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    Cinema e morte Indicazioni di cineforum



    Enzo Natta

    (NPG 1981-08-32)


    La tragedia di Vermicino ha avuto la sua eco anche sui banchi scolastici. «La morte come spettacolo: il tema sui mezzi di comunicazione di massa visto da una candidata». Così intitolava il quotidiano «Il Giorno» all'indomani della prova di italiano agli esami di maturità.
    La morte come spettacolo al cinema data fin dalle sue origini, da quando dovendo scegliere tra la «fiction» e la realtà, tra a fantasia e il documento, si optò per la prima, più facile, più suggestiva, meno ingombrante e problematica, passibile di qualsiasi manipolazione e di qualsiasi invenzione.
    La morte al cinema si mette in mostra con tante maschere, ma raramente presenta il suo volto autentico e inquietante. Nel western, nel filone avventuroso, nel poliziesco, la morte ha un ruolo essenziale e determinante, diventa «protagonista», si erge elemento portante di tutto il film. Se mancasse, il «genere» perderebbe non soltanto tutta la sua potenzialità espressiva ma rinuncerebbe alla sua stessa natura. In questi generi c'è la morte eroica, quando è coinvolto il «buono», il paladino del bene, e c'è la morte «resa-dei-conti» quando a soccombere è l'antagonista (con gli applausi della platea che equivalgono a un «pollice verso»). In questo secondo caso la morte svolge un ruolo di angelo giustiziere.
    In tutti questi casi ci troviamo di fronte a un concetto piuttosto semplicistico ed elementare della morte, concetto che diventa addirittura volgarmente quantitativo quando nei film bellici o avventurosi l'occasione stessa dello spettacolo è legata al numero dei morti ammazzati: più ce ne sono, più il pubblico si diverte.
    «È bello?» chiedeva un ragazzino a un suo coetaneo che usciva da un locale dove si stava proiettando un western. «Mica tanto» rispondeva l'interpellato, «ci sono pochi morti!». La morte come unità di misura estetica.

    Dalla morte spettacolo alla riflessione sulla morte

    La morte dell'individuo, che nel mondo animale scandisce il ritmo della vita della specie senza spezzarne la continuità, diventa un problema nell'esistenza umana relativo al destino spirituale del singolo in quanto singolo; in realtà l'uomo guarda alla morte non come a un evento normale ma come a un accadimento irrazionale e assurdo di cui il pensiero ricerca, fuori dell'ordine naturale, le ragioni segrete. Giustamente Schopenhauer afferma in Die Welt che «la morte è il genio ispiratore della filosofia» e che «tutte le religioni e tutte le filosofie sono un contravveleno alla certezza della morte».
    Bisogna aspettare almeno l'espressionismo tedesco perché questi motivi trovino ospitalità al cinema, perché la morte oltre che spettacolo diventi anche momento di riflessione. L'aspetto con cui si presenta la morte nel cinema espressionista tedesco - in film come Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, Nosferatu di F. W. Murnau, Il dottor Mabuse di Fritz Lang - è irrazionale e assurdo soltanto nella deformazione scenografica e nel taglio delle luci che alterano le linee del reale: in verità i vampiri e i dottori di Murnau, Wiene e Lang non sono che la proiezione anticipata di quella filosofia della morte che da lì a qualche anno ammorberà il mondo con il segno del nazismo e con gli artigli della svastica.
    Allo stesso modo altre «ombre ammonitrici» si trovano nel realismo poetico del cinema francese degli anni '30. L'«homme traqué», il Jean Gabin dei film della coppia Carné-Prévert, di Alba tragica e II porto delle nebbie, non soltanto sconta nella morte la trionfante presenza del male, il sogno di un'impossibile redenzione, la solitudine al quale è condannato, ma annuncia soprattutto l'olocausto al quale sarà chiamata fra qualche anno tutta l'Europa.

    Bresson: il significato della sofferenza

    La guerra riporta il cinema in un alveo manicheo tipico di certi generi, dove, elevata a macabra sacerdotessa di tonanti «battage» propagandistici identici sotto tutte le bandiere, seleziona buoni e cattivi destinando ai primi il «paradiso degli eroi» e ai secondi l'ignominia della sconfitta.
    Ma già in piena guerra si intravvedono i segni di un mondo che, di fronte all'orrendo spettacolo di dolore e distruzione seminato a piene mani dalla follia dell'uomo, si interroga sul significato della sofferenza e del sacrificio. Basti pensare a La conversa di Belfort, il primo film di Robert Bresson, girato nel 1944, nel quale l'autore francese anticipa quel discorso sulla morte che sarà poi il «leit-motiv» della sua filmografia; e attraverso opere come Il diario di un curato di campagna, Mouchette, Au hazard Balthasar, Così bella così dolce, Il diavolo probabilmente, preciserà via via il suo pessimismo che nasce dall'osservazione della condizione umana, dove l'uomo manipolato, reso servo da altri uomini, abbruttito dalla grigia e insopportabile quotidianità trova rifugio in una prospettiva tutta cristiana della morte considerata come passaggio e liberazione da una condizione transitoria come è quella della vita umana per chi ne ha una concezione trascendente.

    Angoscia e morte in Bergman e Antonioni

    L'inquietudine dell'esistenza, gli interrogativi sul destino dell'uomo, lo sgomento del futuro, il senso angoscioso del finito, l'incertezza del proprio essere e la consapevolezza delle proprie limitazioni investono nel dopoguerra quella parte del cinema europeo più sensibile a certi fermenti culturali che soprattutto nell'esistenzialismo trovano una delle spinte più significative.
    Bergman e Antonioni sono fra gli autori più rappresentativi di questa tendenza, e l'angoscia della morte è uno dei motivi più ricorrenti, uno degli interrogativi di fondo più frequenti che si ripropongono nelle loro opere.
    Se un comune denominatore sul tema della morte lega i film di Bergman e quelli di Antonioni, questo va ricercato in una morte «morale» che segna la fine dell'uomo ancor prima della morte fisica. Per Antonioni è la morte della coscienza, per Bergman la morte dello spirito; per Antonioni è un pessimismo esistenziale che si insinua in un contesto sociale ormai privato di ogni valore, disumanizzato e meccanizzato, incapace di cogliere la realtà oltre i suoi aspetti fenomenici (come dimostra Blow-up), per Bergman la «morte di Dio» è premessa della morte dell'uomo (da Prigione a L'uovo del serpente a Un mondo di marionette) e, dimostrazione «a contrariis», il divino è l'unico senso che può avere la vita oltre la morte (Il settimo sigillo, La fontana della vergine, Sussurri e grida).
    Se il cinema di Bresson è radicato nei valori della trascendenza e nelle radici culturali della nostra civiltà, quello di Antonioni riflette tutte le inquietudini, gli interrogativi, le incertezze senza risposta dell'uomo d'oggi, artefice e vittima di un mondo secolarizzato che nel silenzio di Dio non sa dare più alcuna risposta alle domande sollevate dalla morte. Fra i due il cinema di Bergman, in una specie di progressione che riflette l'evolversi dello stesso pensiero occidentale di fronte al tema della morte.

    La prospettiva religiosa nell'approccio alla morte

    Già la filosofia greca aveva dato al problema della morte varie soluzioni che sono rimaste fondamentali in tutta la storia del nostro pensiero. Nella dottrina platonica, che contrappone l'eternità dell'essere alla caducità del sensibile, la morte è la liberazione suprema, la catarsi definitiva dell'impurità corporea: essa è la risoluzione di una crisi che riguarda l'uomo come essere composto e interessa perciò non l'anima incorruttibile per natura ma il corpo destinato al dissolvimento. Il cristianesimo ne continua e ne eleva il soprannaturale messaggio: la vita del cristiano è partecipazione stessa alla vita di Dio (la Grazia) che iniziata in terra nella fede ha il suo pieno fiorire nella visione di Dio. Perciò la morte (ecco il cinema di Bresson) è la fine della prova terrena, non della vita, di cui il cristiano vive anche prima l'autentico significato; la morte è «transitus», inizio dell'eternità. Se già per questo il cristiano vince con Cristo la morte, la vittoria completa si avrà quando il corpo stesso sarà di nuovo vivificato e reso glorioso come quello di Cristo.
    Dal racconto del Genesi che presenta la morte come castigo, preannunciato, della prima colpa (e perciò appunto il promesso Redentore che espierà la colpa vincerà la morte risorgendo), al «Dasein» (esserci) di Heidegger (con la sua «finitezza» e la sua «impotenza» radicale, ma anche con la sua trascendenza che deriva dalla necessità di voler superare l'immediato, ed ecco il motivo sul quale si sviluppano molti film di Bergman); dalla vita di Budda, al quale la morte rivela il mistero dell'essere, alla leggenda di Faust e ancora al racconto tolstoiano La morte di Ivan Il'ic, il motivo della morte è al centro del problema soteriologico (dottrina della salvezza) ed escatologico (dottrina delle cose «ultime»), il fulcro della riflessione religiosa e metafisica. Ma la morte acquista, ovviemente, un significato positivo soltanto in funzione di una teoria dell'essere: il terrore istintivo della morte assume un senso spirituale esclusivamente in forza di un pensiero che trascenda l'immediatezza naturale di quell'angoscia e sappia concepire la morte in funzione della vita. Più oltre c'è quel senso di irrazionale, di assurdo, di inquietante interrogativo che sul problema della morte affiora nei film di Antonioni: da I vinti al Grido, da Cronaca di un amore a L'eclisse, da La notte a Professione: reporter.

    Elenchiamo una serie di film reperibili sul mercato che si prestano a un dibattito approfondito sul tema della morte.

    KAGEMUSHA di Akira Kurosawa - Giappone, 1980. Distribuzione: Fox
    La morte come scelta per riscattare se stessi.

    ILLUMINAZIONE di Krzystoff Zanussi - Polonia, 1972. Distribuzione: INC
    La morte come «risveglio» e richiamo al senso autentico della vita.

    MALEDETTI VI AMERÒ di Marco Tullio Giordana - Italia, 1980. Distr.: Academy
    La morte come punto d'arrivo delle proprie illusioni.

    LA CAMERA VERDE di Francois Truffaut - Francia, 1978. Distr.: INC
    La morte come legame con la persona amata.

    UNA NOTTE D'ESTATE - (Gloria) di John Cassavetes - USA, 1980. Distr.: CEIAD
    La morte come inizio di una nuova vita.

    SUSSURRI E GRIDA di Ingmar Bergman - Svezia, 1973. Distr.: Medusa
    La reversibilità fra morte e vita.

    CORPO A CUORE di Paul Vecchiali - Francia, 1979. Distr.: INC
    L'inutile tentativo di esorcizzare la morte con i sentimenti.

    LA MORTE IN DIRETTA di Bertrand Tavernier - Francia, 1980. Distr.: Gaumont
    La morte come «spettacolo».

    UOMINI E NO di Valentino Orsini - Italia, 1979. Distr.: INC
    La morte come sacrificio e purificazione.

    L'ENIGMA DI KASPAR HAUSER di Werner Herzog - RFT, 1975. Distr.: Lorange
    La morte (e la nascita) come mistero della vita.

    IL DIAVOLO PROBABILMENTE di Robert Bresson - Francia, 1977. Distr.: INC
    La morte come disperazione.

    BREAKER MORANT di Bruce Beresford - Australia, 1980. Distr.: Gaumont
    La morte come «ragion di Stato» e delitto della società.

    IL DIRITTO DEL PIÙ FORTE di Rainer Werner Fassbinder - RFT, 1973. Distr.: Lab '80.
    La morte come fuga dalle miserie umane.

    IL DESERTO DEI TARTARI di Valerio Zurlini - Italia, 1976. Distr.: INC
    La morte dopo la lunga attesa dell'evento che non si verificherà.

    ALL THAT JAll di Bob Fosse - Usa, 1980. Distr.: Fox
    La morte vista con l'occhio colorato di Hollywood.

    THE ELEPHANT MAN di David Lynch - USA-GB, 1980. Distr.: CIDIF
    La morte come ringraziamento e ritorno dell'essere umano al suo Creatore.


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