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    «Una nera signora...». Il tema della morte nei cantautori italiani



    Franz Coriasco

    (NPG 1981-08-40)


    Nel mondo della canzone italiana, perennemente indeciso fra le tentazioni aristocratiche della poesia colta e quelle quasi demagogiche del disimpegno canzonettaro, il fascino sottile di questo argomento ha provocato in molti il desiderio di renderlo, almeno una volta, oggetto della propria arte. Ci hanno provato quasi tutti con tecniche, sensibilità e risultati ovviamente diversi.
    Dal romanticismo più sentimentale al decadentismo più cupo, con toni ora causticamente ironici ora pacatamente esistenzialisti, l'approccio con questa tematica è stato occasionale strumento d'espressione per diverse generazioni di cantautori. Unica caratteristica pressoché costante, una sorta di rassegnato materialismo che raramente ha saputo trascendere il fatto fisico o psicologico dell'avvenimento per dare alla morte un più profondo significato.
    Quella che segue è una veloce (e forzatamente parziale) rassegna di alcuni di questi momenti espressivi, tradotti in testo dalla sensibilità artistica di alcuni fra i più noti protagonisti dell'Italia canora.

    Vorrei sapere che cosa è servito vivere, amare, soffrire...

    Considerato uno dei padri fondatori della moderna canzone italiana, Francesco Guccini si è occupato di questo tema fin dal suo primo album, Folk Beat n. 1, pubblicato nel 1967; quello di In morte di S.F. è un approccio quasi empirico con l'argomento, pervaso da quel tipico «positivismo dei '60» che pure conteneva al suo interno i germi dei primi inquietanti interrogativi esistenziali che faranno da sfondo, di lì a poco, alle rivolte giovanili del periodo sessantottesco: «... Vorrei sapere a che cosa è servito vivere, amare, soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati, se così presto hai dovuto partire. Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi; voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi».
    Lo stesso Guccini ritornerà sull'argomento nel '76 con l'album Via P. Fabbri 43. Di scena questa volta non più la scomparsa improvvisa di una giovane amica ma un vecchio pensionato che, nella descrizione dell'autore, pare già contenere in sé l'ombra imminente e offuscante della morte: «... Diremo forse un giorno: ma se stava così bene! Avrà in marmo l'angelo che spezza le catene... E a poco a poco andrà via dalla nostra mente piena, soltanto un'impressione che ricorderemo appena».

    La morte verrà all'improvviso

    Nel 1967 Fabrizio De Andrè, l'esponente più illustre della cosiddetta scuola genovese, duramente toccato dal suicidio di Luigi Tenco avvenuto durante il festival di Sanremo di quell'anno, ha voluto ricordare l'amico con una canzone, Preghiera in Gennaio, che ha saputo rinunciare alla facile tentazione dell'elogio funebre per trasformarsi in momento di esplicita denuncia morale: «... Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai santi, Dio, fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all'odio e all'ignoranza preferiscono la morte. Dio di misericordia, il tuo paradiso l'hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura; l'inferno esiste solo per chi ne ha paura...». Morte dunque, come occasione di verifica e di rivalutazione, concetto questo, ribadito anche in La morte, canzone nello stesso disco d'esordio, reso ancor più efficace dallo scarno e cupo accompagnamento strumentale: «La morte verrà all'improvviso, avrà le tue labbra e i tuoi occhi; ti coprirà di un velo bianco addormentandosi al tuo fianco. Nell'ozio, nel sonno, in battaglia verrà senza darti avvisaglia, la morte va a colpo sicuro, non suona il corno né il tamburo... Straccioni che senza vergogna portaste il cilicio o la gogna, andarvene non vi fu fatica perché la morte vi fu amica... Di fronte all'estrema nemica non vale coraggio o fatica, non serve colpirla nel cuore perché la morte mai non muore».

    E ho cominciato a vivere forte proprio andando incontro alla morte


    Dieci anni dopo, anche Gino Paoli, altro grosso autore genovese, si è cimentato con l'argomento-morte; nel brano, significativamente intitolato Io morirò, ne ipotizza l'esperienza su di sé lasciando trasparire il fascino romantico che essa ha sempre esercitato sulla psicologia umana: «... e sentirò parlare finalmente bene di me, della mia buffa vita, e poi diranno tutti in coro ch'ero tanto buono. Sarà un bel giorno, dolce come la melassa, con dei colori sfatti e un po' avariati e l'aria odorerà di magnolia. Io morirò un giorno, drammaticamente, per veder cosa succede».
    Claudio Lolli, in quel monumento all'intimismo più disperato che è il suo album del '72 Aspettando Godot, nel descrivere una vita passata ad aspettare improbabili felicità intuisce, nell'incontro finale con la morte, il passaggio obbligato per una lucida analisi dei propri fallimenti che diviene immediata occasione di riscatto: «... La morte mi ha preso le mani e la vita; l'oblio mi ha coperto di luce infinita e ho capito che non si può coprirsi le spalle aspettando Godot. Non ho mai agito, aspettando Godot, per tutti i miei giorni, aspettando Godot. E ho incominciato a vivere forte proprio andando incontro alla morte». Un altro grande protagonista della canzone italiana di questi ultimi anni, Roberto Vecchioni, ha invece preferito la mediazione delle descrizione favolistica, come nella celebre Samarcanda dove tutto è giocato nel progressivo, inevitabile avvicinarsi della nera signora (un simbolo fin troppo chiaro) al soldato che cerca in tutti i modi di sfuggirle: «... Fiumi, poi campi, poi l'alba era viola, bianche le torri che infine toccò; ma vide tra la folla quella nera signora e stanco di fuggire la sua testa chinò: eri fra la gente della capitale, so che mi guardavi con malignità. Son scappato via, tra i grilli e le cicale, son scappato via ma ti ritrovo qua!».
    Il simbolismo fiabesco di Samarcanda che del resto è una delle costanti di gran parte delle composizioni del cantautore milanese, riappare in Lo Stregone e il Giocatore dove Vecchioni torna sull'argomento enfatizzandone la drammatica ineluttabilità cui difficilmente l'uomo riesce ad adattarsi: «...Gli anziani glielo avevan raccontato, portava i dadi e il gioco era truccato ma t'incantava il fondo di un sorriso su quel viso ancora giovane. E poi sentì ululare forte il lupo e, quando aveva già quasi perduto, vide che sulla luna gli sfuggiva la sua vita e se ne innamorò. Io sono un vecchio inutile, puoi prendere di meglio, tu dammi ancora un solo giorno e in cambio ti darò mio figlio».

    Con le regine, con i suoi re il carrozzone va avanti da sé

    Ma anche al di fuori degli ambienti colti della canzone «d'impegno» esistono interessanti tentativi di confronto con questo poliedrico argomento. Riccardo Cocciante che del bel mondo della canzonetta è da anni uno dei protagonisti più idolatrati, nel suo album Concerto per Margherita ha inserito una canzone, Quando me ne andrò da qui, che sembra possedere la stessa soffusa mestizia di un testamento, appena mitigata dalla malcelata speranza di sopravvivere, una volta morto, nel ricordo di chi ancora esiste: «... Quando me ne andrò da qui voglio questa mia canzone, panni stesi sul balcone e un tappeto per le scale con dei fogli di giornale, una donna con la croce, pochi amici senza pace. Quando me ne andrò da qui, nel mio ultimo viaggio, non mi servirà il coraggio, voglio solo una carriola e una cagna magra e sola. C'è una cosa che consola, quando io sarò partito, voglio che non sia scordato». Perfino il chiacchieratissimo Renato Zero, nel suo istrionico narcisismo, ha trovato lo spunto per trasporre in canzone la sua personale visione della morte; lo ha fatto utilizzando la felice metafora del carrozzone dal quale, prima o poi, tutti siamo costretti a scendere: «Il carrozzone va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti, i suoi re. Ridi buffone, per scaramanzia, così la morte va via! Musica gente, cantate che poi, uno alla volta, si scende anche noi. Sotto a chi tocca: in doppiopetto blù una mattina sei sceso anche tu!». Ma nel simbolo ha trovato spazio anche l'incurante procedere della vita, alienante e imbrogliona: «...E il carrozzone riprende la via, facce truccate di malinconia. Tempo per piangere, no, non ce n'è, tutto continua anche senza di te... Bella la vita, dicevi tu, e t'ha imbrogliato e t'ha fottuto, proprio tu!!! Con le regine, con i suoi re, il carrozzone va avanti da sé».
    In modo quasi analogo si è posto David Riondino, giovane compositore affacciatosi recentemente sul panorama musicale del nostro paese; in più, rispetto al Carrozzone di Zero, c'è nella sua Gli anni passano il gusto per la satira tagliente e dissacrante, spesso condita da una crudezza di linguaggio che fa fede al suo carattere di toscanaccio verace: «E gli anni passano i bimbi crescono le mamme invecchiano e inflaccidiscono... E i giorni corrono, i mesi fuggono, sale la musica, la vita è sdrucciola e i denti cascano, le rughe salgono ed ingialliscono e raggrinziscono, finché si ammalano e ospedalizzano con i cateteri e le dialisi. E infine schiantano l'ultimo rantolo così li incartano, li seppelliscono, e passa il feretro col passo funebre e li accompagnano e a volte piangono. Prendono l'autobus e a casa tornano, mangiano e bevono e poi si spogliano...». Impossibile non cogliere tra la ridda di situazioni descritte concitatamente nel testo il materialismo senza scampo dell'autore per il quale la morte non è altro che un momento neppur troppo solenne di un tran-tran spersonalizzante che tende a riprodursi all'infinito. Una moderna filastrocca con tanto di finale «ad libitum», in perfetta sintonia con l'anima capricciosa dell'Italia canora, entrata nella nuova decade con le paure, le contraddizioni, gli affanni e l'impeto di sempre.

    I brani citati nell'articolo sono stati tratti dai seguenti LP:

    In morte di S.F. da Folk Beat n. 1 1967 - FRANCESCO GUCCINI
    Il Pensionato da Via Paolo Fabbri 43 1976 - FRANCESCO GUCCINI
    Preghiera in Gennaio da F. De Andrè volume 1 1967 - FABRIZIO DE ANDRE
    La morte da F. De Andrè volume 1 1967 - FABRIZIO DE ANDRE
    Io morirò da Il mio mestiere 1977 - GINO PAOLI
    Aspettando Godot da Aspettando Godot 1972 - CLAUDIO LOLLI
    Samarcanda da Samarcanda 1977 - ROBERTO VECCHIONI
    Lo Stregone e il Giocatore da Robinson 1979 - ROBERTO VECCHIONI
    Quando me ne andrò da qui da Concerto per Margherita 1976 - R. COCCIANTE
    II carrozzone da Erozero 1979 - RENATO ZERO
    Gli anni passano da Boulevard 1980 - DAVID RIONDINO


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