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    Per parlare della morte in modo cristiano



    Giampiero Bof

    (NPG 1981-08-26)


    Si profila la necessità di quella che Morin dice una «rivoluzione copernicana» nei confronti della morte. Ma il cristianesimo è capace ancora d'una tale impresa? O almeno può partecipare efficacemente all'impegno di questa trasformazione?

    DIRE LA MORTE DENTRO LE DOMANDE DELL'UOMO D'OGGI

    Si apre a questo punto la parte propriamente teologica di una interpretazione cristiana della morte, all'interno di quel complesso quadro finora richiamato. Alla problematica sulla vita occorre offrire una risposta non ambigua. L'esigenza si fa più viva se si propone non solo a livello teoretico, ma sul piano pratico, come concreta via di salvezza nella morte e attraverso la morte.
    D'altra parte nella coscienza cristiana la realtà concreta non è solo il luogo nel quale si presentano i problemi, bensì è anche l'unico luogo nel quale possono prospettarsi le soluzioni, in quanto in esso si media e si storicizza la grazia divina come luce per la intelligenza, conforto per la volontà, supporto per le realizzazioni della prassi. La incarnazione, che sta al principio della realtà cristiana, deve anche trovare la sua traduzione a livello di una metodologia della ricerca teologica. Fuori di questa prospettiva lo sforzo compiuto non può che risultare cristianamente vano.

    Fuori dalle sacche del dualismo

    Qui dunque si pone e attende la sua soluzione il problema cristiano della morte.
    Dobbiamo apertamente riconoscerlo: il cristianesimo storico si è reso colpevole di intollerabili semplificazioni, sia per aver consentito il prevalere del dualismo antropologico, di origine greca, il quale ha condotto a una netta separazione tra anima e corpo; sia per aver orientato l'attenzione in maniera eccessiva sull'al di là. E non si tratta, si badi di un errore che abbia le sue radici a livello teoretico; entrano invece in gioco tutte le componenti storico-culturali - e quindi economiche, sociali, politiche, ecc. - cui si è accennato prima.
    Non è un caso che l'irrigidimento del dualismo dati dall'avvento dell'epoca moderna borghese, soprattuttò con Cartesio e la sua scuola, e abbia trovato rinnovata conferma nella riaffermazione dell'immortalità dell'anima, da taluni riconosciuta quale «dogma dell'illuminismo».
    Il dualismo ha reso possibile il materialismo e lo spiritualismo, che si definiscono per l'assunzione esclusiva di uno dei due termini in gioco. Ma non è meno importante sottolineare che, contro di essi, l'insistenza sulla compresenza di anima e di corpo nella costituzione dell'uomo ha rappresentato una denuncia della unilateralità riduttiva e astratta.
    Non intendiamo svolgere questo discorso teologico in maniera adeguata; piuttosto ci limitiamo a sottolineare alcuni punti di particolare interesse per il nostro scopo.[1]

    L'esito nichilistico del materialismo e la perdita del singolo nello spiritualismo

    Il dualismo di anima e corpo, spirito e materia che ha dominato la tradizione cristiana occidentale ha tentato di offrire una risposta ad una esigenza profonda, quella di riconoscere la caducità dell'uomo, salvandone insieme il destino eterno. Una duplice fedeltà era in gioco: alla consistenza dell'essere e dell'uomo, contro cadute nichilistiche; alla finitezza della realtà mondana e dell'uomo medesimo, che non è semplice apparizione o parvenza sotto la quale si manifesta l'assoluto. Se il dualismo non ha saputo risolvere in maniera soddisfacente i problemi che affrontava, la divaricazione che ne è nata tra materialismo e idealismo non s'è rivelata più feconda, neppure nelle forme più scaltrite del materialismo scientistico, e di certo empirismo sotteso o esplicitamente dichiarato da avanzate concezioni scientifiche, ma fortemente succubi della ideologia naturalistica e materialistica.
    Senza la fedeltà all'essere nella sua globalità sprofondano nel nulla la vita intera dell'uomo, il suo senso e il suo valore, i progetti, gli impegni, le speranze. La vita quotidiana e i grandi momenti della storia, la gioia e la sofferenza dell'esistere, le realizzazioni feconde e l'amarezza del fallimento: tutto allora risulta una turbinosa e illusoria fantasmagoria, che presto svanisce.
    A chi fissi lo sguardo sulla vicenda empirica dell'uomo non sembra offrirsi altra ipotesi; e la cultura tecnologica, inchiodando il singolo uomo ed ogni evento alla relatività dello spazio e del tempo, insiste sull'inevitabile esito nichilistico. La morte dell'uomo altro non è che la restituzione dei prestiti energetici, dei quali s'è costruito; è la reintegrazione piena di un sistema biologico, dal quale per un istante s'era illuso di emanciparsi, o addirittura di divenire dominatore. Il processo della meteora materialista si conchiude in una irreversibile passività.
    Ma l'uomo pensa la propria morte: la prevede, la anticipa; vivo, pensa sé morto. Non è possibile allora interpretare il pensiero come la vittoria sulla morte, o meglio, la sua negazione? Il pensare la morte non esprime soltanto la propria capacità somma, ma dichiara insieme la impotenza della morte.
    Così l'idealismo ha riscattato la immortalità dello spirito: muoiono gli «io», ma lo Spirito resta, resta il Pensiero. Non s'apre altra strada per chi afferma la dimensione esistenziale dell'uomo?

    La religione è illusorio tentativo di evasione dal reale?

    L'esito del materialismo tecnologico e scientista, come dello spiritualismo idealista, è tuttavia identico: la morte dell'uomo, il nichilismo.
    La volontà di sfuggire al nulla è sembrato aprire nuovo adito, sino a contrassegnare certe epoche, alle religioni di salvezza individuale:
    Quando l'individualità è isolata, l'Io issa il vessillo sacro del profeta, l'illusione della fede nell'altro mondo» (Feuerbach). Le ondate della conversione si succedono dall'inizio del secolo, e lambiscono, ognuna, una schiera di ferventi intellettuali. I disperati navigano verso la rivelazione. I convertitori porgono la loro pertica: Credo quia absurdum. Per Kierkegaard proprio l'assurdità totale del sacrificio di Abramo diventa il segno stesso della verità divina. La follia del mondo si trasforma in saggezza impenetrabile. Ciò che è irrisorio appare maestoso. La disperazione si è tramutata in fede, il nichilismo in dogmatismo... Basta credere. Ed ecco che coloro i quali hanno respinto e rifiutato le saggezze laiche, e sorriso di pietà di fronte alla speranza rivoluzionaria terrestre, fremono intorno alle cattedrali; balbettano, proclamano la loro fede mutilante e militante. Militante ma nevrotica.[2]
    Chi crede di poter intraprendere e continuare un siffatto cammino è messo in guardia: l'insidia della illusione, della ideologia, della mistificazione è sempre in agguato; in essa agiscono tutte le forze negative della nostra epoca.

    LA PROPOSTA CRISTIANA: LA SPERANZA CONTRO OGNI SPERANZA

    Quando a queste forze sia riconosciuta tutta la loro invadente gravità, è ancora pensabile per l'uomo una eventuale via di salvezza? Può apparire credibile, in una società dove domina la morte, una reale salvezza dalla morte?
    Il cristiano che si presenti come messaggero di una tale proposta deve essere ben consapevole della tendenza dell'uomo a tentare la realizzazione di sé in prospettive illusorie, sino a pretendere di essere come Dio. Egli considera perciò con serietà le denunce contro le realizzazioni inautentiche dell'uomo, contro le falsificazioni, che sa connesse con quello che egli denomina peccato. Anche orientamenti che si pretendono cristiani vanno riconosciuti quali espressioni del peccato; così come lo sono progetti che si vogliono anticristiani, come quelli che promuovono la rimozione della morte e la nullificazione della vita. Non è escluso che questo moto verso l'alienazione si appelli anche a Dio, e alla salvezza cristiana entro la prospettiva della morte. Ma proprio contro tali deviazioni si è scagliata la cultura contemporanea, la quale rifiuta non solo di «afferrare la pertica» per risalire dalla morte a Dio, ma rifiuta Dio stesso, in quanto egli rappresenterebbe un limite invalicabile per l'uomo, in definitiva la sua morte. O l'uomo o Dio! È il motto che risuona con insistenza, dopo che già da tempo s'era deciso il «freddo silenzio» come risposta del giusto al «silenzio eterno della Divinità» e Jean Paul aveva dichiarato: «Il Cristo morto dall'alto dell'universo proclama che non esiste Dio».[3] Dal canto suo, Nietzsche ha denunciato in Dio un fantasma, opera dell'uomo e della sua follia; da lui e dai suoi retromondi Zarathustra è riuscito a liberarsi.[4]

    La morte come assenza e impotenza di Dio

    Ma è questa l'unica possibilità che si apre, alla quale anche il cristiano deve accedere? Morin, nonostante le riserve già avanzate, suggerisce una risposta negativa:
    Certo, qualche volta la rivelazione sfavillante, trionfante, scaccia radicalmente gli antichi tormenti: in questo caso, su una solida fede si può edificare un notevole equilibrio umano, una pienezza... Ma generalmente i convertiti continuano ad essere tormentati. Vogliono credere. Vogliono credere di credere. Dostoevskij crede di credere a forza di voler credere.[5]
    È forse poco l'illuminarsi di una possibilità, là dove sembra aver luogo solo l'impossibile, e l'aprirsi di una fenditura che permette il passaggio, in una parete granitica e compatta?
    Condizione in ogni caso impreteribile che la vita e la morte siano colte nella loro concretezza; che il progetto di esistenza si commisuri alla precarietà della vita, alla consapevolezza della morte, fuori delle illusioni. Ma consapevolezza e fedeltà al limite, rifiuto dell'illusione, lucida terrestrità non significano ancora conclusione nel mondano, negazione dell'apertura religiosa. Non meno che alla religione, alle prospettive laiche ed immanentistiche si impone di render ragione delle loro pretese totalizzanti, e che presumono di inglobare anche il momento della morte. Il passo di Jean Paul citato, pur nella sua aperta intenzione anticristiana, esprime due motivi genuinamente cristiani. Il primo è che Gesù è il modello, il punto di riferimento assoluto per la comprensione dell'uomo e dei suoi rapporti con Dio; più ancora: egli è colui che in maniera decisiva entra in conto per comprendere Dio, per riconoscerlo: se Dio in lui non si manifesta, se nella sua vicenda non appare, è inevitabile concludere alla sua inaccessibilità, o alla sua inesistenza.
    La seconda affermazione implicata nel passo citato dice la radicale opposizione tra la morte e Dio: la morte è l'assenza o l'impotenza di Dio. Se egli abbandona alla morte, l'uomo è rifiutato e definitivamente perduto: è la convinzione che la sera della Pasqua grava sui discepoli di Emmaus, e rende così triste e faticoso il loro cammino.[6]
    La coscienza biblica non attenua il valore di sfida a Dio insito nella morte; e per essa Dio prevale non sottraendo alla morte, ma superando la morte medesima, quando essa sembra ormai celebrare la sua lugubre vittoria. La sequenza della liturgia pasquale canta questa convinzione con uno slancio che solleva la meditazione commossa a toni epici: «Mors et vita duello conflixere mirando: Dux vitae mortuus regnar vivus».
    È questa la ragione per la quale la morte mette in gioco la fede in Dio, della quale è il supremo pericolo, e alla quale offre insieme la più ardua e solenne possibilità di vittoria, l'occasione della più sublime realizzazione, quale fiducia, affidamento e abbandono pieno a Dio.

    II cristiano guarda al «futuro di Dio»

    È il credo quia absurdum? La pertica sulla quale si pretende di arrampicare per forzare i confini del cielo? Può essere. Ma non è questo l'intendimento cristiano, il quale non ricerca la garanzia per il passo cui invita nella solidità del punto di partenza, né la riconosce, nel salto, alla stabilità del trampolino.
    Per questo l'absurdum, inteso come inadeguatezza rispetto alla meta di questi momenti iniziali, non entra in conto né per garantire, né per compromettere il raggiungimento. Lo sguardo cristiano è invece volto là, «donde aspettiamo il Salvatore nostro Gesù Cristo»: là, dove siamo accolti, si garantisce per noi.
    Una diversità profonda separa l'atteggiamento di chi è ripiegato verso il passato, da quello di colui che è proteso verso il futuro; ne risente la stessa comprensione di Dio, cui pretende di giungere una trascendente archeologia; ma al quale tende una trascendente escatologia. Solidale con la prima è la insistenza sulla perfezione delle origini, dalla quale per un processo interpretato come degradante l'uomo s'è distaccato, e alla quale va restituito. Solidale con la seconda è, invece, la insistenza sulla perfezione della meta finale, cui conduce un cammino che, oltre che faticoso e problematico, può essere tortuoso, ma che in definitiva si rivela positivo e progressivo.
    L'accettazione della seconda prospettiva comporta una diversa valutazione di quello che anima nel profondo la relatività del presente; è più pronta alla scommessa, alla sfida, all'avventura; più fiduciosa nel futuro, più sensibile alla speranza. Anche più giovane? .

    Contro ogni assolutizzazione del presente e dei suoi miti di salvezza

    Una impostazione escatologica coerente comporta quella che possiamo denominare la riserva escatologica su ogni presente, su ogni realizzazione, su ogni meta raggiunta nel corso dell'esistenza e della storia; anche sulle ideologie rassicuranti e totalizzanti; anche sulla assolutizzazione dell'impegno politico e storico.
    Abbiamo detto assolutizzazione. Che un tentativo di assolutizzazione della militanza politica come forma di salvezza sia possibile, e di fatto si dia, non necessita di lunghe dimostrazioni per chi ha avuto esperienza di quello che ormai va sotto il nome di «mito sessantottesco». Abbiamo anche già accennato come un certo ritorno del tema della morte nella nostra cultura sia legato alla caduta e alla frustrazione di quelle tendenze.[7]
    Anche l'impegno politico sta al di qua della linea della morte, come ogni progetto storico; il che non autorizza a negarne o a attuarne la serietà. Al contrario: solo a condizione che il messaggio cristiano della risurrezione permetta o favorisca questa serietà, può apparire, almeno a lungo termine, credibile e umanamente positivo. Ma c'è di più: la svalutazione della storia non è solo lesiva dell'uomo in una prospettiva umanistico-immanente; ma lo è dal punto di vista cristiano e teologico. Certo, per la Bibbia l'uomo è come l'erba che presto inaridisce; tutto è vanità, ripete l'Ecclesiaste, in consonanza con la sapienza tradizionale, e nel momento in cui lo sguardo del saggio si fa più disincantato. La morte corrode interiormente l'uomo e il mondo tutto. Resta ancora alla superficie la concezione che la riconosce come una presenza marginale, o che la vuol ricondurre ad un accadimento contingente, come in certe interpretazioni del peccato originale e delle sue conseguenze. La presenza della morte è più profonda: penetra nella struttura stessa del reale, nella sua finitezza.[8]
    Ma la coscienza biblica non s'arresta al punto della saggezza. Canta la grandezza dell'uomo, come nel salmo 8. Ma non è ancor tutto: anche la saggezza greca poteva recuperare la positività dell'uomo e proiettarla in una prospettiva di salvezza definitiva, come avviene nella dottrina della immortalità dell'anima.
    La Bibbia, e il Nuovo Testamento in particolare, vanno oltre di gran lunga quando proclamano «Beati i morti, che muoiono nel Signore!» (Apoc 14,13). Una nuova beatitudine, che s'aggiunge a quelle di Matteo e di Luca. Uguale ne è la struttura, uguale il senso: una realtà di salvezza e di liberazione, che si manifesta nella forma dello svuotamento, dell'impotenza: Dio nella forma del servo, ecco la rivelazione. Siamo al centro della Theologia crucis.

    Dalla vita mortale alla «vita eterna»: il «salto» della risurrezione di Gesù

    Gesù è, per il cristiano, il luogo nel quale si illumina in maniera adeguata la morte. Potrebbe del resto essere altrimenti, se hanno senso le affermazioni che lo proclamano Verbo incarnato, e professano che egli è vissuto ed è morto, e che con la morte sua ha dato all'uomo la vita, che egli è la vita medesima?
    Qui è implicata e di qui si svolge una dialettica che intride tutta la realtà cristiana, minacciata dalle arbitrarie semplificazioni, risultanti dal prevalere unilaterale di «morte» e «risurrezione».
    La morte di Gesù ha infatti tutta la negatività della morte: essa è la sintesi della negatività della morte.[9] La risurrezione non attenua la sua tragica negatività. Per questo non è neppure riconducibile ad una restituzione della vita: la frattura della continuità incide e sulla autenticità della morte, e sulla radicale alterità della vita del risorto, rispetto alla esistenza prima della morte.
    La frattura radicale tra la vita mortale di Gesù e la sua vita di risorto permette ancora tra le due una intimità, cui non possono accedere realtà diverse e distinte solo fenomenicamente, e al di qua della linea della morte. Non la esprime addirittura verbalmente il vangelo di Giovanni, che gioca sul duplice significato del verbo con il quale indica Gesù innalzato-esaltato sulla croce?
    La morte di Gesù è infatti segnata dal «Consummatum est»: la fine e il fine raggiunti; lo svuotamento e la pienezza. La parola ultima di Gesù, l'ultimo suo gesto, la conclusione della sua vita: sul piano delle prestazioni controllabili si apre ormai solo il nulla. Ma il senso e il valore della sua esistenza proprio nella morte sulla croce appaiono nella loro luminosità: ubbidienza e amore al Padre, amore e offerta per noi: dato per noi!
    La fecondità della morte di Gesù strappa alla morte il suo pungiglione; lo svuotamento, l'annullamento totale di quella morte la rendono feconda: se il seme non muore...
    La morte di Gesù trasfigura anche la morte dell'uomo. La fede cristiana la si può e la si deve misurare da due punti di vista: dalla sua capacità di illuminare la vita; e insieme dalla sua forza nel dominare la morte, contro la quale tutto sembra infrangersi. Si supera così la radicale ambiguità di chi per assolutizzare la vita nega la morte, e di chi negando la vita assolutizza la morte. Solo danzando sul sottilissimo e quasi impercettibile filo che unisce i poli opposti ci si può rendere credibili.

    Lo sconcerto e la speranza

    La trasfigurazione della morte in Cristo non sopprime lo sconcerto davanti alla morte. Anzi nulla esprime questo sconcerto dell'uomo nella morte in maniera più drammatica che la morte di Gesù sulla croce. Ma nulla propone all'uomo speranza più confortante, per quanto severa, di quella che rifulge dalla croce.
    Non dimentichiamolo: la speranza che spesso la religione suscita è quella della guarigione, dello sfuggire alla morte, di un esito positivo nel quadro dell'esistenza terrena. Vi si possono leggere indicazioni e intenzioni di vario segno: dalla semplice fede in Dio, che può anche il miracolo, alla superstizione che adopera la religione come assicurazione mondana; dalla contestazione del disegno creativo di Dio, alla lotta con Dio, come lottarono Giacobbe e Giobbe.
    Non ne risuona una eco anche nell'affannoso interrogativo di Gesù sulla croce: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». E più di un sospetto dobbiamo sollevare contro una certa positiva valutazione della sofferenza, quando non ne sia esaltazione, della quale è intriso talvolta il linguaggio cristiano; cui poi s'accompagna, non più credibile, l'appello al valore e al rispetto della vita.
    La speranza cristiana invero parla d'altro: dice la assimilazione del morente al Cristo sulla croce, la comunione con il Cristo morente; e in questa comunione essa si presenta come- assicurazione contro la solitudine e l'abbandono radicale, come certezza della presenza salvatrice di Dio. V'ha persino di più: il riscatto della morte, grazie a questa assimilazione con il Cristo, giunge a renderla feconda: nell'atto nel quale l'uomo esperimenta la sua suprema impotenza, egli può ancora «morire per gli altri»; la morte nella prospettiva cristiana acquista una sacramentale efficacia per gli altri.
    Ma questa speranza è credibile? Per quali praticabili vie coloro che la alimentano riescono a «renderne ragione»? (1 Pt 3,15).


    NOTE

    [1] Cf G. Bof, Un'antropologia cristiana nelle lettere di S. Paolo, Brescia 1976; e ancora la voce «Uomo», in Nuovo Dizionario di Teologia, Roma 1977; e poi «Immortalità», «Risurrezione», «Umanesimo», ivi.
    [2] E. Morin, o.c., p. 253.
    [3] G. Martelet, L'aldilà ritrovato, Brescia 1977, pp. 33 s., 55, n. 5.
    [4] F. Nietzsche, Cosi parlò Zarathustra, Torino 1959, p. 57.
    [5] E. Morin, o.c., p. 253.
    [6] Per il concetto di morte come separazione da Dio, cf G. Bof, voce Morte, in Dizionario teologico interdisciplinare, Torino 1977, pp. 600 s.
    [7] Cf Morin, o.c., pp. 254 ss.
    [8] Ricondotta alla finitezza, la morte non è però ancora spiegata. Addirittura ci si potrebbe chiedere se la morte non metta in iscacco ogni tentativo di spiegazione e di logica rigorosa, le quali sono «interne» alla morte, incapaci di raggiungere un punto archimedico, che realmente sollevi la problematicità della morte, senza negarla e misconoscerla.
    [9] K. Rahner, Sulla teologia della morte, Brescia 1966; L. Boros, Mysterium mortis, Brescia '1972.


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