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    La morte nella narrativa italiana contemporanea



    Severino Cagnin

    (NPG 1981-08-36)


    Un filo d'impercettibile respiro sale al cervello vacillante che sta per spegnersi; e questa è la morte, non si torna indietro. C'è nero brulichio, qualche lampo guizza e si disfa nella polvere di un chiarore lontano. Vede, ma cosa non sa. Non ha corpo, non sostanza, non spessore. Il buio si condensa, lo soffoca, lo schiaccia con la prepotenza dell'immobilità. Senza lacrime, piange».
    Così inizia, con la presenza della morte, il recente racconto autobiografico dal titolo Un grido lacerante di Anna Banti. E non è strano. Il tema della vita e della morte, del loro intrecciarsi e del loro reciproco illuminarsi, si fa sempre più presente nella narrativa italiana contemporanea. Anche senza fare una verifica quantitativa sui titoli usciti recentemente, basterà scorrere le tematiche e gli atteggiamenti di alcune opere qualificate per rendersi conto - quasi con sorpresa - come questi temi seri stiano affiorando nel romanzo attuale.
    La narrativa, come nuova epica dell'esistenza, sembra voler affrontare le grandi domande che Ernest Bloch ha posto all'inizio del suo saggio sull'uomo contemporaneo, Il principio speranza: «Chi siamo noi? Da dove veniamo? Verso che cosa andiamo? Cosa aspettiamo? Che cosa ci attende?».
    Questo avviene in varie forme e non sempre esplicitamente; non bisogna infatti generalizzare, ma è costante il riemergere di questi interrogativi esistenziali nei racconti di questi ultimi anni. Si pensi a Il fratello italiano di Arpino, dove la morte tragicamente sofferta viene vista come unico mezzo di purificazione dal male di cui è impregnata la città; oppure il valore salvifico della morte in Getsemani di Saviane; perfino nell'ultimo racconto di Pietro Chiara Vedrò Singapore? si insinua una inquieta consapevolezza della morte, come amara insoddisfazione dell'uomo ed attesa di un qualcosa di più. Lo ha sottolineato lo stesso autore, finora noto per brillanti racconti di costume e di evasione.

    Il ritorno del racconto dell'uomo con i suoi problemi

    Dal punto di vista letterario e, più profondamente, culturale, mi sembra necessario notare i motivi di questo atteggiamento, che è nuovo rispetto al neorealismo postbellico, che limitava l'analisi ai problemi e alle situazioni concrete, in polemica anche con un individualismo borghese, in cui sarebbero confluite assieme ai difetti della classe dominante, anche le delusioni e le false angosce dell'esistenza. Il superamento del neorealismo negli anni sessanta, da una parte attraverso il miracolo economico italiano, dall'altra con il riaffiorare dei problemi di portata universale mai risolti, ha ricondotto nella narrativa italiana gli interrogativi inquietanti. Dopo la polemica contro II Gattopardo, catalogato come romanzo della rinuncia (la sua stampa fu rifiutata da Vittorini), dopo la condanna dei sentimenti individuali (Cassola e Bassani furono relegati a narratori di lamenti d'appendice!) e dopo anche la conseguente crisi del romanzo sperimentale, negli ultimi dieci anni sta ritornando il racconto, con vicende e personaggi, cioè con l'uomo e i suoi problemi. Questo cambio di orientamento è da collegarsi anche con la crisi della ideologia marxista, che ha mostrato i propri limiti sia sul piano collettivo dove tende a sfociare in un socialismo dal volto umano, sia sul piano individuale, dove le risposte politiche non soddisfano le domande esistenziali. Si rivela di una strordinaria chiarezza l'analisi fatta da Silone in Uscita di sicurezza: «Nessun ordinamento pubblico eliminerà mai il dolore dalla vita personale e, in mancanza d'altro, basterebbe questo per mantenere viva l'inquietudine nel cuore dell'uomo. In mancanza d'altro, basterebbe la certezza della morte».

    La paura apocalittica

    Oggi il pensiero della morte si fa presente in modo angoscioso all'opinione pubblica, ogni giorno. La morte diviene per molti la proiezione delle angosce e della mancanza di sicurezza dell'uomo d'oggi. Questa paura apocalittica appare in varie opere recenti: negli ultimi racconti di Cassola, ad esempio Il superstite, il mondo sprofonda nella distruzione e solo un cane sopravvive alla catastrofe nucleare. Paolo Volponi, che in Corporale aveva descritto l'annientamento dell'umanità per una guerra atomica, ne Il pianeta irritabile racconta come nel 2300 sulla terra distrutta ricomincerà una vita primordiale e difficile, affidata ad un elefante, un'oca, una scimmia e un nano. Una situazione analoga, anche se più approfondita sul piano dell'interiorità vive il protagonista di Dissipatio H.G. di Guido Morselli, unico sopravvissuto ad una bomba al neutrone, perché si trovava nascosto in una caverna sulla montagna per togliersi la vita. E la morte, universale, cosmica, domina in quel grande romanzo postumo di Sebastiano Satta Il giorno del giudizio: in esso e in altre opere recenti la morte viene vista non più come paura politica e bellica, conseguenza di forze micidiali in mano all'uomo, ma come realtà insita nella vita, come fatto metafisico, universale, in rapporto con gli altri momenti fondamentali del vivere, come la nascita, l'amore, la giustizia, il bene e il male, la sopravvivenza, il trascendente.
    A questo proposito si inserisce qui un nuovo motivo, che potremmo definire di inquietudine religiosa, che ricerca nella morte il significato della vita e nel rapporto con Dio una speranza di immortalità. Si può collegare questa tendenza al risveglio religioso di questi ultimi anni, verificatosi dopo il Concilio Vaticano II e ad un accostamento alla problematica religiosa più serio e sincero. Si possono citare a questo proposito le opere di Berto, Pomilio, Santucci, Testori, Bartolini, Lago- rio, Coccioli... Ne Il busto di gesso di Gaetano Tumiati il punto di vista della morte è assunto come criterio di valutazione di tutta la sua vita, attraverso le varie ed opposte scelte politiche e morali. «Torna a visitarmi, quasi ogni notte, il pensiero della morte» confessa l'autore, iniziando il racconto.

    La ricerca di una ««ragione per morire»

    Questo richiamo alla morte è vissuto da vari autori con diverse modalità. Se da una parte c'è un denominatore comune, dall'altra bisogna riconoscere che ogni autore vive questa realtà in modo del tutto personale e diverso, rispecchiando in questo l'atteggiamento di ogni persona che interpreta le grandi realtà della vita in modo univoco.
    «Il tema della morte - ha detto Sabino Acquaviva - è tabù come il sesso nell'età vittoriana»: questo è vero riguardo all'opinione pubblica, nella pubblicità, nelle conversazioni private; ma poi l'argomento rientra attraverso la cronaca quotidiana. Accantonato il senso cristiano della morte, la cultura laica non ha saputo sostituirlo e cerca invano di allontanarlo con il silenzio. Ferdinando Camon, parlando della serenità della morte degli ultimi pontefici, affermava: «Queste sono morti rasserenanti, addirittura consolanti, non solo per il credente, ma per l'uomo in generale (...); queste sono morti pacifiche, addirittura aspettate (...). In questo amor fati c'è un tipo di sapienza che la nostra cultura laica non possiede e non trasmette. Noi fatichiamo a trovare qualche ragione per lavorare, studiare, scrivere; facciamo di questa ragione un motivo per cui vivere. Ma una ragione per morire non riusciamo ancora a inventarla, la nostra cultura non arriva a tanto».
    Questo senso di incapacità si presenta in varie opere, pensose o satiriche, ma concordi nell'accettare il dato di fatto e nel rifiutare un ottimismo superficiale. Gonzalo, l'eroe de La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, scopre che la vita è un formicolare di nevrosi e cattiverie e che «la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita ultima combinazione del pensiero». Anche Dino Buzzati aveva meditato su questa realtà ineliminabile e in un commento al suo Deserto dei Tartari (una parabola della vita come attesa della morte) scriveva rifacendosi alla simbologia militare: «Tutti in un certo modo appartengono ad un reggimento e i reggimenti sond innumerevoli, nessuna sa quanti sono e nessuno sa neanche quale sia il suo reggimento, oppure i reggimenti sono accantonati qui intorno, anche nel cuore della città, perché nessuno se ne accorga e ci pensi. Però quando un reggimento parte, chi gli appartiene, pure lui deve partire D. Questo morire quotidiano è una legge più forte di noi; si può dire che ogni attimo della nostra esistenza è intrecciato come una fune a due fili, di vita e di morte. Vari autori sviluppano questa consapevolezza, applicandola in varie forme a singole realtà o situazioni: il ricordo, il rapporto con il padre, la vecchiaia...

    La morte come chiave di interpretazione della vita

    Altri autori cercano nella morte la chiave di interpretazione della vita e ne deducono una posizione di impegno, riccamente motivato sul piano personale e civile, tale da dare alla vita un senso di alta dignità laica. Nel volume autobiografico Veder l'erba dalla parte delle radici il giornalista e politico Davide Lajolo rivede_la propria vita dal punto di vista della morte (una sincera valutazione fatta dal letto dell'ospedale durante una grave malattia). Ciò gli consente di valutare il bene e il male, riconoscere errori compiti, capire di più le persone incontrate, ritornare a godere delle piccole e grandi bellezze e riconquistarle una ad una: la luce, il respiro, i rumori... E come una seconda nascita per una vita più accettata ed amata.
    Un tentativo di inserire la morte nel quadro del destino collettivo dell'umanità è operato da Laura Conti, medico marxista, in Cecilia e le streghe, dove la protagonista cammina consapevole verso la morte a causa di un male incurabile e, reagendo con il dono della razionalità, sa trasformare il viaggio verso la fine in un significato positivo di solidarietà e di unione con il destino degli uomini.
    Più esplicita ancora Oriana Fallaci in Niente e così sia, lungo drammatico resoconto della guerra in Vietnam, che si apre, si snoda e si conclude sotto la tensione di una risposta all'interrogativo della morte. La giornalista rivela di essere andata in Vietnam a cercare la risposta alla domanda che la piccola Elisabetta le ha posto una sera: la vita cos'è? e la la morte cos'è? La risposta è trovata alla fine degli assurdi giochi della violenza: «Proprio perché siamo condannati a morte, bisogna attraversarla bene, la vita, riempirla senza sprecare un passo, senza addormentarsi un secondo, senza temere di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli né bestie, ma uomini». Ma all'inizio del volume c'è un dialogo tra l'autrice e la bambina, in cui si apre uno spiraglio di fede, autentica anche se ingenua, sulla sopravvivenza e il senso nuovo che la-vita ne acquisterebbe. La piccola Elisabetta non si rassegna al fatto che, come dice la scrittrice, la vita si riduca solo allo spazio di tempo tra la nascita e la fine e che la morte sis l'ultimo atto definitivo. «Non ci credo alle cose che dici - esclama Elisabetta -; io credo che quando un uomo muore fa come gli alberi che d'inverno seccano, ma poi viene la primavera e loro rinascono, sicché la vita dev'essere un'altra cosa».

    La morte come inizio di una vita nuova

    Si apre qui il discorso della morte come inizio di una nuova vita, momento perciò carico di dramma e di dolore, ma anche di speranza e di apertura verso confini superiori. La prospettiva religiosa della morte è rivissuta da alcuni scrittori contemporanei in modo originale, ma in tutti c'è il superamento dell'assurdo e la illuminazione della vita con nuove tensioni di impegno e di solidarietà. Gina Lagorio, attraverso la morte del protagonista di Approssimate per difetto, ha espresso un attento esame delle scelte politiche e morali; in Fuori scena Elena sembra ritrovare se stessa, la fede, la serenità perduta, nella morte dell'uomo amato, con cui sente una misteriosa comunione d'amore.
    Più esplicitamente religiosa è la morte nel racconto di F. Camon Un altare per la madre. «Si crede che la morte sia uccisione e lotta» afferma lo scrittore, confrontando la propria concezione culturale laica con la fede semplice della madre contadina, «invece la morte è una tregua in quella lotta a sangue che è la vita; in questa tregua uno può guardarsi attorno e finalmente capisce». Questa convinzione è fondata sulla fede cristiana: «Cristo c'è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse lui, vivere sarebbe una insulsa pazzia».
    In una luce di passione mistica si pone Conversazione con la morte di Giovanni Testori. La morte in questo poemetto- monologo perde ogni carattere angoscioso per diventare una realtà amica e familiare, «la mia unica dolcissima compagna e amante». Anzi è essa che spinge alla pietà e alla carità, a quei legami fraterni che la ragione progressista ha oggi cancellato. Lo sguardo di Testori si apre oltre il limite terreno verso il mondo della gioia, al giardino «dove la luce ha più sostanza, dove cresce di sé, di sé s'allarga e s'innalza senza limite e fine». A questo mondo luminoso, che richiama il paradiso dantesco, accenna anche Elio Bartolini in Pontificale in San Marco, dove la corruzione terrena viene annullata dalla presenza della Vergine, emblema di salvezza e purificazione.
    La fede nella sopravvivenza è trattata in chiave surreale-fantastica nel romanzo Il mandragolo di Luigi Santucci, dove in una leggendaria farsesca guerriglia la morte si trasforma in burla e in festa, celebrando così il trionfo della vita in nuove forme purificate.
    «Il mio romanzo - ha spiegato Santucci - non vuole essere una allegoria grottesca della fine del mondo in un senso conclusivo di liquidazione, un «tutti a casa D. Semmai per me il mondo, la sua vera storia e la sua civiltà cominceranno (con la più alta valenza di vita e di gioia e fuori dall'incubo) quando per vie di intensità fideistica, sentimentale e fantastica, sapremo superare la leggenda nera che i Morti sono morti; metafora di quei nuovi cieli e nuova terra di cui parla Isaia, sarà, io credo, proprio l'avvento di queste nozze d'amore tra Vivi e Morti». «Esprimo il mio impegno religioso - ha detto ancora l'autore - affermando, dimostrando narrativamente attraverso l'implicita fede in Cristo e nella sua risurrezione l'abolizione della Morte. La religione non ha altro concreto traguardo che liberarci dall'equivoco della Morte e fare dei Vivi e dei Morti una società di fratelli, di contemporanei e di comunicanti. Tante parole, in fondo, le mie, per illustrare ciò che la chiesa cattolica ha già inventato da un ventennio di secoli, chiamandolo in quattro parole la comunione dei Santi». Il tema religioso è chiaro; forse gli nuoce la impostazione allegorica. Ancora drammaticamente sofferto il tema affiora in Getsemani di Giorgio Saviane, dove l'attesa di Cristo sembra necessaria a dare significato all'esistenza e all'amore dell'uomo.

    Manca nell'insieme un ripensamento cristiano» della morte

    Anche in altri autori, come Pomilio, Bacchelli (ne Il sommergibile) la morte viene vista in prospettiva cristiana. Ma occorre dire che non è ancora maturata nella nostra narrativa una posizione culturalmente valida e trasfigurata sul piano artistico, che assuma in sé le grandi verità religiose di cui è carico il messaggio cristiano. Gli esempi riportati sono voci nuove ed interessanti, dotate anche di coraggio nel presentarsi in un ambiente letterario ancora in parte presuntuoso e discriminante. Ma i grandi temi risolutori, della paternità di Dio, della salvezza in Cristo, della divinizzazione dell'umano nello Spirito, sono toccati solo di fianco o in un impianto letterario che non sempre aiuta a far luce direttamente sul mistero. Forse occorre che tutta una cultura riassuma le realtà del Vangelo, soprattutto accetti di confrontarsi, nella sua autosufficienza, con il messaggio pasquale del Cristo, per rischiarare di una nuova luce rasserenatrice la morte e la vita dell'uomo del duemila.


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