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    La comunità educativa nella scuola cattolica



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1982-10-3)


    Con questo dossier/studio di Riccardo Tonelli vogliamo riportare l'attenzione dei lettori sui problemi della scuola di ispirazione cristiana, rimasti in ombra nelle ultime annate della rivista.
    In effetti, lo sforzo più rilevante della redazione in questi ultimi tempi è stato ripensare in termini globali la pastorale giovanile e delineare un originale itinerario di educazione alla fede, nella logica della teologia della Incarnazione e nella logica educativa dell'animazione intesa come quadro antropologico e metodologico di tutto il cammino.
    A questo punto sentiamo il bisogno di fare nuovamente riferimento ai vari ambienti ed istituzioni educative e di applicare i criteri, gli obiettivi, e le strategie generali alle varie situazioni giovanili.
    Il prossimo anno, o, se si vuole, fin da questo dossier, intendiamo occuparci con calma dei problemi della scuola.
    A questo compito, oltre la decisione, come si accennava, di concretizzare il nostro itinerario di educazione alla fede per i vari ambienti pastorali, ci sollecitano due fatti. Il primo fatto sono le mutate condizioni sociali e culturali che hanno determinato un nuovo assetto dell'ambiente scuola, in particolare della cosiddetta scuola cattolica.
    Il secondo fatto è la riforma in atto della scuola secondaria superiore. Proprio all'animazione della scuola secondaria superiore di ispirazione ecclesiale dedicheremo uno o più dossier, a seconda delle esigenze che emergeranno.
    Questo dossier dedicato alla «comunità educativa» in un tempo di pluralismo e crisi culturale, è dunque solo un primo passo di una riflessione che intendiamo continuare per un intero anno.

    1. La comunità educativa in un tempo di pluralismo

    DALLA CRISI DEI PROCESSI EDUCATIVI TRADIZIONALI ALLA ESIGENZA Dl UNA COMUNITA' EDUCATIVA

    I processi educativi tradizionali hanno sofferto di due grossi limiti. Essi sono diventati evidenti quando sono crollati i sostegni esterni che controbilanciavano le carenze progettuali.
    Il primo limite è quello dell'individualismo.
    L'azione pedagogica ha condotto per molto tempo i suoi interventi sul livello prevalentemente individuale. Le istituzioni normalmente deputate alla socializzazione dei giovani (la famiglia, la scuola, l'associazione, la parrocchia...) fornivano l'occasione del dialogo educativo. Non erano considerate un luogo di esperienza dei valori, con una risonanza strutturale e collettiva, ma come luogo in cui gli educatori facevano le loro proposte, in un rapporto a tu per tu. Il processo era favorito dalla stabilità e dal prestigio sociale di cui godevano le varie istituzioni.
    Il secondo limite è determinato dalla settorialità.
    L'educazione dei giovani era spesso un processo parziale rispetto all'andamento globale della società, finalizzato prevalentemente all'integrazione e all'adattamento.
    Oggi, sono profondamente mutate le condizioni che giustificavano il procedimento tradizionale e ne assicuravano l'incisività nonostante i limiti oggettivi. Da una parte viene sempre più affermata la forza propositiva delle istituzioni in quanto tali. Dall'altra parte è scaduta la capacità di presa delle istituzioni tradizionali, per lasciare il posto ad altre istituzioni alternative.
    Inoltre, in un tempo e in sistemi sociali di diffuso pluralismo culturale vanno in crisi soprattutto le istituzioni educative più deboli, quelle che non sanno cavalcare le leggi economiche e politiche. Circolano così proposte educative poco controllabili dai gestori tradizionali dell'educazione dei giovani. Non sempre i modelli di vita e di realizzazione personale, diffusi dai mezzi di pressione sociale, sono orientabili verso i contenuti dell'educazione della fede.
    Molti educatori fanno proprie queste constatazioni e cercano un modello nuovo di relazione educativa. Nelle affermazioni teoriche e nella prassi quotidiana ritornano alcune costanti, considerate come qualificanti. Per esempio:
    - la consapevolezza che l'educazione non si conclude nel tempo della maturazione fisica e psicologica, ma si riferisce all'uomo nella sua totalità, durante tutta la sua esistenza; per questo ha come obiettivo quello di rendere la persona capace di affrontare e risolvere tutti i problemi della vita, sapendo inventare le disposizioni necessarie a vivere in una società che sarà sicuramente diversa da quella attuale (La scuola cattolica, documento della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica, 26-27);
    - la necessità di creare un ambiente, ricco di fascino, per diventare luogo di identificazione, e carico di valori per risultare propositivo: così la proposta educativa diventa prima di tutto un fatto esperenziale (SC 53);
    - il riferimento costante al «territorio», allo spazio cioè reale di appartenenza e di vita, per dare ai progetti educativi una effettiva risonanza culturale e sociale e per attivare processi di revisione critica (SC 48);
    - l'allargamento della responsabilità e della funzione educativa a tutti coloro che nei processi di crescita hanno una relazione di fatto, anche se a titoli diversi; questo allargamento permette la corresponsabilizzazione educativa attraverso il dialogo e il confronto (SC 67);
    - nell'ambito dell'educazione alla fede, il riferimento al territorio e l'allargamento di responsabilità diventano inserimento continuo e approfondito nella chiesa locale, anche per quelle istituzioni educative, come la Scuola Cattolica, che tradizionalmente agivano in modo autosufficiente (SC 60-61);
    - l'elaborazione di un progetto educativo, per creare una piattaforma di consenso, a partire dalla quale realizzare quella condivisione dei fini educativi, che è indispensabile per ogni processo promozionale (SC 34, 59, 70);
    - la corresponsabilizzazione dei «destinatari» del processo, considerati come soggetti, a pieno titolo, della personale promozione educativa (SC 61);
    - l'invenzione di strutture di partecipazione, che rendano praticabili concretamente queste istanze (SC 70).
    L'insieme di queste esigenze e i diversi processi che ne permettono la realizzazione pratica, nella istituzione scolastica formano un modello di gestione del fatto educativo e culturale. Esso si chiama globalmente comunità educativa.
    «Comunità educativa» non è quindi una nuova istituzione educativa, ma rappresenta un modo di gestire l'istituzione scolastica che tenta di superare i limiti dell'educazione tradizionale per tenere conto delle nuove sensibilità emergenti.

    I PUNTI PROBLEMATICI

    Sulla esigenza di educare e produrre cultura in termini di «comunità educativa» c'è oggi un largo consenso.
    Se però ci guardiamo attorno con attenzione critica, costatiamo che le realizzazioni concrete della comunità educativa sono tutt'altro che omogenee.
    Il passaggio dalla sensibilità generica alla prassi viene infatti filtrato dalla visione antropologica e teologica di coloro che nelle istituzioni concrete, di fatto detengono già la responsabilità educativa formale.
    Se la comunità educativa si costruisce attorno alla corresponsabilità, si richiede una cessione di responsabilità (e quindi di potere educativo) da parte di chi ne ha posseduto il monopolio (almeno per delega), verso chi si vuole corresponsabilizzare Se inoltre, laskbxufuzà educativa vuole dilatare i confini dello spazio educativo, per farli coincidere con il territorio esistenziale, si richiede un cambio di prospettiva da parte dell'istituzione tradizionalmente protettiva e per questo autosufficiente e chiusa.
    L'educazione in prospettiva cristiana richiede l'accoglienza di un progetto di vita che ci è offerto in dono; coloro che sono chiamati a testimoniare questo evento, si sentono depositari di una responsabilità che potrebbe vanificarsi quando è troppo allargata. Per questo, corresponsabilità e apertura non sono mai dati assoluti, perché esigono il confronto con esigenze irrinunciabili e la gradualità, sulla misura della oggettiva capacità di interiorizzazione da parte dei soggetti.
    Ma quali sono queste esigenze educative e queste capacità personali? Fino a che punto corresponsabilizzare?
    Anche se molti operatori vivono questi problemi solo a livello pratico, le differenti soluzioni adottate per mettere in cantiere la comunità educativa hanno alla radice questi nodi culturali. Si spiegano così le realizzazioni parziali o carenti, i facili riflussi autoritari o le rinunce ad ogni pretesa formativa.
    Nel vasto panorama della prassi ci sembrano emergenti alcuni punti problematici. La loro persistenza e gli esiti differenti in cui evolvono dimostrano che il largo accordo teorico sulla importanza della comunità educativa si frantuma quando si lavora per la sua realizzazione pratica.

    La comunità educativa tra componente comunitaria e componente societaria

    La svolta concettuale introdotta nelle istituzioni educative dall'impegno di costruire «comunità educative» è tutta giocata sul termine comunità. Purtroppo anche questa parola, pur appartenendo ormai da quasi un secolo al lessico pedagogico corrente, non si è liberata dal rischio di amplificazioni retoriche o di utilizzazioni strumentali. Come tutte le parole-chiave che indicano un cambiamento di rotta, «comunità» può essere utilizzata in modo esasperato o riduttivo, perdendo così la magia progettativa con cui è stata teorizzata.
    La concettualizzazione di «comunità» si contrappone spesso a società, a quel termine cioè che indica gli aspetti più esteriori e contrattuali della convivenza umana e della gestione educativa. La componente comunitaria esprime l'esigenza della personalizzazione dell'istituzione nelle relazioni interne e nei rapporti con l'esterno, mentre quella societaria sottolinea maggiormente i fini istituzionali che sono di natura essenzialmente «produttiva».
    In questo caso, la comunità si definisce sul rifiuto dell'alienazione, dell'anomia, dello sradicamento, dell'isolamento, della spersonalizzazione, come si manifestano nelle istituzioni massificate, caratterizzate dalla tendenza verso una razionalità formale di tipo tecnocratico e della prevalenza di preoccupazioni organizzative e burocratiche.
    Quando queste distinzioni sono forzate, si giunge a contrapporre dimensioni che invece dovrebbero risultare complementari. E questo rende instabile e difficile l'equilibrio tra bisogni funzionali e bisogni espressivi, tra efficienza e soddisfazione, tra svolgimento di compiti e arricchimento personale.
    Quando la soluzione pratica tende ad annullare uno dei due poli di tensione o a distinguerne i tempi di realizzazione, si instaura una specie di «divisione del lavoro», riproducendo la stessa logica del sistema sociale.
    Nell'istituzione ci sono i momenti in cui si lavora per produrre cultura e formazione. In questi tempi produttivi non c'è spazio per la corresponsabilità: chi possiede informazioni le trasmette a chi ne è privo, senza troppe attenzioni partecipative.
    Per fortuna, nell'istituzione ci sono anche i momenti del «tempo libero». E in essi si scatena la partecipazione: gli educatori svestono la loro toga formale, sono tutti con i giovani, davvero «alla pari», in una festa che ripaga dei tempi duri destinati al lavoro.
    La gratificazione senza efficienza sostiene e rende vivibile l'efficienza senza gratificazione.
    Ma questa non è più comunità educativa. Nel momento del lavoro senza partecipazione, comunità educativa diventa etichetta vuota e retorica, che copre una gestione educativa spersonalizzata, motivata sulla logica ferrea di scadenze e di ritmi produttivi.
    Quando prevale la gratificazione senza formazione, la voce «comunità educativa» assicura una copertura, socialmente riconosciuta, al disimpegno professionale e alla consegna rassegnata allo spontaneismo inconcludente.

    Comunità educativa e funzione educativa

    La comunità educativa può essere inoltre vissuta in modo riduttivo, quando essa viene intesa operativamente solo come strumentale rispetto ai processi informativi.
    Valori e beni educativi sono considerati già definiti in modo conclusivo, a prescindere dall'esistenza dei soggetti che costituiscono la comunità. Gli educatori hanno il compito di presentare questi valori ai giovani e di sostenere la loro interiorizzazione. Il loro servizio è fondamentalmente di «mediazione» quasi tecnica.
    La comunità educativa sostiene l'identificazione dei giovani alla struttura educante, li rende disponibili alle proposte, crea lo spazio in cui attivare la mediazione educativa. Per questo essa risulta preziosa: favorisce infatti la circolazione dei valori.
    Ridotta così la comunità assolve solo la funzione di «occasione» per processi che restano costitutivamente individualistici e deduttivi: un «a tu per tu», tra chi offre e chi accoglie.
    La costruzione della comunità educativa non connota un diverso modello educativo, ma solo una rivincita strumentale contro il contesto culturale disaggregante e disimpegnato.

    Comunità educativa e relazione educativa

    L'affermazione che la comunità è il soggetto della produzione dei valori può essere trascinata alla sua esasperazione. E così siamo ad un'altra realizzazione carente di comunità educativa.
    In questa prospettiva si rifiuta l'esistenza di valori normativi e di conseguenza salta la funzione specialistica degli educatori. Se è valore solo quello che lo è soggettivamente, non servono «proposte»: il dialogo educativo è sempre «alla pari». Possono esistere solo «esperti», con il compito di immettere nel crogiolo della ricerca comune le informazioni che si possiedono. Il loro ruolo non è mai propositivo; soprattutto non possono pretendere di avere una chance in più in merito ai processi formativi. L'esito di questo modello è la soggettivizzazione agnostica dei valori e l'appello ad una creatività autonoma, senza nessuna offerta di adeguati sostegni promozionali.
    Si riconduce alla stessa logica (e in ultima analisi allo stesso esito) anche quel modello di comunità educativa che risolve la relazione educativa sulla «pressione di conformità»: che sollecita ad un adattamento passivo alle norme e ai comportamenti che nella comunità riscuotono consenso, senza permettere una verifica personale, critica e liberatrice.
    In questo caso, la gestione dei processi formativi è affidata a pressioni strutturali e sfugge quindi alla responsabilità personale. Esattamente come nel modello precedente, perché la creatività si può esprimere con verità solo all'interno di una reale liberazione personale e sociale, altrimenti è ripetizione camuffata di orientamenti eteronomi e di induzioni istintuali. Quando la soggettivizzazione è senza alcuna norma, si lascia perciò campo libero a tutta la pressione strutturale, che già ci involge tutti. Non è difficile vedere in questa impostazione educativa, il prodotto di una società capitalista che, di fatto, favorirà sempre più il già favorito e emarginerà ulteriormente l'emarginato, nono stante le proclamazioni contrarie.
    Per il loro legame sotterraneo, i confini tra soggettivizzazione, non-direttività acritica e conformismo sono molto labili: una scelta può nascondere o tradursi velocemente nell'opposta.
    In ogni caso, non esiste comunità educativa, perché essa non sa diventare luogo di integrale promozione educativa: luogo in cui ciascuno fa esperienza di essere accettato incondizionatamente proprio mentre viene sollecitato a confrontarsi con un progetto che lo supera e lo giudica.

    Comunità educativa e corresponsabilità educativa

    Il quarto punto problematico investe in modo del tutto specifico le Scuole Cattoliche. Esse, infatti, si qualificano sull'obiettivo: anche nei processi educativi l'orientamento ultimo è verso quella novità di esistenza che Gesù Cristo è e ci propone. Su questo obiettivo non è possibile transigere (SC 9,33-36).
    Si può parlare di corresponsabilità piena, quando i giovani fanno altre domande in merito alla loro educazione? La corresponsabilità, in questo caso, è solo sui mezzi e non sui fini. Ma questa corresponsabilità è sufficiente per costruire comunità educativa?
    Il problema è complicato ulteriormente dal fatto che nella comunità educativa sono chiamati ad una piena responsabilità anche i collaboratori laici, i genitori e le altre forze sociali. Ma, ancora una volta, quale corresponsabilità? Possiamo rinunciare al nostro progetto educativo per salvare la corresponsabilità o dobbiamo pre-richiedere l'accettazione totale dell'impegno evangelizzatore? In un tempo di pluralismo culturale come risulta quello che stiamo attraversando, ci può essere un unico progetto educativo e pastorale?
    Quando si pongono delle condizioni pregiudiziali, si può ancora parlare di corresponsabilità o non scivoliamo nella gestione autoritaria?
    Molte comunità educative soffrono dei problemi denunciati: o svuotano la corresponsabilità, perché affidano la decisione sui fini all'Ente religioso gestore e sollecitano i collaboratori ad una sola presenza strumentale; o rinunciano al progetto educativo e pastorale tipico, per rispettare una corresponsabilità formale.
    Alcune comunità educative, aperte ad una più intensa gestione sociale, vivono in modo drammatico questi conflitti, anche perché essi trascinano con sé il difficile rapporto tra educazione ed evangelizzazione, tra obiettivi civili e impegni pastorali, tra responsabilità accademiche e competenze religiose.

    Comunità educativa in un tempo di crisi

    L'ultimo punto problematico esprime una situazione forse non generalizzabile a tutti i contesti culturali, ma sicuramente presente là dove la crisi di idealità e di speranza è particolarmente acuta.
    Noi parliamo di comunità, preoccupati di raccogliere attenzione e consenso attorno a questo dato perché lo stimiamo importante. Facciamo un discorso che è finalizzato a creare il desiderio di tentare, di cambiare, di costruire.
    Molti educatori, però, hanno già tentato. Hanno già giocato tutte le loro speranze sulla comunità. Sono diventati sensibili ai temi della partecipazione e della corresponsabilità, in forza delle pressioni contestative alla fine degli anni sessanta. Purtroppo, qualche volta, i progetti sono rovinati addosso, producendo disillusione e scoramento.
    Viviamo in un tempo in cui partecipazione e corresponsabilità sono nel fuoco di una diffusa crisi culturale e ideale.
    Le riflessioni sulla comunità educativa si scontrano oggi contro due realizzazioni riduttive, che molti prediligono perché sembrano vincenti rispetto alla crisi.
    Alcuni educatori stanno ricavandosi un angolo praticabile e governabile, in cui giocare tutto il loro entusiasmo. Alla istituzione dedicano il tempo professionale, in un rigido rapporto di dare-avere. Le loro speranze, la creatività educativa e ogni sussulto partecipativo, vengono invece riservati ad ambiti più ristretti dove predominano i riferimenti vitalistici.
    La vera comunità educante è questa: più ridotta, più a misura d'uomo, più aperta a produrre una nuova qualità di vita. L'altra, quella «di fatto», rappresenta solo la condizione da assolvere, per potersi dedicare più autenticamente alla prima.
    La seconda riduzione risulta come logica conseguenza della precedente. Il rapporto educativo non raggiunge più la totalità dei soggetti con la stessa intensità. Alcuni fruiscono solo dei rapporti formali e necessari, essi non chiedono corresponsabilità ma solo informazioni; e sono accontentati tranquillamente. Una élite di giovani, particolarmente sensibili e culturalmente raffinati, godono invece di una attenzione partecipativa privilegiata. Con essi si lavora per produrre e per consumare qualcosa di nuovo e originale, nell'ambito umano ed ecclesiale.
    Certo, le ragioni di questi orientamenti educativi sono prima di tutto strutturali, perché sono legate alla crisi in atto. Ma in questa prospettiva, accettata passivamente, possiamo ancora aprire la ricerca sulla comunità educativa?

    2. Come costruire comunità educativa?

    Se non vogliamo ridurre l'apparente consenso sulla comunità educativa ad un dato solo formale, dobbiamo approfondire il significato sostanziale: dire cioè a quali obiettivi deve tendere e come deve strutturarsi per poterli raggiungere.
    Precisando così la funzione della comunità educativa, la sua maturità e identità nell'oggi, diremo qualcosa in merito a punti problematici con cui si è aperta questa riflessione, almeno indirettamente.

    LA FUNZIONE DELLA COMUNITÀ EDUCATIVA IN UN TEMPO DI PLURALISMO

    La prima annotazione riguarda la ragione di esistenza della comunità educativa.
    La nostra posizione è molto categorica: una «comunità» è indispensabile nell'azione educativa, perché essa diventa luogo di riferimento, in tempo di pluralismo, per la formazione e l'eventuale cambio degli atteggiamenti nei processi di maturazione umana e cristiana.

    I processi formativi

    Con il termine, un poco vago, di processi formativi indichiamo l'insieme degli interventi, diretti e indiretti, mediante cui circolano determinati valori, in una convivenza educativa. Attraverso questi processi, i membri della comunità entrano in contatto con proposte, ulteriori rispetto alle loro esperienze, più ricche del già acquisito. In questo confronto, che coinvolge tutti, in un rapporto di dare e ricevere, si realizza la maturazione delle persone. Parliamo di «processo» perché tutto questo avviene sul ritmo dell'esistenza reale del gruppo umano; quindi sempre in termini dinamici. E di processo «formativo», perché pensiamo ad una operazione promozionale.
    Attraverso i processi formativi, la comunità educativa sollecita ciascuno ad acquisire quelle conoscenze e quegli atteggiamenti che determinano una matura e seria «competenza sociale e professionale».
    E questo non in modo impositivo, come se i valori da comunicare esistessero al sicuro nei centri decisionali, culturali, politici o religiosi, e la comunità educativa avesse solo una funzione strumentale, per farli passare più adeguatamente. Al contrario, attivando un processo di crescita permanente, in cui la comunità resta il soggetto delle concrete valorizzazioni (di quel processo cioè che traduce i valori in quadri di riferimento per le situazioni di vita, sollecitando ogni persona ad elaborare un suo sistema di significati). Nel crogiuolo di questo soggetto vivente, i valori prendono corpo, in una riformulazione capace di elaborare in modo creativo anche i dati perenni.
    Così, la comunità educativa diventa concretamente luogo di «socializzazione» matura, perché aiuta ad acquisire le norme e i comportamenti socialmente rilevanti, favorendo una progressiva e critica partecipazione.

    Quali processi formativi?

    Siamo convinti che non è possibile definire in astratto i processi formativi. Il procedimento corretto è un altro: stabilire l'obiettivo a cui i processi devono tendere e scatenare la creatività della comunità, per decidere i concreti processi, pronti a modificarli sulla misura dell'obiettivo.
    In questo contesto ci poniamo un problema più radicale. È necessario un ambiente per attivare processi formativi o possono essere disciolti nel groviglio del sistema sociale, affidati ad una società «descolarizzata»?
    La maturazione di una persona si realizza attorno al nodo esistenziale degli atteggiamenti: nell'acquisizione di atteggiamenti «positivi» e nel consolidamento o nel cambio progressivo di quelli già interiorizzati.
    I processi formativi si misurano su questo parametro. La loro validità sta o cade nei termini in cui sanno produrre atteggiamenti.
    L'operazione di acquisizione, consolidamento e cambio non avviene nel vuoto; essi, al contrario, maturano per esperienza e per identificazione. Definiamo «identificazione» il processo attraverso cui una persona, anche senza esserne chiaramente consapevole, giunge a far proprie qualità, caratteristiche e valori, percepiti in un'altra persona riconosciuta come importante e autorevole. I valori che si respirano nell'istituzione educativa, quelli che strutturalmente riscuotono consenso, quelli incarnati nei modelli di riferimento, sono sempre la più incisiva proposta formativa, perché incanalano i diversi comportamenti verso il loro consolidamento in atteggiamenti, attraverso appunto il processo di identificazione.
    Si richiede quindi un luogo fornito di sufficiente omogeneità culturale e carico di fascino, per risultare capace di creare identificazione; un luogo in cui si faccia esperienza di un modo qualificato di vivere da uomini, per risultare positivamente propositivo.
    In un tempo di pluralismo come è il nostro, molte istituzioni formative si sono ridotte a crocevia disarticolato e disimpegnato, in cui scorrono le proposte le più disparate. E così scade la capacità di attrazione dei modelli positivi.
    La comunità educativa, se ben compresa e vissuta, può rappresentare invece l'indispensabile momento di riferimento e rinforzo sociale.
    La comunità diventa così il luogo privilegiato per esperimentare in concreto i valori; quelli irrinunciabili, presenti nella memoria sociale della collettività, attraverso la mediazione dell'adulto (per evitare di costruire il presente tagliando i ponti con il passato); e quelli innovativi, facendo della comunità il crogiuolo di questi valori, mediante il confronto critico con modelli e la partecipazione ad esperienze significative.

    QUALE COMUNITÀ EDUCATIVA

    Abbiamo aperto questo studio con un sospetto: il largo consenso sulla comunità educativa si frantuma quando ci si scontra sui problemi concreti della sua gestione. Se la nostra ipotesi è vera, dobbiamo costatare che il pluralismo culturale non rappresenta solo il contesto in cui sono collocate anche le nostre comunità, ma che esso le attraversa profondamente.
    Per realizzare in modo corretto e sufficientemente omogeneo i processi di progettazione educativa è quindi importante tentare di raggiungere una immagine condivisa di comunità educativa.
    Sul piano formale, questo significa definire il grosso nodo del rapporto tra unità e diversità nella stessa comunità. Sul piano sostanziale dovremo poi individuare il «nucleo minimo» di valori su cui costruire l'unità (ne parleremo al paragrafo successivo).

    Unità e diversità nella comunità

    Nella comunità educativa matura, aperta e pluralista, non tutti possono fare le stesse cose e soprattutto queste non possono essere prodotte allo stesso modo. Lo proibisce il rispetto della irripetibilità personale e il dovere di accogliere il diverso-da-sé come proposta di arricchimento. Lo impedisce il clima di pluralismo: a prescindere dalla sua valutazione, esso resta un fatto con cui fare i conti. D'altra parte, non si può parlare di comunità educativa se non quando si raggiunge un minimo di convergenza sui valori di fondo e sugli obiettivi dell'esercizio della comune corresponsabilità.
    L'unità potrebbe essere ridotta ad una esigenza-limite. In questo caso trova spazio la diversificazione, ma a scapito della convergenza, perché essa è giocata su dati così esigui da risultare inesistenti. Oppure l'unità potrebbe essere pretesa in una enfasi totalizzante e onnicomprensiva. In questo caso, si brucia la diversificazione, trasformando la necessaria unità in una piatta uniformità.
    La soluzione di questo conflitto non sta nel «giusto equilibrio», incapace di cogliere la radice dei problemi. E neppure può essere lasciata ai rigurgiti autoritari o agli espropri soggettivi, perché siamo in una dimensione costitutiva della comunità.
    L'unità si costruisce attorno alla condivisione, dialettica e progressiva, di quel nucleo di significati operativi che definisce la «nostra» comunità educativa: la sua funzione, la sua identità e maturità.
    La diversificazione è invece la traduzione operazionale di questo quadro condiviso. Si tratterà di una diversificazione molto ampia, perché sostenuta dalle responsabilità e dalle sensibilità personali, dai compiti e dalle urgenze educative; in una parola, da quel concreto e quotidiano qui-ora in cui prendono corpo e si riformulano valori e obiettivi.
    In questa proposta, unità e diversificazione sono in reciproco riferimento: l'unità si concretizza nella diversificazione e le diverse operazioni trovano un punto di raccordo profondo e di verifica nei valori costitutivi della unità.

    Un nucleo condiviso di valori: il progetto educativo

    Per costituire comunità educativa, non è sufficiente che i membri condividano una immagine di comunità. Ridotto così, il discorso infatti resterebbe prevalentemente sul piano formale: si condivide la struttura portante, senza entrare nel merito dei valori che questa struttura è chiamata a sostenere e a produrre.
    Si può parlare seriamente di comunità educativa solo quando si realizza una convergenza dinamica anche attorno ai valori che sostengono il processo educativo. Ma proprio qui nascono i problemi più gravi, se teniamo presente il fatto del pluralismo e la necessaria collaborazione interculturale in cui realizziamo il nostro servizio. Il problema si complica quando ci si rende conto che le Scuole Cattoliche, per fedeltà alla loro matrice, hanno irrinunciabili obiettivi evangelizzatori.
    Esistono quindi conflitti sulla definizione della funzione educativa, a partire dall'immagine di uomo e di sistema sociale in cui ci si riconosce. Ed esistono contrasti sull'obiettivo di evangelizzazione a cui questa funzione è chiamata. Non possiamo infatti dare per scontata l'esperienza e la domanda di fede, né per i nostri collaboratori né tanto meno per i giovani che cercano il nostro servizio educativo. Sul piano pratico, poi, questi contrasti si traducono nel difficile accordo sulle priorità, sui ritmi, sull'utilizzazione delle strutture, sul significato da attribuire a formule-chiave come «rispetto della persona», «fare proposte»...
    Se le cose stanno così, possiamo ancora parlare di comunità educativa? Non è meglio riformulare tutto sulla logica, più comoda, dell'offerta-domanda?
    Crediamo che si possa parlare di comunità educativa e che si possa creare una vera corresponsabilità nella diversità, se elaboriamo il nostro progetto educativo consapevoli dello stretto rapporto esistente tra educazione e evangelizzazione, come afferma una tendenza molto diffusa di teologia pastorale.
    Da questa visione nasce la consapevolezza che non c'è educazione alla fede se non all'interno di un impegno serio di promozione liberatrice e integrale dell'uomo.
    E questo significa mettere l'uomo al centro, sempre: l'uomo concreto, storico e situato, la «persona» dei nostri giovani.
    Compreso in questa prospettiva, il nostro progetto educativo diventa luogo di comunione e di confronto, anche tra diversi. Essendo centrato sull'uomo e sulla sua maturazione integrale, tutti coloro che sono interessati alla sua formazione risultano i benvenuti. Si richiede la disponibilità a cercare e a servire l'uomo.
    Certo, questo non deve risultare qualunquismo pratico: stemperando il nucleo valoriale non si fa corresponsabilità né comunità. Quando si è seriamente concentrati attorno all'impegno di promuovere l'uomo, non c'è sicuramente il rischio del qualunquismo. Anche perché sappiamo, almeno nella fede, che non possono esistere molte definizioni di uomo. C'è solo l'Uomo: la sua immagine è un dono offerto, da ricercare continuamente e collegialmente.
    Tutti hanno qualcosa da proporre in questa ricerca, perché tutti sono già stati afferrati dall'Uomo. La nostra comune ricerca è la tensione, non ancora risolta, a conquistare la sua risposta. Siamo ancora in ricerca, tutti, perché afferrati almeno implicitamente (ma sempre realmente) dalla sua risposta, cerchiamo ogni giorno con una attesa più radicale.
    Questa disponibilità a cercare, in atteggiamento di accoglienza e di servizio, determina il nucleo minimale attorno a cui costruire la comunità educativa. Si può trasbordarlo per eccesso, quando si pensa di possedere già tutta la verità e ci si offre come suo venditore presuntuoso; o per difetto, quando si rifiuta di concentrarsi sull'accoglienza e sul servizio dell'uomo. Gli uni e gli altri non possono collaborare nella comunità educativa, perché non hanno nulla da condividere. Ed è negata così la corresponsabilità, alla radice.
    Come si nota, il «minimo» per fare comunità non è concepito in prospettiva di quantità ma di intensità di consapevolezza. Lo sviluppo di questo germe, che la comunità serve e sollecita in tutti, non avviene per moduli aggiuntivi, ma mediante sviluppo, germinazione, passaggio dall'implicito al sempre più esplicito.
    Avviene, in altre parole, mediante crescita in umanità, fino a quella pienezza di sé che scopriamo, quando decidiamo gioiosamente di accogliere Colui che già ci possiede e ci investe del suo amore.
    Ritorniamo, per altre strade, ad un tema pregiudiziale in tutto il nostro studio: la comunità è «educante» per tutti, anche se a titoli diversi. Perché tutti, giovani, educatori, genitori, e forze sociali, sono in fase di educazione, iniziale e/o permanente. E questa convergenza educativa è assicurata dal contributo che ciascuno offre e riceve dall'altro.
    Certamente questa proposta va storicizzata e concretizzata, ricordando che ci troviamo in un periodo culturale in cui anche le affermazioni più impegnative possono risultare equivoche, quindi insufficienti per definire il nucleo minimo da condividere per fare comunità educativa. Quest'opera di concretizzazione va realizzata in situazione, tenendo conto della identità istituzionale delle diverse opere, del diverso livello di aggregazione che possiedono, degli interlocutori con cui dialogano.

    La logica dell'animazione

    La comunità religiosa (che in molti casi è il cuore della comunità educativa), in quanto comunità di credenti, anima questa ricerca, testimoniando nella sua fede il «già» definitivo dell'Uomo. Nella stessa logica, coloro che hanno precise responsabilità educative non abdicano al loro ruolo, ma costruiscono processi formativi, servendo il contatto esistenziale con valori.
    La scelta di una profonda corresponsabilità educativa e pastorale non significa perciò la rinuncia ad ogni funzione propositiva né tanto meno quel libertinaggio culturale che pretende un falso «essere alla pari».
    Chi possiede qualcosa riconosce di avere un titolo ulteriore per servire e offre questo «talento», mettendolo nel crogiuolo della ricerca comune. L'educatore adulto e la comunità religiosa per la sua particolare funzione evangelizzatrice fondano così la loro autorità non sul rapporto istituzionale, che nella comunità educativa è stemperato nella corresponsabilità, ma sulla competenza e coerenza, che assicurano una proposta di valori culturalmente significativa e testimoniata dalla loro esistenza.
    In questa prospettiva il dialogo tra educatore e educando, tra gli educatori religiosi e gli altri collaboratori, è ricercato efficacemente, perché nessuno utilizza la differenza per la sopraffazione, ma per il confronto reciprocamente arricchente.
    Questo stile di presenza può essere espresso nella scelta dell'«animazione» come nuovo modello di relazione educativa.
    Animare significa infatti abilitare ogni persona a divenire partecipante attivo e critico dei processi educativi che permeano la sua esistenza; e questo attraverso un metodo formativo globale, che considera l'uomo come un sistema indivisibile e che proprio in questa ricomposizione in unità stimola alla ricerca della via della trascendenza.
    L'animazione risulta così lo stile con cui nella comunità educativa si attua in modo corresponsabile il progetto educativo.

    Strutture di corresponsabilità e di partecipazione

    La comunità educativa ha bisogno di strutture e norme che regolino la partecipazione e assicurino la corresponsabilità. Quando invece la gestione delle riunioni o l'impianto operativo della corresponsabilità comunitaria è lasciato troppo al caso, si corre il rischio di innescare pericolosi processi di manipolazione.
    Ogni comunità si crea le sue strutture di confronto e di dialogo. Affermata l'esigenza, possiamo perciò fare solo degli esempi, ricorrendo a tradizioni educative abbastanza diffuse: consigli a livelli diversi, assemblee, metodologie per la programmazione e la definizione degli obiettivi e per la verifica, organi di coordinamento e di decisione...
    Non è inutile ricordare che il corretto esercizio di queste strutture partecipative richiede una competenza tecnica, da acquisire mediante lo studio delle discipline specializzate (la dinamica di gruppo, per esempio, e l'animazione socio-culturale).

    I soggetti della comunità educativa

    Nella comunità educativa tutti sono soggetti corresponsabili: gli educatori, i genitori dei giovani, le forze sociali presenti sul territorio, i giovani stessi.
    Questo elenco, derivato dalle normative vigenti, è pacifico. Non sempre risulta pacifica la sua organizzazione in un quadro di riferimento che suggerisca le precise scelte di campo della comunità educativa. Non si tratta infatti di stabilire l'organigramma di un complesso produttivo, né tanto meno di elencarne i responsabili per dividersi i compiti gestionali o per controllarne meglio i canali di comunicazione, ma di definire gli orientamenti fondamentali della nostra relazione educativa. Al centro stanno i giovani, come persone e come condizione, al cui servizio tutti si pongono.
    Gli educatori «religiosi» sono all'origine di questo processo di maturazione globale, perché sono consapevoli di esistere per produrre attorno a sé uomini nuovi, dal momento che il loro carisma costitutivo li lancia in una missione di educazione evangelizzatrice.
    La collaborazione e l'accordo con coloro che a titolo diverso compartecipano questa missione, non ha ragioni strumentali, quasi fossimo costretti a cercare collaboratori perché non bastiamo più da soli. Significa al contrario la coscienza pratica che il condividere la stessa vita ci chiede di tradurre in atteggiamento di servizio liberatore questo stato di fatto.
    Possiamo perciò dire, con una immagine, che la comunità educativa si costruisce come una spirale in cui il nucleo centrale allarga sensibilità e corresponsabilità verso le periferie più estreme. Questo fatto è importante: per non svuotare la corresponsabilità, vanificando così la comunità e per non annullare la responsabilità educativa, deprivando così la comunità della sua ragione costitutiva.
    Queste esigenze, quando sono tradotte in termini operativi, diventano la proposta di un modello differenziato di partecipazione. Si richiede sempre la partecipazione, anche dei nuclei estremi della spirale. Ma si realizza una partecipazione con intensità differenziata, sulla misura della vicinanza/lontananza dal centro della spirale. Questa differenziazione non è discriminante, perché il nucleo centrale tende ad allargarsi fino a quelli periferici, mediante un processo di animazione. E perché il rapporto tra centro e periferia non è mai in una direzione, ma si attua sempre in una logica di reciprocità, di dare e ricevere nello stesso tempo.

    CONCLUSIONE: LA COMUNITÀ EDUCATIVA SOGGETTO DELLA PROGRAMMAZIONE EDUCATIVA

    Il pluralismo culturale non solo investe le nostre comunità educative ma le attraversa. Esse ne risultano segnate profondamente nella loro costituzione e in tutte le loro espressioni operative. L'abbiamo ricordato molte volte.
    Questo fatto ha un peso nei processi educativi e pastorali.
    I giovani infatti ricevono proposte diverse, qualche volta persino contraddittorie. Si confrontano con differenti modelli d'uomo, in teoria e nella quotidiana frequentazione dei loro educatori. Incontrano esperienze di vita cristiana disomogenee. Sentono parlare dei loro problemi con toni e con prospettive di soluzione molto disarticolate. Anche il loro coinvolgimento nei processi educativi si realizza con accentuazioni diversissime.
    D'altra parte non si può sognare la riprivatizzazione dell'azione educativa e pastorale: quando è gestita in un «a tu per tu», individualista e settoriale, i conflitti sembrano smorzati, ma si corre il rischio dell'autoritarismo, della manipolazione e dell'inefficacia pratica.
    L'unica soluzione è quella prospettata: la comunità educativa come soggetto a pieno titolo della progettazione e dell'operazione educativa e pastorale.
    Comunità come soggetto non equivale a spersonalizzazione, in un anonimato massificante che rilancia sul collettivo e sullo strutturale ogni responsabilità.
    L'educazione e l'educazione alla fede è, radicalmente, un processo personale, anche se si svolge nel grembo materno di una comunità, e quindi con risonanze strutturali e collettive. Per questo si educa solo quando ci si aiuta ad accogliere-rifiutare con piena responsabilità personale il modello d'uomo che la comunità efficacemente propone. E quando si afferma, contro ogni disimpegno, che la comunità è propositiva nella trasparenza di ogni persona.
    Il dialogo interpersonale assicura la dinamicità e la crescita, anche se innesca conflitti, mentre l'equilibrio omeostatico dell'istituzione può generare la quiete della morte.
    I conflitti sono «dentro» la comunità educativa. Le assicurano la vivacità e la rendono aperta al cambio e alla ricerca; la radicano profondamente nell'oggi giovanile e culturale.
    Fare della comunità educativa il soggetto di ogni intervento significa accettare i ritmi lenti di una progettazione che ricerca il consenso sostanziale di tutti, significa dedicare tempo e energie per attivare il confronto e costruire questo consenso.
    Questa prospettiva garantisce però il continuo contrappeso delle esperienze personali: di coloro che sono lanciati per i temi dell'evangelizzazione e di quelli che chiedono una promozione progressiva dell'umano; di coloro che hanno i piedi per terra e di quelli che sognano ad occhi aperti; dei giovani e di coloro che la vita ha già arricchito di un greve bagaglio di esperienze.
    L'accordo è possibile e la comunità diventa concretamente il soggetto perché ciascuno serve la crescita di tutti: dona e accoglie, consapevole che la solidarietà salvifica del singolo con gli altri è così profonda che il suo individuale essere uomo-nuovo non può venire separato dall'essere-nella-comunità.


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