Pastorale Giovanile

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     Un manifesto per la

    spiritualità giovanile

    salesiana (1982)

    Centro Salesiano Pastorale Giovanile

    (NPG 1982-01-65)


    FORMATO PDF


    R
    acconta Mario Pomilio nel suo Quinto evangelio: «Rideva un pagano dei cristiani perché osservavano un solo libro. Ma un santo vescovo, che l'aveva udito. gli contò questa novelletta: Una volta un dottore incontrò Cristo Gesù: Signore, io so bene che tu fosti il Messia e quel che pronunziasti è pieno di sapienza. Ma come può essere che un sol libro basti in eterno a tanta gente? Gli rispose: Egli è vero quel che dici. Ma tu sai che il popol mio lo riscrive ogni dì.

    Pomilio ha intuito una verità fondamentale del cristianesimo: ad essere cristiani si impara. Ogni generazione ha da inventare, animata dallo Spirito, la sua fede, riscrivendo l'unico vangelo che è lo stesso Gesù.
    Ci ha provato anche Don Bosco, un giorno, a scrivere un vangelo per i giovani, insoddisfatto dei modelli in circolazione al suo tempo. E dopo Don Bosco, un gran numero di uomini e donne, religiosi e laici, han continuato a scrivere e riscrivere il modello di cristiano intuito da Don Bosco. Sollecitati dagli interrogativi del mondo giovanile attuale, un gruppo di salesiani e di giovani, hanno voluto riscrivere il «vangelo secondo Don Bosco» Si sono incontrati più volte, nel giro di due anni, hanno discusso a lungo, ed ecco il risultato del loro lavoro: una proposta di spiritualità giovanile salesiana per gli anni '80.

    Spiritualità

    Fare spiritualità è fare esperienza di Dio. un itinerario di spiritualità è una progressiva ricerca di identità cristiana, è un itinerario per educare alla fede.
    Spiritualità, identità cristiana, santità (il termine tanto spesso usato da Don Bosco) sono realtà che si intrecciano profondamente fino a identificarsi. Sistema Preventivo, spirito salesiano e spiritualità salesiana sono realtà organicamente collegate in una vitalità unitaria.
    «Il Sistema Preventivo è un metodo di educazione ma è soprattutto una spiritualità: è un amore che si dona gratuitamente, ispirandosi alla carità di Dio che previene ogni creatura con la sua provvidenza, la segue con la sua presenza e la salva donando la vita» (CG 21,17).
    «Il Sistema Preventivo è talmente legato allo "spirito salesiano" attraverso il suo aspetto di " spinta pastorale", che ne costituisce l'incarnazione più caratteristica ed espressiva; a ragione lo si può anche definire come una autentica spiritualità della nostra azione apostolica, e cioè il nostro modo pratico di tendere alla pienezza della carità e della vita spirituale» (Egidio Viganò).
    Spiritualità come esperienza di Dio nel contesto della propria vita, inserita nel più ampio orizzonte della storia (LG 41), non divide in categorie, non crea separazioni, non innalza steccati, non discrimina in cristiani di serie A e cristiani di serie B: interessa ed impegna tutti singolarmente e come gruppi.

    Una spiritualità giovanile

    Spiritualità giovanile è il tentativo di inventare un'immagine di giovane cristiano, proponibile oggi.
    «Tentativo di inventare» esprime bene il dialogo necessario tra fede, vangelo, contenuti irrinunciabili e tradizionali da una parte; vita, storia, domande e intuizioni giovanili dall'altra.
    È chiaro che non si tratta di un dialogo verbale, ma di una comunicazione di valori, di osmosi vitale, di assunzione di punti di vista e di prospettive.
    L'itinerario di spiritualità non ha uno sviluppo lineare, per accostamenti successivi, per comunicazione prevalentemente concettuale e ripetitiva. Segue, invece, un «andamento circolare», con influssi vicendevoli continui, con ripresa, riformulazione e sintesi sempre nuove ed adeguate dei contenuti. Dai giovani all'esperienza cristiana e dall'esperienza cristiana ai giovani.
    Una spiritualità giovanile: ma a quali giovani specificamente si rivolge? Esistono spiritualità giovanili che si rivolgono ad élite spiritualmente affinate e impegnate. E sono pienamente legittime.
    La spiritualità giovanile salesiana si rivolge preferenzialmente ai giovani «poveri» (di valori, di impegno, di sensibilità, di slancio, di ideali...): giovani che non sono gratificanti appunto per la loro opacità ai valori dello spirito. Due le conseguenze immediate: occorre puntare sui tempi lunghi e abbandonare l'illusione di creare movimenti giovanili «appariscenti», a forte identità. È infatti la carenza di identità cristiana dei giovani` «poveri» a renderli impossibili.
    Questo non toglie che la SGS punti in alto: la proposta salesiana al giovane è di diventare automaticamente collaboratore e autore egli stesso di proposte ai giovani nel suo ambiente, ai poveri, ai piccoli. La spiritualità salesiana non discrimina nessuno ma non vuole neppure livellare tutti: anzi punta con decisione al protagonismo giovanile.

    Spiritualità salesiana

    Spiritualità salesiana o spiritualità di Don Bosco?
    In queste pagine si parla di spiritualità giovanile salesiana ispirandosi alle intuizioni di Don Bosco, ma non ripetendo semplicemente quello che lui intendeva per «giovane cristiano»
    Don Bosco ha avuto delle intuizioni che altri, affascinati dalla sua proposta ai giovani, hanno continuato e approfondito. Ne è nata una «tradizione salesiana». Lo Spirito Santo che ha suscitato Don Bosco, accompagna anche oggi quanti continuano la sua missione.
    I salesiani oggi si trovano domande giovanili e una cultura che non sono più quelle del tempo di Don Bosco. Chiamati a ridire Don Bosco con i giovani d'oggi, sentono il dovere di essere fedeli a lui ripetendo il suo gesto profetico, inventando cioè una proposta di spiritualità adeguata ai giovani d'oggi.
    Ci saranno quindi, nelle pagine che seguono, diverse cose che Don Bosco non poteva pensare, perché vissuto un secolo fa. Ma è da augurarsi che le sue intuizioni di fondo, ad incominciare dalla sua passione educativa verso i giovani, siano presenti. Il momento giovanile che stiamo attraversando è difficile, ma anche carico di promesse e di responsabilità.
    «Per il salesiano, una gioventù senza Cristo e un Cristo che non trova posto tra la gioventù, oltre ad essere un rimorso, è una sfida e una spinta a rinnovarsi, a cercare vie nuove, a osare tutto» (CGS, 306).

    1. LA VITA LUOGO IN CUI FARE ESPERIENZA DI DIO

    Fare spiritualità è fare esperienza di Dio. Ma dove si fa esperienza di Dio? Viene subito da rispondere: nella eucaristia, nella preghiera.
    Questa risposta suscita un'altra domanda: la vita che conduco giorno dopo giorno c'entra con Dio?
    La spiritualità salesiana a questi interrogativi dà una risposta originale, a partire dalla esperienza di Don Bosco, che ha incontrato Dio nei giovani poveri, in quei giovani emarginati dalla società e dalla chiesa, nella Torino del secolo scorso.
    Don Bosco ha passato la sua esistenza a fianco dei giovani ed ha insegnato loro, più con i gesti che con le parole, a ritrovare quella dignità che gli altri calpestavano, fino a riconoscersi «amati da Dio». Si è messo a fianco dei giovani per «costruire il loro futuro» per aiutarli a credere nella vita e a credere che Dio stava dalla loro parte.
    Ora Don Bosco ha esperienza di Dio in mezzo ai suoi giovani, nel condividere la loro vita, nel qualificarli nello studio e nella professione, nel giocare e nel divertirsi con loro.
    Agli stessi giovani Don Bosco ha insegnato a incontrare Dio nella loro vita di ogni giorno, nelle cose che facevano. Li ha educati a vivere tutta la loro vita «in unione con Dio».
    «Il tessuto del quotidiano, il divenire quotidiano, gli avvenimenti e le persone, l'esistenza piena di interpellanze e di sorprese» sono «un momento privilegiato della spiritualità salesiana» (E. Viganò)

    Il punto di partenza: in Gesù, Dio si è fatto «uno di noi»

    Alla base della spiritualità salesiana c'è una gioiosa accoglienza del fatto più misterioso della storia, quello di cui parlano i Vangeli, l'Incarnazione di Dio: «Colui che è "la Parola" è diventato uomo ed ha vissuto in mezzo a noi uomini. Noi abbiamo contemplato il suo splendore divino (Gv 1,14).
    Pietro, Andrea, Giovanni incontrano un giorno un uomo, Gesù di Nazaret, che li affascina al punto che decidono di seguirlo. Al suo fianco la loro vita lentamente si trasforma: sentono sempre più che attraverso Gesù sono partecipi di un amore così grande che non può venire che da Dio.
    E non solo comprendono progressivamente che l'amore di Gesù viene da Dio, ma comprendono anche che accogliendo ed amando Gesù essi accolgono ed amano Dio.
    L'Incarnazione di Dio in Gesù di Nazaret è un fatto unico ed irripetibile che tuttavia attraversa tutta la storia: Gesù ci ha infatti insegnato che il luogo principale per incontrare Dio è incontrarlo in ciò che è umano, anzitutto nei poveri e nei piccoli. Tutto il grande racconto del giudizio universale di Mt 25 è incentrato in questa misteriosa accoglienza di Dio: «tutte le volte che avete fatto ciò (cioè dato da mangiare, da bere...) a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me» (Mt 25,40).
    Ecco allora il modo «cristiano per eccellenza» di fare esperienza di Dio. Non è necessario salire a Lui attraverso qualche preghiera, oppure rinnegare tutto ciò che è umano per fare esperienza di Dio, perché Dio si è fatto «il Dio con noi» e si è «nascosto» negli emarginati, nei bambini che muoiono di fame, negli ammalati che soffrono su un letto di ospedale, nei giovani senza affetto e cultura.
    Chi allora vuol fare esperienza di Dio è chiamato a fare anzitutto esperienza dell'uomo.
    La spiritualità salesiana si distingue da altre forme di proposta di vita cristiana. Si distingue, ad esempio, dalla cosiddetta «spiritualità degli intervalli» che crede di incontrare Dio solo negli intervalli in cui si smette di fare le cose di ogni giorno e si dedica qualche momento alla preghiera. Questa spiritualità viene a negare che Dio lo si incontra nel quotidiano. La spiritualità salesiana si distingue anche da una spiritualità che esalta la «fuga dalle cose» e che non sa godere di tutto ciò che è bello e affascinante della nostra vita. Essere cristiani, in questa spiritualità, vorrebbe quasi dire non-vivere. Invece essere cristiani è vivere la vita con la massima intensità, impegnandosi a scoprire quel Dio che si è «nascosto nella vita dell'uomo».
    La spiritualità della Incarnazione a cui si richiama quella salesiana, è allora una spiritualità dell'incontro con Dio dentro tutto ciò che è umano, una spiritualità della «passione per la vita»
    Secondo la spiritualità dell'lncarnazione la vita ha un duplice aspetto, uno integrato con l'altro: un aspetto visibile e uno invisibile.
    L'aspetto visibile della vita quotidiana è il dato verificabile: mangiamo, giochiamo, studiamo, stiamo con gli amici; l'aspetto invisibile è ciò che sta dentro tutto questo: Dio è vicino a noi, noi siamo immersi in Lui, e decidiamo di vivere la vita con Lui.

    Perforare il quotidiano per trovarvi Dio

    Alcuni vedono Dio come un personaggio che è geloso della vita dell'uomo, della sua passione per la vita: invece non solo non è geloso, ma facendosi uno di noi ha scelto di incontrarsi con noi proprio dentro la vita. La vita è dunque «luogo santo», se con questa parola indichiamo tutto ciò che ci mette in comunione con Dio. Poiché Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, tutto ciò che è umano, tutto ciò che è vita, è luogo di esperienza di Dio, è «santo».
    C'è in conclusione un aspetto invisibile che coinvolge il nostro mangiare e camminare, il nostro studio e lavoro, il fare politica e il riposarci, il vivere in famiglia e il fare gruppo: Dio è sempre vicino a noi e possiamo incontrarlo in ciò che facciamo.
    Lo incontriamo, è importante ricordarlo, non perché lo desideriamo noi, ma perché lo ha deciso lui, e non perché ogni tanto ci ricordiamo di Dio quando mangiamo o andiamo in tram, ma perché ha deciso che le situazioni umane per suo dono fossero luogo di incontro con lui.
    Che si incontri Dio quando ci si appassiona alla vita è vero per ogni uomo: incontra Dio, senza saperlo, quando accoglie la sua vita come qualcosa di grande e misterioso .
    Ed il cristiano? Il cristiano è colui che è consapevole di questo grande, sconvolgente fatto. Egli è chiamato a compiere una operazione originale di «perforazione del quotidiano», della vita, per cogliere tutta la valenza e la profondità, per captare il mistero che racchiude: la presenza misteriosa di Cristo Signore della vita
    «Perforare la realtà per trovarvi Dio... In questo processo di perforazione si deve prestare attenzione soprattutto a tre fondamentali dinamismi: la fede come visione globale che interpreta la realtà in cui siamo immersi; la speranza come progettazione delle nostre attività nell'impegno di salvezza; la carità come atteggiamento di amore verso le persone, in quanto ogni persona o è Dio stesso o è sua immagine» (E. Viganò)

    Spiritualità salesiana: esperienza di Dio in una rinnovata passione per la vita

    La spiritualità salesiana ha una traccia precisa da seguire: appassionarsi alla vita fino a riconoscere e proclamare che Gesù è il Signore della vita.
    Oggi però, viviamo un tempo di trapasso culturale in cui si osserva una certa disaffezione alla vita, alla società costruita in questi decenni, al ritmo di vita di questi anni. Alcuni cercano di uscire dalla crisi rifugiandosi nel loro piccolo mondo, disinteressandosi completamente di quel che succede attorno. Altri preferiscono non pensare e si abbandonano al consumismo. Altri ancora arrivano a domande più cruciali come: «ma ha senso vivere?», e si tolgono la vita o la bruciano nella droga e nel qualunquismo.
    Che senso ha parlare di passione per la vita? Non è forse un inganno? Del resto anche diverse proposte di spiritualità sembrano aver imboccato la strada della messa tra parentesi della vita per parlare solo di preghiera (e non di azione), di parola di Dio (e non di riflessione scientifica), di comunità chiusa al suo interno (e non di presenza nella società). In molti casi sembra di essere davanti a proposte che educano ad una «fuga dalla vita» quotidiana.
    Che senso ha parlare, in questo contesto, di passione per la vita e di incontrare Dio nella vita?
    La spiritualità salesiana è attenta a tutti questi fatti, ma coglie anche, soprattutto nel mondo giovanile, un forte desiderio di vita, una ricerca faticosa di una nuova qualità di vita Anche se è appena un germoglio, la spiritualità salesiana vede nel desiderio di vita la presenza dello Spirito di Dio oggi. Per questo si propone da una parte di educare i giovani ad una rinnovata passione per la vita, e dall'altra di renderli consapevoli che il luogo in cui Dio ha fissato l'appuntamento è la loro vita, la vita degli altri, il futuro della società. Realtà tutte in cui giocare concretamente se stessi come Gesù di Nazaret.
    Lo slogan della spiritualità salesiana potrebbe essere quello di Ireneo di Lione che nel secolo II scriveva: «Dio è felice quando l'uomo è felice; ma l'uomo è felice quando vede Dio». E dove vedere Dio se non dentro questa nostra vita così misteriosa da essere in grado di rendere felice Dio? E come non appassionarci a questa vita per salvare la quale Dio si è fatto in Gesù uno di noi?

    2. LA PREGHIERA SALESIANA

    Ogni generazione ha da scrivere il suo vangelo» (Marco Pomilio). Parafrasando l'affermazione di Pomilio si può dire che ogni generazione ha da inventare e scrivere la sua preghiera. Quale sarà la preghiera di una generazione che vive in un momento di crisi culturale e vuole incontrare Dio in una rinnovata passione per la vita?

    Il grande gioco del sacramento

    Dio è ineffabile ed invisibile. Non lo si incontra mai «a tu per tu», ma solo attraverso i «sacramenti». Non bisogna intendere questa parola con riferimento solo al battesimo o alla eucaristia, o ad un altro dei sette sacramenti. Il primo sacramento è Gesù. L'uomo Gesù è il «sacramento» in cui Pietro, Giovanni e gli altri apostoli hanno incontrato il Dio invisibile ed ineffabile. Il sacramento è una realtà umana che ha un aspetto visibile (l'umanità di Gesù) ed uno invisibile (Dio), nascosto dentro il visibile.
    Dio ha scelto per venire a noi la strada sacramentale.
    Gesù è il sacramento originario; dopo di lui esistono altri sacramenti. Quando facciamo esperienza di Dio nel fratello, questi è per noi «sacramento» di Dio. Diciamo anche che la eucaristia è un sacramento.
    C'è tuttavia differenza tra il sacramento che è il povero ed il sacramento che è l'eucaristia. Nel primo caso parliamo di sacramentalità «diffusa» e nel secondo di sacramentalità «concentrata».
    Finora abbiamo parlato allora della sacramentalità diffusa: la vita come sacramento di Dio. Ora vogliamo parlare della sacramentalità concentrata nella messa, nella penitenza e negli altri momenti celebrativi.
    Pensiamo per un istante alla messa. Possiamo descriverla come un «grande gioco» in cui si utilizza del pane e del vino, si canta, si compiono dei gesti.
    Le parole, i gesti, le cose, le persone, non vengono utilizzati per se stessi, ma per indicare altro da sé: il pane eucaristico non è più pane ma «dono della liberazione», il vino non è più vino ma «sangue dell'alleanza» che Dio offre a noi. Nella celebrazione tutto diventa sacramento che mette in comunicazione con Dio. Così ci facciamo presenti a Dio e Dio si fa presente a noi.

    Una preghiera intrisa di quotidiano

    Per alcuni il gioco della preghiera conduce ad isolarsi dalla vita, dal quotidiano, dalla storia e a immergersi nel nulla, nel vuoto, a rendersi assenti da se stessi. Altri ne vedono solo la inutilità: poiché non serve immediatamente è un gioco dannoso. Di fronte alle tante cose serie della vita, essi dicono, perché perdere tempo a pregare? Altri ancora vedono nel gioco della preghiera l'unico luogo in cui è possibile incontrare Dio. Fuori da questi momenti è come se Dio per loro non ci fosse.
    Qual è il grande gioco della preghiera salesiana?
    La preghiera salesiana è il prolungamento della spiritualità della passione per la vita: è una «preghiera del quotidiano»
    lo mi immagino come la fantasia di Don Bosco orante doveva essere ripiena di Dio, ma proprio per questo anche dei suoi ragazzi, delle persone, dei problemi che aveva. E c'è anche da affermare la controparte: ossia che il lavoro, i dialoghi, le discussioni, i giochi, le passeggiate, la scuola, lo stare con i giovani, lo scrivere, l'impegnarsi in tante imprese, l'affaticarsi di Don Bosco fosse come una estasi della sua contemplazione, del suo amore: l'estasi dell'azione (E. Viganò).
    Don Bosco è un santo che ha pregato poco? Per Caviglia, Don Bosco è un santo che dice molto di più «lavoriamo» che non «preghiamo» Eppure Don Bosco pregava sempre ed è insieme il profeta di una preghiera non sofisticata, né elitaria né ideologica, ma di una preghiera a portata di tutti.
    Don Ceria asseriva: «La differenza specifica della pietà salesiana è nel saper fare del lavoro preghiera». Commenta E. Viganò: «Noi non preghiamo per santificare il lavoro, come se la santità stesse solo nella preghiera e non nel lavoro apostolico; noi preghiamo e lavoriamo, siamo immersi nell'azione e contempliamo Dio, perché ci muove dal di dentro una stessa carità pastorale che è l'anima della preghiera e dell'azione apostolica. Ecco il centro della nostra vita interiore, il luogo teologico in cui dobbiamo esercitarci, il materiale strategico su cui fare le nostre valutazioni, i nostri esami, le ricerche, i progetti, le correzioni, i propositi».

    La contemplazione nel quotidiano

    La preghiera salesiana si esprime secondo tre modalità: la contemplazione nel quotidiano, la meditazione, la celebrazione comunitaria con una particolare attenzione alla eucaristia e alla penitenza. Il loro insieme è la preghiera salesiana.
    Abbiamo già visto come in Don Bosco si può parlare di estasi nell'azione, cioè di continua «unione con Dio» Questa la traduciamo oggi in contemplazione nel quotidiano .
    La contemplazione dà, già a prima vista, l'idea di uno sguardo profondo che afferra la realtà nelle sue radici, l'idea di un lungo indugio sulla realtà per vederla completamente. È l'opposto della dispersione, della frantumazione, della confusione, del vivere a compartimento stagno senza che ci sia un nesso tra le attività di una giornata.
    Il contemplativo è così appassionato alla vita che continuamente la unifica con uno sguardo di insieme, a cui partecipa l'intelligenza ed il cuore, la volontà ed il sentimento, per coglierne il senso ultimo
    Il contemplativo vive nella consapevolezza e nella gioia che la vita personale e la storia della umanità sono il luogo in cui Dio costruisce il suo Regno vincendo ogni ostacolo del male e del peccato. Il contemplativo nel quotidiano, mentre mangia o studia o fa altro è consapevole, anche se immediatamente non ci pensa, di essere nelle mani del «Signore della vita» Questo genera in lui luce, gioia, pace, ottimismo, fiducia. Un salesiano, morto qualche anno fa, ha scritto della contemplazione ai suoi giovani parlando così: «Se nonostante tutto non mi spavento di me stesso, è perché Cristo è risorto. Se nonostante tutto ho fiducia negli altri, è perché Cristo è risorto. Se nonostante tutto credo in un mondo migliore è perché Cristo è risorto» (F. Del Piano).
    Il contemplare non è un intervallo nelle attività, ma aggiungere loro una qualità. Lavorare, studiare, giocare, sono attività in cui l'uomo «riflette» e «contempla» Quando riflette sui fatti della vita vive «da scienziato». Quando ricerca il loro senso ultimo vive da «contemplativo». Quando vive da scienziato (è importante farlo per capire la natura e la società in cui viviamo e creare un nuovo mondo culturale, economico, politico), vede ancora le cose «dal di fuori». Quando vive da contemplativo non disprezza le informazioni dello scienziato ma va oltre, verso il senso ultimo, verso la trasparenza divina delle cose, della vita, della storia: vede le cose «dal di dentro».
    Don Rinaldi, terzo successore di Don Bosco, ha colto in lui questa capacità: «Don Bosco ha immedesimato con la massima perfezione la sua attività esterna, indefessa, assorbente, vastissima con una vita interiore che ebbe principio dal senso della presenza di Dio e che divenne attuale, persistente e viva così da essere perfetta unione con Dio. In tal modo ha realizzato in sé lo stato più perfetto, che è la contemplazione operante, l'estasi dell'azione, nella quale si è consumato fino all'ultimo, con serenità estatica, alla salvezza delle anime.

    La meditazione

    Per Don Bosco era importante non solo vivere sempre in unione con Dio, ma anche dedicare a Lui ogni giorno qualche minuto al mattino o alla sera o in altro momento, nella meditazione o recitando le preghiere del buon cristiano.
    Oggi, ancora più che ai tempi di Don Bosco, a causa del ritmo frenetico che ci toglie la possibilità di ancorarci agli strati profondi del nostro io, trovare ogni giorno qualche minuto per se stessi e per Dio è indispensabile per tutti, preti e laici, giovani e adulti.
    È importante in particolare dedicare qualche minuto alla meditazione. La meditazione non è il silenzio, la calma o la tranquillità. La meditazione non è neppure riflettere con attenzione su un fatto. Non è neppure scavare in profondità dentro se stessi, alla ricerca dell'io più intimo.
    Silenzio, riflessione, discesa nel profondo dell'io sono solo gesti preparatori della meditazione, che è il momento in cui dopo aver scavato dentro la vita, ci si intrattiene «a tu a tu» con Dio, in un dialogo in cui le parole vengono pesate con calma, il silenzio dice più di molte parole, la posizione del corpo esprime non meno che l'attività della intelligenza e del cuore, la preghiera personale.
    Ci sono diversi modi di meditare. C'è una meditazione «ad occhi chiusi», quando chi medita vuole estraniarsi dal mondo e da se stesso, e una meditazione «ad occhi aperti», quando al dialogo con Dio si arriva con tutto il bagaglio del vissuto, delle persone che si sono incontrate, delle cose che si sono viste e si vuole «riviverle» davanti a Dio. La meditazione salesiana è una meditazione «ad occhi aperti».
    Il modo concreto con cui realizzare la meditazione può essere molto diverso. Alcuni arrivano alla meditazione attraverso le semplici preghiere del buon cristiano o il Rosario. Altri attraverso la lettura calma di una pagina di vangelo o di un salmo. Altri prendono spunto dalla musica o dal testo di un cantautore o di un poeta moderno, o anche da un libro di scienze naturali, di storia o di filosofia.
    Ognuno è chiamato ad inventare la sua meditazione. Non importa che si parta da fatti della vita o dalla parola Dio, purché, in ogni caso, vita e parola di Dio si incontrino .

    La celebrazione comunitaria

    La terza modalità di preghiera è la celebrazione comunitaria. Cosa sia una celebrazione lo si è già accennato: un grande gioco simbolico in cui si «rappresenta» la ricerca che l'uomo fa di Dio e la risposta che viene da Dio in Gesù Cristo.
    Le due grandi celebrazioni che ritmano la vita del cristiano sono l'eucaristia e la penitenza. Sono due grandi pilastri nell'edificio della spiritualità salesiana.
    La spiritualità salesiana preferisce parlare più del bene che del male, più della salvezza di Dio che dell'incapacità dell'uomo: anche se non dimentica la fatica nel creare il «mondo nuovo», non smette di parlare del grande «dono» della salvezza. L'attenzione alla presenza liberante di Dio dà una tonalità particolare alla eucaristia e alla penitenza che respirano il clima della festa, della gioia, della speranza. Non c'è eucaristia e penitenza salesiana senza la festa che nasce dalla consapevolezza lentamente acquisita che Gesù è il Signore della vita e che il Regno di Dio si estende progressivamente nel mondo vincendo il male, il peccato e la morte.
    Non è tuttavia accontentarsi di una preghiera facilona («tanto male non fa»), o soprannaturalista («tutto dipende da Dio» che salva quasi a tua insaputa).

    L'eucaristia
    Una intuizione di Don Bosco è stata l'aver facilitato in tutti i modi la partecipazione dei giovani all'eucaristia, in un tempo in cui era tendenza generale mettere barriere e precisare condizioni per poter accedere alla comunione.
    Due convinzioni sostengono l'operato di Don Bosco. La prima: Dio accoglie l'uomo, in particolare il «povero» così come è, lo vuole partner di dialogo, vuole stare con lui nella sua difficile condizione. La seconda: i poveri hanno diritto di pregare e prendere parte alla eucaristia «da poveri» cioè come sanno pregare loro, senza grossi slanci e senza parole sublimi.
    Alcuni tratti costituiscono lo stile salesiano della eucaristia.
    Innanzitutto l'attenzione al «dono» di Dio che si fa vicino a noi, e suscita l'entusiasmo ed il ringraziamento.
    In secondo luogo non è salesiana una eucaristia perché ci sono molti giovani o perché sono loro a cantare e animare la celebrazione. Non è salesiana neppure perché ogni tanto ci si rivolge ai giovani presenti. È salesiana solo se si hanno a cuore le attese e le intuizioni del mondo giovanile, solo se, in altre parole, si è attenti a cogliere il dono che sono i giovani per l'umanità e per la chiesa. Infine non è salesiana una eucaristia individualista, ma l'eucaristia che è un grande gioco comunitario. Ognuno è convocato non per vivere la «sua» messa, ma per inserirsi in un'unica esperienza. Ognuno vive non ad occhi chiusi», raccolto nel profondo del suo io, ma entra, come si diceva, in un grande gioco. Nel mangiare il pane eucaristico si accoglie il dono della salvezza, il pane della liberazione che Dio ha preparato. Nel bere al calice del vino si firma la grande alleanza tra Dio e gli uomini, tra i presenti e gli assenti, tra coloro che fanno la chiesa e coloro che sono parte del Regno di Dio che è oltre la chiesa .
    Nel sentirsi comunità fraterna, nel canto, nella stretta di mano, nel guardarsi negli occhi ci si sente amati da Dio attraverso i fratelli e si è felici perché lo si incontra in loro. Nel partecipare alla «processione» si cammina non soltanto verso un altare, ma verso i «cieli nuovi e nuova terra» che Dio ha promesso all'umanità.

    La penitenza
    Non si capisce la sollecitazione di Don Bosco per l'eucaristia, se insieme non si ricorda la sua insistenza perché i giovani facciano esperienza del perdono di Dio nella confessione. La spiritualità salesiana educa alla conversione continua da realizzare a piccoli passi, nel quotidiano della propria crescita educativa. Nella celebrazione della penitenza si fa memoria della conversione alla luce della parola di Dio, che rivela da una parte come ogni piccolo passo è azione di Dio e impegno dell'uomo, e dall'altra come solo Dio salva dal peccato che si annida in noi.
    Il grande gioco che abbiamo visto nella eucaristia prosegue nella penitenza, dove pure ci si esercita alla «trasparenza» delle cose, delle persone, dei gesti. Attraverso la lettura della Bibbia Dio si fa vicino e noi ci rendiamo conto di essere chiamati più che a confessare i nostri peccati, a proclamare che il nostro Dio è il «Dio del perdono». Nella presenza dei fratelli e del sacerdote che ci accolgono Dio ci accoglie. Nel perdono reciproco e nell'abbraccio fraterno, sappiamo che è lo Spirito di Dio che anima dal di dentro i nostri gesti. Quando il sacerdote ci impone le mani e ci perdona siamo finalmente. come il figlio prodigo della parabola di Gesù, nella «casa del padre» e possiamo fare festa. Proprio nel canto e nella festa ritroviamo allora il senso ultimo di speranza nel futuro della penitenza.
    In Don Bosco il sacramento della penitenza non è solo celebrazione della salvezza che il giovane vive già, ma è anche un'occasione pedagogica per una «verifica ascetica». In un dialogo franco con se stessi, alla luce della parola di Dio e con l'aiuto del sacerdote e della comunità si fa il punto sulla qualità del proprio impegno, sulla coerenza negli impegni assunti, sul cammino d'insieme che negli anni si sta percorrendo. Se allora la riconciliazione è un momento di festa e di grande speranza che porta alla accettazione della propria radicale povertà, dall'altra è un momento in cui si ritrova la propria dignità e responsabilità concreta davanti a se stessi, agli altri, e davanti a Dio.

    3. UNO STILE Dl VITA ISPIRATO A MARIA

    Al termine della sua vita Don Bosco ha dichiarato che tutto quello che aveva fatto lo aveva iniziato per ispirazione della Madonna e lo aveva portato a termine con il suo aiuto. Non è stata solo una bella frase. Se uno va a rileggere la vita di Don Bosco si rende conto che la sua esistenza è impregnata di un profondo e sincero amore alla Madonna.

    L'Ausiliatrice di Don Bosco

    Il suo amore alla Madonna ha delle caratteristiche precise. Egli si è fatto testimone nella chiesa di un volto particolare di Maria, quello che è ritratto nel quadro dell'altare maggiore della chiesa detta appunto dell'Ausiliatrice a Torino.
    Maria è raffigurata come una donna forte, coraggiosa che emana ed infonde sicurezza. Domina al centro della composizione nell'atto di sostenere in braccio Gesù Bambino. Attorno a lei è rappresentata la chiesa nei suoi apostoli ed evangelisti; in basso si intravede Torino e Valdocco, il quartiere in cui egli ha dato inizio al suo servizio ai giovani
    Non si capisce la spiritualità salesiana senza la presenza di Maria in questo quadro complesso appena descritto. Anche se con la mentalità legata al suo tempo Don Bosco ha intuito ed espresso alcune realtà che hanno senso anche per noi.
    Per Don Bosco la vita era una grande battaglia, o se si vuole, una grande impresa per la costruzione di un mondo nuovo. Qualcuno lo ha chiamato l'impresario di Dio. Nonostante i molti ostacoli, egli ha compiuto effettivamente imprese straordinarie per i giovani. Sapeva di collaborare con Gesù Cristo unico vero salvatore come Maria che si era posta tutta a servizio della causa del Figlio. Maria non ha tenuto Gesù per sé, ma lo ha lasciato andare perché vivesse per il Padre, per la missione che gli aveva affidato .
    Don Bosco parlava della Madonna come «Ausiliatrice», cioè come aiuto dei cristiani nella grande battaglia della fede e della costruzione del Regno di Dio. Per lui Maria ,è stata Ausiliatrice quando ha cominciato a dedicare la sua vita ai giovani e ad aprire oratori, scuole professionali, collegi per i giovani abbandonati. In quel momento ha sentito che Maria gli era vicino, lo ispirava, lo aiutava.

    Maria nella logica del «dare la vita»

    Fintanto che non si vive per una causa, non si capirà cosa vuol dire presenza forte e incoraggiante di Maria nella vita. Non ha senso infatti, per Don Bosco, una Madonna che gratifica, che fa tanto sentimento, che viene utilizzata per la riuscita personale nel lavoro o nello studio, quasi fosse un asso nella manica nei momenti difficili.
    Maria per Don Bosco partecipa della grande impresa a cui ha associato la sua vita. Non è un quadro appeso al muro della propria cameretta o del salone giochi, ma una persona viva oggi, che dà una mano a chi «soffre» attivamente nel vivere i propri ideali di giustizia, di pace, di ricerca di una nuova qualità di vita.
    Maria va vista, al di là di ogni concezione più o meno infantile, nella spiritualità della responsabilità: il suo «sì» e la sua collaborazione alla storia della salvezza sono il grande segno di responsabilità innalzato nel tempo per ogni uomo che sente di essere chiamato a dare una mano al Regno di Dio.

    Maria testimone e modello di valori attuali

    Maria non è solo espressione concreta della vicinanza di Dio nella lotta per la vita, ma è anche modello, incarnazione vissuta di alcuni valori decisivi per noi oggi.
    Ispirandoci a lei siamo sollecitati a concretizzare il nuovo «stile di vita» che sentiamo di dover inventare per uscire dalla crisi culturale e religiosa.
    Di quali valori Maria è modello realizzato e ispiratore? Ne indichiamo alcuni: la contemplazione, il servizio, la disponibilità a Dio, la festa, la fedeltà.

    Contemplazione
    Al ritorno da Gerusalemme, in cui Gesù dodicenne si era incontrato con i grandi esperti della Bibbia, e in cui Gesù le aveva dato una dura risposta: «devo vivere per la missione che il Padre mi ha affidato», Maria si ritrova a pensare alle cose successe, le medita, e le conserva nel suo cuore, intuendo di essere di fronte al fatto misterioso della salvezza di Dio. Vive la contemplazione del Regno di Dio.
    Oggi il mondo ha bisogno particolare di contemplativi, di uomini che vivano e meditino su dove sta andando l'umanità, sulla presenza di Dio nella storia, sulla grande lotta contro il peccato ingaggiata nel mondo, sulla responsabilità a cui ogni uomo è chiamato.

    Disponibilità assoluta a Dio
    Maria è, in secondo luogo, modello nella disponibilità assoluta alla causa del Regno di Dio. È il simbolo della donazione assoluta: l'Immacolata, colei che sempre è stata tutta dalla parte di Dio, a servizio della sua azione di salvezza nel mondo. Non ha tenuto nulla per se stessa: è stata casta, povera, sempre alla ricerca della volontà di Dio. Maria è il simbolo della disponibilità assoluta al bene, senza mezze misure, senza tentennamenti, senza contraddizioni.

    Servizio all'uomo
    Maria, proprio perché Immacolata a servizio assoluto di Dio, è vissuta a servizio dell'uomo: a servizio dell'uomo Gesù, a servizio di Elisabetta, a servizio della prima comunità cristiana nel cenacolo quando tutti erano spauriti. La donazione assoluta a Dio trova in Maria una indicazione stimolante per noi: Dio lo si incontra nell'uomo, in colui che ha bisogno di aiuto, come Elisabetta che attendeva un figlio ed era avanti negli anni; in coloro che erano senza speranza come Pietro, Giacomo, Giovanni e gli altri discepoli che avevano visto crollare le attese poste in Gesù. Maria è sempre modello di servizio all'uomo.

    Festa con i poveri
    Maria è, inoltre, modello di festa: la contemplazione e la vicinanza ai «poveri» la conducono al grande canto del Magnificat: il canto dei contemplativi, il canto degli uomini che lottano per un mondo nuovo, il canto dei poveri che da Dio ottengono giustizia. In un mondo dove c'è bisogno di festa e dove ci si chiede se è giusto fare festa in mezzo a tanta sofferenza, Maria è testimone di una festa radicata nella «compagnia» che Dio fa ai poveri. Solo in uno sguardo di fede, come quello di Maria, anche oggi si può fare festa senza essere cinici o ingenui di fronte al pericolo della distruzione atomica e di fronte ai milioni di uomini che muoiono di fame.

    Fedeltà nella sofferenza
    Da ultimo, Maria è modello di fedeltà. Non si è mai tirata indietro, pur sapendo, come le aveva annunciato il vecchio Simeone, che una spada le avrebbe trafitto il cuore. La ritroviamo a fianco di Gesù, anche se nell'ombra, durante la sua missione, e la troviamo con lui soprattutto sul calvario, ai piedi della croce mentre il figlio muore. Maria partecipa alla missione di Gesù in un cammino di fedeltà, di perseveranza, fino alla sofferenza. Maria induce così a prendersi la responsabilità di uomini e di figli di Dio, nel duro sforzo quotidiano.

    4. LA COMUNITÀ STILE SALESIANO: «VIENI E VEDRAI»

    Fare comunità, essere in comunione, vivere insieme, sono parole-chiave nella vita contemporanea.
    Non sono solo la insicurezza, l'esperienza dell'anonimato, l'incapacità di vivere la propria solitudine ad alimentare il desiderio di comunità. C'è soprattutto nell'uomo contemporaneo, il bisogno di reagire all'individualismo che ha caratterizzato la vita degli ultimi secoli, anche in campo religioso, dove la salvezza di Dio veniva ridotta alla salvezza quasi egoistica della propria anima.
    Oggi si prende coscienza che siamo nati con una struttura dialogica, cioè che ci realizziamo nella misura in cui ci apriamo agli altri, all'incontro con gli altri, alla creazione di spazi di giustizia collettiva.
    La stessa proposta cristiana oggi è molto più attenta alla vita comunitaria che non nel passato. La salvezza dell'anima, su cui hanno tanto insistito i predicatori e gli educatori nel passato, è oggi vista in modo più teologale (è Dio che salva) e comunitario (ci si salva insieme).

    La comunità salesiana come «ambiente educativo»

    Nella spiritualità salesiana, anche quando, come nel linguaggio di Don Bosco, si proponeva una visione di uomo e di fede individualista, la comunità è sempre stata un importante punto di riferimento. Senza lo stare insieme degli educatori e dei giovani, senza la stima reciproca, senza un ambiente (oratorio o «casa») in cui vivere insieme, non si capisce niente di Don Bosco.
    L'esigenza comunitaria nella spiritualità salesiana si esprime in alcune direzioni precise.
    La prima è la creazione di un'unica esperienza dinamica in cui vengono associati educatori e giovani. Per secoli si era pensato agli educatori come a coloro che «sono per») i giovani. Don Bosco ha voluto che essi fossero-per i giovani «stando-con» i giovani. Nella comunità salesiana non ci sono gli educatori da una parte e dall'altra i giovani: tutti insieme, con ruoli evidentemente diversi, formano la comunità. I ruoli nascono dalla diversa funzione: c'è uno scambio reciproco non solo di amicizia e di stima, ma anche di informazioni nelle due direzioni. Anche i giovani sono «educatori» dei loro educatori.
    Questo scambio educativo avviene in uno spazio ben preciso, l'«ambiente salesiano»: è costituito dalle mura, dai corridoi, dagli orari, dalla possibilità di incontrarsi tra tutti, dal cortile in cui tutti si ritrovano non solo a giocare, ma soprattutto ad affermare che c'è un «legame comune» che va oltre la scuola, lo studio, il ruolo di insegnante e di allievo.
    L'ambiente è un clima in cui il singolo trova il suo posto, riconosciuto nella sua persona e nelle sue attese. La pedagogia dell'ambiente non è mai massificazione, ma «pedagogia dell'un per uno» (Caviglia), raggiunto non solo attraverso l'incontro a tu per tu con un singolo educatore ma nella esperienza di una «comunità educativa». Ambiente è la varietà di interessi e la ricchezza dei valori, che diventano stimolo ad una crescita armonica, capacità di accoglienza cordiale e interessamento al vissuto di ciascun membro, clima festoso ed insieme pensoso dei problemi senza indulgere al problematicismo, superamento dell'isolamento e della solitudine in cui tanti giovani soffrono, condivisione profonda di momenti lieti e meno lieti in un dialogo che arricchisce reciprocamente. Tutto questo nel mondo salesiano si chiama «spirito di famiglia».

    L'ambiente come esperienza di chiesa

    Nel clima di famiglia Don Bosco vede una realizzazione concreta dell'essere chiesa. Per tanti giovani, ai tempi di Don Bosco come oggi, la chiesa è una realtà astratta, lontana. Molti hanno diffidenza dei preti, come l'avevano i ragazzi di Torino ai tempi di Don Bosco.
    Nella proposta salesiana l'ambiente» è il luogo in cui si sperimenta un'immagine di chiesa fresca, simpatica, capace di rispondere alla attese dei giovani. La comunità ha allora, per rifarci alla terminologia usata nelle pagine precedenti, un aspetto visibile, fatto di educatori e giovani, di muri e orari, di attività e momenti di pausa; ed un aspetto invisibile: riunisce, per dono di Dio, uomini che credono nell'uomo e che trovano la forza per credervi nella fede in Cristo, l'unico uomo perfetto, colui che dà a tutti la forza di diventarlo.
    Nella comunità salesiana i giovani lentamente entrano in contatto con un mondo ricco di fede che non si impone, ma si offre loro. Maturano così la scelta di essere cristiani, e cioè di far parte di quel nucleo di uomini consapevoli che si sta camminando verso «un mondo nuovo» promesso da Dio.
    Proprio perché è una comunità che sorge attorno a valori umani come la scuola, L'educazione professionale, L'aggregazione giovanile la spiritualità salesiana ha elaborato un modello di Chiesa con delle caratteristiche originali.

    Quale chiesa, quale modello di chiesa?

    Ognuno di noi nel prendere parte alla eucaristia, come nel vedere alla Tv le notizie sul Papa, ha in mente e mette in pratica una sua immagine di chiesa. Anche se non ci pensa.
    Quale chiesa, quale modello di chiesa vive la spiritualità salesiana? Cominciamo da alcuni modelli insufficienti per esprimere l'amore di Don Bosco alla chiesa. Il primo modello insufficiente è la chiesa self-service anonimo, in cui io mi reco quando voglio soddisfare il mio bisogno di Dio. Non mi interessa comunicare con gli altri e non mi interessa neppure il giro dei cristiani, dal prete, alla suora, ai giovani del centro giovanile. La chiesa self-service non è salesiana.
    Un secondo modello non-salesiano: la chiesa pensata come un castello in alto su una montagna, ben protetto da mura solide, con tanta gente pronta a difenderla. «Dentro» si sta bene: c'è ogni ben di Dio (i sacramenti), c'è festa, c'è ordine, ci si vuole bene. Le mura sono fatte in modo da non vedere quello che succede fuori. Del resto, perché guardare fuori, nel regno del male? La chiesa è il Regno di Dio su questa terra ed è la istituzione che assicura ai suoi membri anche il Paradiso dopo la morte. Le energie dei cristiani sono concentrate all'interno. Se si parla di servizio è per esprimerlo solo tra cristiani, se si parla di politica è il partito cristiano, se si parla di associazione è l'associazione cristiana di..., e così via. Questo modello di chiesa è un modello di «comunione» vissuta solo all'interno.
    Un terzo modello che non soddisfa è il modello della chiesa della «dispersione». Il famoso castello sul monte non esiste più, perché ai cristiani non interessa più: la chiesa si fa dove ci sono i poveri, dove si fa la società nuova. Perché perdere tempo in attività come la preghiera? perché incontrarsi tra cristiani? perché vivere «dentro» L'istituzione chiesa? Questo modello di chiesa distrugge ogni appartenenza ecclesiale. I cristiani vivono anonimamente la loro fede nel lavoro, nella società. Manca un minimo di comunione, di preghiera insieme, di confronto sui fatti della vita.
    Scompaiono gli oratori, i centri giovanili e gli altri momenti di esperienza ecclesiale. Con i giovani si fa come con quei bambini che vengono buttati in acqua e si grida loro: «aggiustati, impara a nuotare!».

    La chiesa stile salesiano: tra comunione e servizio, tra visibile e mistero

    Dopo aver rifiutato alcuni modelli è ora di indicare positivamente quale possa essere un modello salesiano di chiesa. È un. modello di chiesa giocato tra comunione e servizio, tra visibile e mistero.
    La chiesa nella spiritualità salesiana è anzitutto un luogo di comunione, in cui si fa «esperienza»: si incontrano persone, si fanno attività, si vivono momenti di preghiera. In una parola, è una esperienza di chiesa che si «può toccare» e le cui caratteristiche possono essere ridotte a: esperienza di fraternità, esperienza di celebrazione, esperienza di ricerca comune di uno stile di vita per gli anni '80.
    La chiesa stile salesiano è una chiesa che vive al suo interno tutte le esigenze legate alla comunione; ma è anche una chiesa che vive nel mondo, perché lo considera non il regno del peccato ma lo spazio in cui lo Spirito Santo sta realizzando il Regno di Dio. Il cristiano che uscito dalla messa torna nella società, nel mondo, non si sente quindi uno straniero, ma a casa sua, perché nel mondo Dio sta costruendo la sua casa. Come cristiano, nel mondo egli collabora con lo Spirito collaborando con gli uomini di buona volontà che lottano contro il male, contro la guerra, contro la divisione sociale, in una parola contro il peccato presente in loro e in tutti. Collaborando con gli uomini di buona volontà egli sa che costruisce il Regno di Dio; questo lo rende capace di un servizio ancora più grande, con degli atteggiamenti ispirati alla vita di Gesù; sarà uomo di pace, sarà povero, sarà mite, sarà a fianco dei poveri e degli uomini di pace. Visto da questo punto, il cristiano è a «servizio» della presenza dello Spirito nel mondo e a servizio dell'uomo.
    La chiesa nella spiritualità salesiana gioca allora la sua identità nella comunione interna e nel servizio all'uomo.
    C'è un altro aspetto che va sottolineato. Il salesiano è un contemplativo e si impegna a scorgere il mistero che è racchiuso nell'invisibile, anche quando immediatamente appaiono il peccato e la meschinità, le incomprensioni e il disimpegno .
    Il «mistero», a volte, è più nascosto che rivelato dai cristiani. Eppure il salesiano non si scoraggia. Egli critica la chiesa perché la ama e perché sa a quale grande compito è chiamata.
    Il peccato presente in lei è stato vinto, come il peccato nel mondo, dal dono di Dio. Vive dunque nella speranza verso la chiesa, anche in momenti di forte «sofferenza» e incomprensione.

    Quale «comunità giovanile»?

    Nella pedagogia salesiana la comunità dà un grande spazio ai giovani Non perché permette loro di giocare o fare gruppi, ma perché utilizza le domande giovanili come «criterio ermeneutico». I giovani sono criterio ermeneutico quando la comunità reinterpreta se stessa, il vangelo, L'essere uomo facendo sue le domande dei giovani, accogliendo quindi i giovani come profeti di un mondo e di una fede nuova.
    La valorizzazione dei giovani per far crescere la fede di tutti non è una parola vuota, ma si concretizza in ambienti e strutture di aggregazione. Gli oratori e i centri giovanili, le scuole e gli istituti saranno salesiani se realizzano un'unica condizione: essere vicini ai giovani. Anche una parrocchia è salesiana quando fa dei giovani il criterio ermeneutico per definire se stessa.
    In questi spazi giovanili, dall'oratorio alla scuola, la scelta di fede e di appartenenza alla chiesa è proposta come cammino, secondo la responsabilità personale continuamente sollecitata.
    Nella spiritualità salesiana la «comunità giovanile» si qualifica per alcune sue caratteristiche tipicamente salesiane.
    Anzitutto non è una comunità elitaria, ma aperta a tutti. E tuttavia non è livellante. Ha una struttura a cerchi concentrici in cui il nucleo è costituito da quei giovani che vivono profondamente l'identità cristiana ecclesiale, e la periferia non è una zona «parte, emarginata, ma una zona «in cammino»: c'è un flusso organico che collega centro e periferia, i quali si alimentano reciprocamente in un processo di crescita comune.
    Questo comporta una proposta diversificata e graduale e non una proposta a forte identità per tutti: si chiede a ciascuno ciò che, in quel momento della sua vita, è capace di dare e gli si offre quanto è in grado di ricevere, convinti che ogni giovane ha un suo ritmo di sviluppo che bisogna rispettare. La comunità giovanile salesiana prende il giovane al punto in cui realisticamente si trova, per fare strada con lui. La comunità salesiana fa da ponte educativo tra giovani e società da una parte, scelta di fede e comunità ecclesiale dall'altra. La proposta cristiana non viene offerta a parole o con ragionamenti più o meno fini, ma viene fatta sperimentare in un clima di famiglia, di festa, di invito alla preghiera personale e comunitaria. Lo stile della proposta salesiana è in sintonia con la risposta data da Gesù a Giovanni e Giacomo che gli chiedono chi sia: «Venite e vedrete», cioè partecipate alla mia vita e lentamente interrogatevi sul suo senso profondo per voi. Una educazione in cui la testimonianza di vita è non meno decisiva della parola di Dio e della preghiera.

    5. SIAMO GENTE Dl FESTA

    La situazione attuale rispecchia per certi versi la crisi dei tempi di Don Bosco. Mentre allora ci si trovava agli albori della Torino industriale e quindi della crisi di stile di vita e di identità nei giovani sradicati dai paesi, oggi viviamo agli albori della società postindustriale che si interroga sul modello di vita costruito in questi anni. Allora come oggi, proprio perché in tempo di crisi culturale, si può porre la domanda del salmista prigioniero in Babilonia: «ma si può fare festa in terra straniera?».
    La risposta non è così scontata; se è facile dare risposta positiva, è anche facile che ci si scontri sui contenuti.

    L'insistenza di Don Bosco per la festa

    La spiritualità salesiana è chiaramente una spiritualità della festa. Ai giovani emarginati del suo tempo don Bosco ha presentato la vita come festa e ha fatto sperimentare la fede come felicità. La felicità, la gioia, L'allegria, la festa sono elementi così tipici della spiritualità giovanile salesiana che qualsiasi mutilazione di questi valori sarebbe una mutilazione della salesianità. La musica, il teatro, le gite, il gioco, lo sport, la quotidiana letizia di un cortile salesiano sono stati sempre al centro delle preoccupazioni educative di Don Bosco.
    L'accentuazione della festa non è così scontata né in campo educativo, politico e culturale né in campo religioso.
    L'insistenza di Don Bosco sulla gioia e sulla festa ci fa vedere come siano lontane dalla sua spiritualità le figure di altri educatori, peraltro validissime in altri campi. Don Milani, per citare una figura a noi vicina, continuava a far scuola il giorno di Natale e di Pasqua, senza lasciare un giorno di vacanza e di distensione per tutto l'anno: la festa non aveva posto nella sua visione educativa. Del resto, solo pochi anni fa anche in campo giovanile quasi quasi ci si proibiva la festa, perché c'era assolutamente bisogno di lotta, di impegno politico. La festa era al massimo il momento di riposo del guerriero, una sosta prima di riprendere la vita vera. Oppure la festa era limitata al grande sogno ideologico quando il popolo, conquistato il potere, avrebbe finalmente vissuto «libero».
    Anche nella tradizione cristiana molti hanno guardato con diffidenza verso la festa. Per secoli il sacrificio è stato l'unica immagine a cui prestare credito. La vita era dura, solo il sacrificio la rappresentava fino in fondo. Soltanto nel paradiso si sarebbe stati felici.
    Neppure oggi mancano spiritualità che hanno paura di fare festa, di inebriarsi nella gioia..
    La loro diffidenza per la festa, con tutto il suo contorno di gioco e canto, allegria e fraternità tende a ridurla al suo aspetto immediatamente religioso: L'unica vera festa (per loro) è l'incontro con Dio nella preghiera, nella eucaristia, nella Parola di Dio. Tutto il resto sarebbe festa effimera, a cui dunque non abbandonarsi.

    La festa come fatto educativo e spirituale

    L'originalità di Don Bosco è duplice: da una parte egli ha intuito il grande valore educativo della festa e ha voluto che l'allegria ed il canto, come l'amicizia e lo scherzo non mancassero mai nella sua casa; dall'altra egli ha intuito che la festa è un fatto spirituale, cioè un luogo in cui si afferma che la vita intera è nelle mani di Dio.
    La naturale tendenza alla festa nei giovani Don Bosco l'ha maturata alla luce della fede nella risurrezione. Fare festa, nella spiritualità salesiana, è una confessione solenne che il mondo intero è nelle mani di Dio, che davvero Cristo è risorto e la vita può diventare una festa. La spiritualità salesiana fa sua la «notizia» che migliaia di giovani hanno accolto in questi anni a Taizè e l'hanno portata in tutto il mondo: «Cristo risorto viene ad animare una festa nel più profondo dell'uomo... Egli ci prepara a dare la nostra vita perché l'uomo non sia più vittima dell'uomo».
    La festa è un momento privilegiato di crescita educativa perché impegna su tutti i piani: si intensificano i rapporti interpersonali, aumenta la collaborazione e corresponsabilità, in quanto tutti si sentono protagonisti; si esprimono potenzialità inespresse, capacità inedite, ci si rivela nel profondo di se stessi con le proprie risorse di creatività e autenticità; ci si arricchisce sul piano religioso perché ogni festa salesiana ha come momento centrale l'incontro con Dio nella preghiera e nell'Eucaristia festosa.
    Nella spiritualità salesiana non c'è tuttavia una scissione tra «festa del cortile» e «festa della chiesa»: il gioco, il divertimento, l'allegria hanno già in sé un valore spirituale costruttivo. Anche qui non c'è dualismo, come non c'è tra lavoro e preghiera.

    Per allargare il girotondo della festa

    Occorre essere un poco più precisi nel dare contenuto alla festa. La prima domanda che si pone è: a fare festa ci allontana dalla serietà che i problemi impongono?». In altre parole: vivere la festa ci impedirebbe di prendere parte alle tensioni e alla lotta per la giustizia?
    La risposta la si può trovare in una riflessione di un teologo moderno, Jurgen Moltmann che osserva: «Solo per chi è capace di essere contento, le proprie ed altrui sofferenze divengono dolore. Chi può ridere può anche piangere. Chi ha speranza diventa capace di sopportare il mondo ed essere triste. Là dove si è fatto sentire il soffio della libertà incominciano a fare male le catene. La festa allora non è il contrario dell'impegno, ma l'unico vero luogo in cui si genera un impegno a lungo termine, un impegno che si radica in una fede umana e cristiana.
    La seconda domanda è: dove e come concretamente vivere la festa?
    Nella società ci sono molti modelli di ricerca della festa e della felicità: c'è il modello consumista di chi trova la festa nell'accumulare oggetti ed esperienza, nel lasciarsi mangiare dalle cose e dalla attività e cerca quindi di sostituire la qualità della esperienza con la quantità delle occasioni; c'è il modello che potremmo chiamare dell'homo faber, di colui che crede di potersi costruire la felicità tutta con le sue mani, con il suo impegno; c'è anche il modello nichilista di chi dice: «goditi quel poco che la vita ti passa, che altro non esiste»; oppure: «vivi la felicità nell'attimo perché quando è finito c'è più nulla, e quel che deve venire non lo sai e in ogni modo sarà un altro attimo».
    Si può ritagliare un altro modello di festa? Diamo alcune piste di riflessione nella direzione del «radicamento intimo» della festa e dell'impegno per una festa sempre più grande.
    La festa nella spiritualità salesiana non è mai una realtà effimera, né la realtà di chi si inganna sul presente. «La festa non è per niente una euforia passeggera. È animata da Cristo in uomini e donne pienamente lucidi sulla situazione del mondo e capaci di farsi carico degli avvenimenti più grandi. Ma questi uomini e donne sanno loro stessi di essere abitati da quel bisogno di potenza e di oppressione che è all'origine della guerra e della ingiustizia. Sanno che la battaglia comincia innanzitutto in se stessi, per non trovarsi - a loro insaputa - tra gli oppressori. Allora la lotta diventa una festa: festa del combattimento affinché il Cristo sia il nostro primo amore; la festa della lotta per l'uomo schiacciato» (Roger Schutz, priore di Taizè). Ecco le due indicazioni: coltivare la festa dentro di noi e trasformare la nostra festa in lotta, in impegno per «allargare il girotondo della festa».
    Coltivare la festa dentro di noi vuol dire radicare la festa in quella zona di solitudine personale che nessuna intimità umana può colmare: è là che Dio e la sua festa di attendono. Vivere la festa a questo livello è anzitutto consentire a quella che è la propria umanità: a causa del Cristo sappiamo che niente di noi è perduto. Tutto è rivalutato da lui al punto che la festa modifica ogni azione, ogni incontro, ogni attività: la festa anima il quotidiano.
    La festa, in secondo luogo, è fonte di lotta, di impegno. La parola lotta richiama alla mente le grandi guerre, la rivoluzione. Tanti uomini e donne durante l'ultima guerra si sono sentiti felici e pieni di festa nel lottare contro gli oppressori, fino al punto di pagare con il carcere, con l'esilio e la morte la loro felicità.
    Per altri la lotta ricorda gli anni della rivoluzione studentesca ed operaia della fine degli anni '60, gli anni della «fantasia al potere», gli anni in cui sui muri della Sorbona qualcuno aveva scritto: «Non ci saranno ormai che due categorie di uomini: i pecoroni e i rivoluzionari», e: «Per le strade che nessuno aveva intrapreso rischia i tuoi passi. Nei sentieri che nessuno aveva pensato, rischia la tua testa».
    Oggi la situazione è più confusa, non è facile dire in che cosa impegnarsi e non è facile dare ad altri il coraggio dell'impegno. Ciò non vuol dire che rinunciamo alla festa o alla lotta. Oggi la festa deve avvolgere la «vita quotidiana», senza ridursi a vita meschina, privatizzata; deve ricostruire una nuova coscienza ed una nuova consapevolezza; deve rintracciare le «radici» in cui affonda la nostra esistenza; deve manifestarsi nell'entusiasmo e nella passione per lo studio, per la competenza, per la professionalità, per la creazione di «spazi profetici» di umanità nel volontariato, nell'animazione, nel servizio.
    Come cristiani oggi, infine, la festa è girare per le strade del mondo, e indicare gli spazi di liberazione che si stanno creando e riconoscere che in essi è presente il Signore della vita. Festa è sentirsi parte viva di una «grande speranza» che non è soltanto speranza nel mondo e nell'uomo, ma in quei «cieli nuovi e terra nuova» (il paradiso) che attendono ogni uomo di buona volontà e che sono dono di Dio.

    6. LA VITA COME VOCAZIONE

    Jürgen Moltmann inizia il suo saggio teologico sul gioco con queste parole: «ogni uomo è affamato di gioia e di felicità».
    La proposta salesiana vuol essere una proposta intessuta di felicità: un ambiente è salesiano se i giovani, nonostante i piccoli problemi e incomprensioni di ogni giorno, si sentono sollecitati ad appassionarsi alla vita. Della felicità non si ha paura: L'accumulo di gioia, di festa, di esperienza affascinante di comunità, di amicizia tra educatori e giovani porterà infatti, lentamente, a domande come: che ne faccio della felicità che sto accumulando? posso vivere senza allargare il cerchio della festa in cui sono coinvolto?
    In un momento storico in cui la barca sta facendo acqua e molti passeggeri sembrarlo pensare solo a salvare la propria pelle, chiudendosi nel privato, nel piccolo gruppo gratificante, chi accumula felicità trova il coraggio di non pensare a se stesso, ma ad organizzare, per stare alla immagine della nave, il salvataggio di tutti. Questo perché, come diceva lo stesso Moltmann, «chi può ridere può anche piangere». Chi è felice non ha più paura e sente di potere giocare la sua vita per una causa grande, per qualcosa di valido.

    Dalla esperienza di felicità alla vita come «missione»

    Questa è la scelta di Don Bosco che gira per le strade della Torino degli anni 1840/41 e partecipa alla sofferenza dei piccoli apprendisti abbandonati e sfruttati da tutti .
    Di fronte a quei ragazzi Don Bosco decide di allargare il giro della felicità e di dedicare loro la sua vita: fa della sua vita una «missione». Non si sente sacrificato ai giovani. Non si sente sprecato. Ormai vecchio, quando i medici diranno di lui che è come un vestito logoro, che va messo da parte, Don Bosco si sente felice, perché sa di aver reso felici migliaia di giovani
    La spiritualità salesiana pensa la vita come una missione e sollecita ogni giovane a trovare qualcosa per cui valga la pena vivere. Si possono ricordare le parole che i ragazzi di Don Milani avevano scritto nella loro lettera ad una professoressa: «Cercasi un fine. Bisogna che sia un fine onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null'altro che d'essere uomo... Io lo conosco. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo (alla scuola di Barbiana). Il fine ultimo è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come si può amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?».
    I ragazzi di Don Milani hanno scritto la loro lettera negli anni sessanta e forse enfatizzano la politica, ma rimane che non si può vivere senza un fine e che questo fine dev'essere «politico», a servizio di tutti.

    La vita come vocazione

    Don Bosco non è stato solo un grande lavoratore e un grande filantropo (così si diceva allora di chi manifestava concretamente un forte interesse ai problemi dell'uomo), ma anche e soprattutto un uomo di Dio, un uomo cioè che in tutto quello che faceva si sentiva ispirato da Dio e dedito completamente alla causa del suo Regno. Egli viveva per «salvare i giovani», per indicare loro la strada di Dio: sentiva che la sua vita come «vocazione»: Dio lo chiamava a dare la vita per i giovani «Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù». Così di lui scrisse Don Rua.
    Tratto caratteristico della spiritualità salesiana è pensare la propria responsabilità nel gruppo, in famiglia, nella scuola e nel lavoro come «vocazione»: cioè come luoghi in chi Dio chiama e l'uomo risponde. La missione si fa vocazione.
    La vocazione non è una voce sottile della coscienza, ma una vocazione «sacramentale»: Dio si fa presente nelle situazioni della vita, attraverso le provocazioni che giungono dalle persone con cui si vive, attraverso i messaggi che arrivano da tutte le parti. In tutto si scorge una sollecitazione misteriosa a unificare la propria esistenza dentro una scelta: «vivo per fare il Regno di Dio».
    La scelta del Regno si diversifica, poi, secondo i doni e i particolari stimoli che Dio offre ad ognuno Non si parla solo di vocazione dei preti e delle suore. È vocazione il matrimonio, essere padre madre, fare il sindacalista e insegnare. Per tutti è Dio che chiama La spiritualità salesiana crea un ambiente dove messaggi e stimoli sollecitino ognuno a rendersi conto della chiamata e a elaborare con calma ma con decisione una risposta. Per non mancare tragicamente, all'appuntamento con se stessi e con Dio.

    Il senso del lavoro

    La scelta di amare Don Bosco la traduceva nel concreto: «lavorare per i giovani». Don Bosco è stato un formidabile lavoratore. Ai suoi collaboratori ripeteva: «Coraggio... Ci riposeremo in Paradiso».
    Perché tanto amore al lavoro? Don Bosco è nato contadino e dalla terra ha appreso che non basta avere dei buoni ideali ma bisogna faticare per avere grano e vino buono. Ma la ragione del suo grande lavoro non è solo qui. Egli ha visto di persona la situazione dei giovani del suo tempo, e ha deciso lucidamente che il suo modo di trovare e vivere la felicità era darsi totalmente a loro. Da allora non ha mai smesso di lavorare.
    L'attaccamento al lavoro ha nella spiritualità salesiana una dimensione chiaramente religiosa,
    sacramentale». Qualcuno ha scritto che per Don Bosco il lavoro era «L'ottavo sacramento». La risposta all'appello di Dio in Cristo è certo data con tutta la vita, ma si esprime nel lavoro, nell'impegno e nell'attività con particolare intensità. Il lavoro è luogo di esperienza di Dio. È uno strumento per realizzare il Regno di Dio, che non va atteso in modo passivo ma va costruito giorno per giorno animati dallo Spirito di Dio. Il lavoro dunque nasce dalla consapevolezza che il Regno di Dio è presente nella storia e dall'ansia di allargarne i confini.
    Don Bosco ha dato la sua vita per i giovani, ma non ha vissuto per lavorare: egli viveva per stare con i giovani, per essere felici con loro. Ma capiva che non aveva senso stare con loro se insieme non dava loro un lavoro, una casa, una famiglia. Per Don Bosco il lavoro non era il fine: il fine era amare i giovani.
    Oggi noi del lavoro abbiamo una concezione diversa. Per alcuni è solo il prezzo da pagare per avere soldi e tempo libero. Non è un luogo in cui ci si realizza. C'è molta insoddisfazione nel lavoro. Cosa dire in termini di spiritualità? Don Bosco ha insegnato ai giovani ad essere onesti cittadini, a lavorare con passione, a farsi rispettare. Questo è urgente anche oggi. La costruzione di una società nuova richiede che tutti pensino la vita come impegno per una causa (il mondo nuovo) e pensino la vita, lavoro compreso, come luogo in cui realizzare la loro missione.
    La spiritualità salesiana non è la spiritualità del tempo libero, ma una spiritualità di tutta vita, compreso il lavoro.

    La vita «dura» del cristiano: prendere la croce

    Non si può fare poesia sulla vita/vocazione dimenticando che per costruire il Regno di Dio bisogna «pagare un prezzo». Contro il Regno ci sono grosse sacche di resistenza: dentro e fuori di noi.
    La sofferenza è costitutiva della vita impegnata per il Regno. Il cristiano non va a cercarsi la sofferenza. Gli basta quella che la vita comporta per tutti e quella che incontra nel realizzare il suo progetto di liberazione. È per la festa, ma non si scoraggia né rifiuta la sofferenza per il Regno. Il giovane cristiano incontra la sofferenza e la accoglie per scavare «dentro» le situazioni e arrivare alla verità che esse nascondono; per non lasciarsi abbagliare dal fascino del superficiale e affermare che le cose di questo mondo sono pur sempre «beni penultimi»; per costruire quotidianamente la libertà e la pace; per non dimenticare che non siamo arrivati ancora nella «casa del Padre».
    Concretamente la croce si manifesta nell'intensa operosità e nella capacità di faticare nel lavoro e nello studio; in uno stile di vita semplice, austero, povero; in un forte senso del dovere quotidiano; nel pensare la vita non come «la vita è mia e la gestisco io», ma come ricerca continua della volontà di Dio attraverso il confronto con il gruppo, la comunità, la parola di Dio, i profeti del nostro tempo.

    7. ACCOGLIENZA E ANIMAZIONE

    La spiritualità salesiana fa della educazione un'esperienza non solo umanamente significativa, ma un vero «sacramento» di incontro con Dio. Don Bosco incontrava Dio nei giovani e chiedeva loro di fare esperienza di Dio dentro» il processo educativo.
    La sua proposta di esperienza di Dio dentro il cammino educativo che coinvolge giovani e adulti, educazione umana ed educazione alla fede, può essere raccolta attorno a due termini chiave: accoglienza e animazione.

    Il cuore oratoriano: accoglienza e fiducia

    Quando si dice accoglienza, nel giro salesiano si pensa subito all'oratorio, dove c'è continuamente gente che entra e che esce, giovani e adulti che chiacchierano e scherzano, incrociarsi veloce e cordiale di educatori e giovani... L'accoglienza dice allora il «cuore oratoriano», che Don Bosco ha proposto come stile di vita negli oratori ma anche nelle scuole e nei collegi.
    Di cosa è espressione questa accoglienza? L'accoglienza salesiana non è un ritrovato strategico, quasi un cavallo di Troia introdotto in modo amichevole ma perfido nella città dei giovani. Non è neppure un ritrovato pedagogico per mandare giù la medicina amara.
    L'accoglienza invece è un fatto di spiritualità: è riconoscimento della presenza operosa di Dio nella storia personale e collettiva: la fiducia nel giovane è concretizzazione della fede di Dio.
    L'educatore non dà dignità alle esperienze dei giovani per assicurarsi la loro simpatia e accondiscendenza. Riconosce invece una dignità che preesiste, anche se spesso è minacciata, e nasce da Dio che ama quei giovani L'educatore è consapevole di questo, e vive un suo originale incontro con Dio, attraverso il «sacramento dei giovani».
    Questa convinzione religiosa illumina il quadro educativo. Tutte le esperienze umane dei giovani sono cariche di dignità, perché in tutte è all'opera lo Spirito Santo, per autenticare, consolidare, purificare, convertire: in una parola per salvare.
    Tutte le esperienze hanno però bisogno di questo processo purificatore. L'educatore si mette allora a fianco dei giovani per attivare questo processo. In questo sa di essere collaboratore di Dio. Il processo educativo si svolge quindi in un clima di fiducia nei giovani che non è esente da momenti di incomprensione e di tensione, ma, a lungo andare crea un rapporto di ritorno, di altrettanta accoglienza e fiducia, dai giovani agli educatori.
    Quello che si è detto della presenza di Dio nella storia personale e collettiva, il giovane è sollecitato a viverlo nel suo rapporto educativo.
    Vivere una spiritualità salesiana è riconoscere la presenza di Dio negli educatori: nonostante tutte le carenze, sono «sacramento» di incontro con Dio per i giovani, sono quindi un fatto di spiritualità. Come l'adulto ha fiducia profonda e radicata in Dio e riconosce che, come diceva Don Bosco, «in ogni giovane, anche il più disgraziato havvi alcunché di buono» da cui iniziare un cammino di accoglienza e di educazione, così il giovane considera l'adulto il luogo della memoria storica culturale e religiosa, da cui ha molto da apprendere.

    La spiritualità del cortile

    L'accoglienza salesiana non è mai un'affermazione di principio, ma un modo di vivere con i giovani: è calarsi concretamente nella condizione giovanile, nei suoi problemi, nelle sue istanze, nelle sue ansie, nelle sue aspirazioni, nelle sue esperienze reali, nei suoi luoghi di aggregazione, nei suoi linguaggi espressivi.
    Tratto tra i più caratteristici dello stile salesiano verso i giovani, questa accoglienza è il «vieni e vedi» evangelico che il salesiano rivolge a ogni ragazzo e giovane, a tutti i ragazzi e giovani. È una accoglienza attiva e dinamica: non si accontenta di aspettare che i giovani vengano, ma li va a cercare. È una accoglienza che si fa presenza amica e continua che tutto condivide con i giovani: è stare con loro, dialogare con loro, «perdere tempo» con loro.
    Il «cortile» è una figura classica salesiana di questa disponibilità quotidiana e feriale ad accogliere i giovani. E l'«assistenza», altra tipica caratteristica salesiana, è questa continuità di presenza amica, simpatica, dialogante, amorosa e solidale, animatrice e attivante. Questo comporta «curare il contatto con i singoli giovani per destare in ciascuno di essi il bisogno e la ricerca dei valori; suscitare la cooperazione comunitaria dei giovani ai momenti più strettamente religiosi dei loro incontri; mettere ogni cura per far nascere all'interno del gruppo espressioni di fede vissuta» (CG 21, 103).

    Dall'accoglienza all'animazione

    La presenza educativa salesiana non è solo l'accoglienza ma anche l'animazione che caratterizza l'intero cammino educativo. L'animazione, nella spiritualità salesiana, è lo stile che caratterizza il fare scuola come il giocare, la presenza nel sociale come la cura del personale e della vita di gruppo, il collegamento con la memoria storica come l'inventario delle domande giovanili entro cui riformulare l'esperienza delle passate generazioni. È una «qualità» che deve dare sapore a tutto il cammino di educazione, socializzazione, acquisizione della cultura.
    Cosa qualifica l'animazione? Si educa anzi, più in generale, si vive facendo animazione quando si vuole consentire agli individui di partecipare attivamente alla gestione dei processi educativi in cui sono immersi, affinché possano sviluppare le loro specifiche caratteristiche, la loro personalità e nello stesso tempo assorbire, in modo creativo e critico, L'esperienza accumulata nella società e nella comunità ecclesiale. Una scelta di animazione comporta allora un delicato lavoro di convincimento delle libertà perché le scelte siano interiormente motivate, una cura delle molteplici interrelazioni del dialogo (reciprocità, capacità di ascolto, comunicazione), il ricorso allo spirito di famiglia nelle sue svariate espressioni di bontà e di servizio.
    Animazione è non imporre itinerari e sviluppo, ma fare in modo che nascano nell'altro germi nuovi, scelte autonome, spinte creative in un accresciuto senso di responsabilità personale e di corresponsabilità nei confronti della comunità giovanile intera. È coinvolgere ciascuno e tutta la comunità con la valorizzazione dei ruoli e dei doni personali.

    La passione educativa e la scelta dei poveri

    L'animazione non è solo un fatto di competenza educativa, ma anche di fede: credere nella vita dei giovani e credere, più in generale, che è possibile un modo diverso di vivere, che è possibile una nuova qualità di vita. Non può fare l'animatore chi non vive di una grande speranza, di un ideale, di alcuni valori, di fede in Cristo risorto e nel suo Spirito. L'animazione che affonda le radici in Dio, crede nella vocazione di ogni uomo alla espressione delle sue potenzialità, e crede nella vocazione assoluta di ogni uomo a fare esperienza, almeno in mondo implicito, di Dio come felicità suprema.
    Fare animazione è allora credere personalmente nell'obiettivo della spiritualità salesiana: riscoprire con i giovani la passione per la vita fino a confessare che Gesù è il Signore della vita
    La passione per la vita è nell'educatore passione educativa: credere nelle forze vive del giovane e mettere la sua esperienza, la sua competenza, il suo entusiasmo e la sua fede, a servizio della crescita del giovane. In questo egli sente di vivere una grande passione esistenziale.
    Proprio perché animata da una profonda fede, L'animazione salesiana fa sua la «scelta dei poveri», degli emarginati. Essa vede in loro una provocazione di Dio, ed una chiamata ad avere speranza proprio quando non c'è un filo di speranza. Ci si avvicina ai giovani poveri con molto rispetto per la loro situazione, ben sapendo che spesso si potrà fare ben poco. Si intravede un Dio sofferente che giudica l'uomo e invoca una società più giusta, e si riconosce che i valori di cui i poveri sono portatori sono decisivi per il futuro dell'umanità.
    L'animazione fa sua inoltre la scelta della pazienza di Dio, la scelta del fare compagnia al giovane senza imporsi, senza costringerlo, fa sua la scelta dei tempi lunghi. La spiritualità salesiana sollecita a non misurare mai in termini di efficienza né in termini di rendimento produttivo. Poiché quello che conta è che ognuno sviluppi i «talenti» ricevuti, L'animatore ritiene realizzato il suo servizio quando un giovane dà tutto quello che è capace di dare. E così in certi comportamenti a prima vista insufficienti, nello studio o nel lavoro o nella preghiera o nella vita di gruppo, egli sente che si realizza la passione per la vita non meno che in altri comportamenti più eclatanti e gratificanti.

    Il grande racconto della storia di Gesù

    L'animatore salesiano trova la motivazione più profonda del suo stare con i giovani ed educarli, in una persona che riempie la sua vita, Cristo Risorto. Egli desidera educare i giovani fino al punto da poter loro raccontare la sua esperienza di fede, L'esperienza di Dio che ha trasformato, dal di dentro, la sua vita fino a poter dire che, nonostante tutto, la vita è una festa.
    Egli sa che misteriosamente ogni uomo incontra Dio quando vive con dignità la sua vita e la accoglie come mistero che lo supera. Eppure sente profondamente l'ansia di condividere con i giovani la «buona notizia» del Cristo Risorto e del Regno di Dio, perché è decisivo essere «consapevoli» della dimensione ultima della esistenza.
    Egli sa tuttavia che non sempre è facile e possibile parlare di Gesù. Non ha paura di farlo, ma si chiede continuamente come raccontare del suo Signore all'uomo disilluso e al giovane sfiduciato e sospettoso.

    Il racconto della storia di Gesù

    La risposta la troviamo in un racconto. «Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. "Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo tale che possa essere d'aiuto". E raccontò: "Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, saltando e ballando pure lui. E così, dopo un'ora, era guarito. È questo il modo di raccontare le storie"».
    Questo testo aiuta a rispondere alla domanda di partenza: c'è un solo modo di raccontare di Gesù Signore della vita: raccontare di Dio facendo ballare gli storpi e gli zoppi, raccontare del Regno di Dio come faceva Gesù, guarendo i paralitici, dando la vista ai ciechi, la vita all'amico Lazzaro e al figlio della vedova di Naim.
    C'è un solo modo di parlare ai giovani d'oggi della grande notizia che ogni cristiano si porta dentro e lo rende felici: fare miracoli. Don Bosco lo aveva profondamente compreso e ha fatto miracoli con i suoi giovani e per i suoi giovani: ha raccontato ai giovani, mentre dava la sua vita per loro, la grande storia del Signore della vita. C'è forse un altro modo serio di raccontare?

    LA SPIRITUALITÀ DELL'ANIMATORE SALESIANO: QUASI UN DECALOGO
    (da una conferenza di d. Egidio Viganò, Rettor Maggiore)

    1. Coscienza gioiosa che fare l'animatore con i giovani è un bel lavoro.
    2. Buon cuore e buon senso tra animatori.
    3. Sicurezza nella presenza dello Spirito Santo nella storia e nei giovani.
    4. Sguardo della speranza per scoprire il bene nei giovani e aiutarlo a crescere.
    5. Ricerca profetica della novità culturale ed ecclesiale.
    6. Esercizio dell'autocritica e del discernimento in un'epoca di trapasso culturale.
    7. Riflessione seria sulla Parola viva e orientatrice di Dio.
    8. Studio della originalità spirituale di Don Bosco.
    9. Intensità della preghiera personale.
    10. Intimità personale con il mistero della croce.


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