i sentimenti personali. Tutti si nascondono dietro le parole e i gesti che sono di obbligo in queste circostanze. Poi d'un tratto la giacca di qualcuno si stacca sulle spalle, oppure qualcuno si siede su una sedia che crolla per terra. Di colpo il formalismo è rotto (il ghiaccio è rotto) e si manifestano i sentimenti umani. I teologi, eventualmente presenti, direbbero che il party è entrato in un'altra dimensione».[14]
    L'umorismo poi, scaturisce sempre da situazioni paradossali che sono estremamente diffuse soprattutto sul piano delle comunicazioni umane e il cui prototipo può essere rappresentato da questo messaggio «Sii spontaneo!» (chiunque riceva questa ingiunzione si trova in una situazione insostenibile, perché per accondiscendere dovrebbe essere spontaneo dentro uno schema di condiscendenza e non spontaneità).
    Ed è interessante notare che non solo l'uomo è estremamente sensibile alle situazioni paradossali, ma soprattutto è evidente che «molte delle più nobili attività e conquiste della mente umana sono intimamente legate con le capacità che ha l'uomo di vivere l'esperienza del paradosso.
    La fantasia, il gioco, l'humour, l'amore, il simbolismo, l'esperienza religiosa nel senso più esteso del termine (dal rituale al misticismo) e soprattutto la creatività sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali».[15]
    Significativamente P. Berger pensa che l'umorismo (ma anche il gioco, la speranza, la fiducia nell'ordine dell'universo) costituiscano dei segni della trascendenza, espressione con cui vuole indicare quei fenomeni del nostro esistere che sembrano rimandare ad un'altra realtà. Quasi ad indicare che ciò che l'uomo «gode» nel mondo è pieno di qualche cosa che è più grande di sé. Così il comico e l'umorismo che nascono dalla percezione di una sproporzione fondamentale che per Berger è sproporzione tra l'uomo e l'universo, ci forniscono un segno della trascendenza in quanto ci permettono di comprendere che «l'imprigionamento dell'uomo nel mondo» non è definitivo, resta tra parentesi.[16]

    UNA FELICITÀ PER TUTTI

    «La difficile sintesi che vince la disperazione e la falsa gaiezza del nichilismo è ancora quella data dalla capacità di amare la vita umana, anche se essa è un frammento minuscolo nel ciclo cosmico, e di comprendere che, nonostante la sua precarietà, essa ha un posto per sempre nello spazio del mistero dove l'assoluto ha il suo luogo. Essere uomini è un'avventura effimera ed eterna nello stesso tempo. Il radicamento nella felicità dell'eternità è dato da come si svolge l'impegno dell'uomo nella storia. In quel breve attimo che rispetto al ciclo dell'universo è il tempo di tutta la storia umana».[17]
    Occorre per questo entrare in una logica secondo la quale i piccoli eventi di ogni giorno costituiscono già nella loro frammentarietà e povertà un'anticipazione di quella gioia infinita a cui è chiamata la vita dell'uomo. Ma allora vivere diventa un'arte... «Per stimolare la nostra percezione della vita, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra, esiste ciò che noi chiamiamo arte. Il fine dell'arte è di darci una sensazione della cosa che deve essere visione e non solo cognizione. Per ottenere questo risultato l'arte si serve di due artifici: lo straniamento delle cose e la complicazione della forma, con la quale tende a rendere più complessa la percezione e a prolungarne la durata. Nell'arte il processo di percezione è infatti fine a se stesso e deve essere protratto. L'arte è un mezzo per esperire il divenire di una cosa; per essa ciò che è già dato non ha alcuna importanza» (Sklovskij). In altri termini, l'attività conoscitivo-simbolica che scaturisce dall'atteggiamento artistico, coinvolge esistenzialmente ogni uomo, il quale, come abbiamo visto, dando un segno alle cose è costretto ad interpellarsi consapevolmente o no, su di sé e sul «mondo». Insomma, è quasi come se, ogniqualvolta l'uomo dice con i segni la realtà, ripetesse sottovoce la domanda: io esisto? e poi ancora: posso essere felice questa mattina? ma l'amore che scopro nella fragilità di questa vita non è forse domanda e invocazione di un radicamento nell'infinito?
    Ma allora, accogliere l'esistenza in pienezza significa essere degli artisti, e anche... dei mistici. Questo tema non ci invita «a nessuna dimensione ex-statica. (...) L'estasi è un uscir fuori di noi, fare un'esperienza che eccede il visibile. L'accesso di cui si è parlato manca di qualsiasi aura estatica, di qualsiasi "eccezionalità". Non fa intuire l'invisibile. Ma porta all'evidenza da sempre evidente. Mistico è il mostrarsi. Il mistico si mostra».[18] Quando anche la scienza avesse risolto tutti i nostri problemi, rimane il mistero insondabile dell'uomo. Se «il riconoscimento del mistico è saper vedere il visibile», tutto il visibile del quotidiano non è facile. Occorre perforare il quotidiano, andare fino in fondo, aprire il nostro linguaggio a ciò che eccede.
    Il modo un po' povero di raccontare della vita e dei desideri dell'uomo di questi fogli, vorrebbe essere provocazione e invito perché ognuno ricominci da capo a scrivere la sua storia...

    NOTE

    [1] Rahner-Weger, op. cit., pag. 5-6.
    [2] Per questa citazione e quella seguente, I. Mancini, Cultura giovanile: dalla crisi dell'epoca nuova al pensiero negativo, in Il Regno/Att., n. 14/1981, pag. 323-334, su questo tema cfr. NPG, n. 5/1982.
    [3] Cit. in Rahner-Weger, op. cit., pag. 22.
    [4] M.A. Beek - J. Sperna Weiland, Martin Buber, Queriniana, Brescia, pag. 59.
    [5] W. Kasper, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia, pag. 30.
    [6] P. Freire, L'educazione come pratica di libertà, Milano, Mondadori, pag. 132-133.
    [7] A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna 1980, pag. 15.
    [8] Cf a questo proposito, M. Pollo, L'animazione culturale. Teoria e metodo, LDC, Torino, pag. 23 e ss.
    [9] G. García Marquez, Cent'anni di solitudine, Feltrinelli, Milano, pag. 51-57.
    [10] W. Kasper, op. cit., pag. 47.
    [11] B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, vol. II, ed. Paoline, pag. 177.
    [12] Gadamer, op. cit., pag. 134-135.
    [13] Häring, op. cit., pag. 181.
    [14] J. Gevaert, Esperienza umana e annuncio cristiano, LDC, Torino, pag. 64
    [15] P. Watzlawick - J.K. Beavin - D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, pag. 197 e 294.
    [16] P.L. Berger, Il brusio degli angeli, Il Mulino, Bologna, pag. 92-126.
    [17] M. Pollo, Alle radici del nichilismo per ritrovare una via di uscita, in NPG, n. 5/1982, pag. 21.
    [18] M. Cacciari, L'esperienza impossibile a dirsi, in Teologia e Progetto/Uomo, Cittadella, Assisi, pag. 45-46.


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