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    Giovani e morte nella cultura dell'analgesico


     

    Giampiero Bof

    (NPG 1981-08-04)


    Diciamo subito che non ci soffermiamo ad analizzare la coscienza di morte dei giovani quale si tradisce o si esprime esplicitamente nei loro discorsi, nelle forme loro del lutto e del cordoglio, e in altre numerose e caratteristiche forme di comportamento nei confronti della morte. Il nostro discorso non intende volgere in quella direzione.
    Che la morte non risparmi i giovani, è cosa troppo nota, e sofferta come particolarmente cruda. Appunto: particolarmente cruda! Fatto naturale, si dice la morte, fatto universalmente umano. Ma se è naturale, deve seguire l'ordine della natura, e permettere il percorrimento del ciclo intero della vita: giovinezza, maturità, vecchiaia... E universalmente umano significa che quando un uomo ha vissuto intera la sua esistenza, allora può... deve... non può non morire.
    Ecco, forse il vecchio muore naturalmente; il vecchio ha un necessario immediato rapporto con la morte; ma il giovane no! Non si dice giovinezza il polo opposto alla vecchiaia, all'interno dell'esistenza umana?
    Eppure anche i giovani muoiono; sebbene con nostro grave sconcerto, perché la morte del giovane urta con maggior violenza e si rivela più difficilmente riducibile alle nostre spiegazioni, con le quali tentiamo di rendere comprensibile, e in qualche misura accettabile, la morte.
    Dobbiamo abbandonare allora ogni sforzo di rendersi ragione, di capire? Dobbiamo dichiarare la morte del giovane un masso erratico che improvvisamente ci sbarra la via, ma che a noi non è dato di sollevare e possiamo al più aggirare?
    Ma non si tratta solo di comprendere che i giovani muoiono; più ancora ci interessa chiarire come i giovani comprendono la propria e altrui morte; come i giovani si rapportano nella concretezza della loro esistenza con la morte.
    È un cammino arduo e complesso, nel quale vogliamo ora fare alcuni passi, e segnare alcune tracce che possano orientare a passi ulteriori e eventualmente al suo compimento.

    Coscienza giovanile: un presente senza profondità e prospettiva storica?

    E possiamo iniziare riprendendo la opposizione tra vecchiaia e giovinezza; ma sarebbe procedimento inetto quello che si limitasse a negare nei giovani quello che è tipico dei vecchi: la contrapposizione tra le due età è insieme meno rigida e più profonda. Vecchiaia, giovinezza e morte sono legate al tempo; ma il tempo non è la dimensione omogenea della fisica, per la quale si potrebbe dire che la giovinezza e la vecchiaia, su quel segmento che ha come termini la nascita e la morte, sono punti più o meno prossimi all'uno o all'altro dei due estremi. Neppure è decisivo il fatto di una maggiore probabilità di morte entro breve termine, o la sua imminenza: l'una e l'altra sono ancora maggiori per molti giovani, i quali sfidano quotidianamente la morte per i motivi e nei modi più diversi.

    Il tempo vissuto nella sua «puntualità»

    Il tempo dell'esistenza umana è insieme un presente, un passato e un futuro, tali che la «puntualità» del primo è in realtà pregna di tutti gli elementi che in essa si sono accolti dal passato, e in questa pienezza si apre alle anticipazioni del futuro. La triplicità dei momenti e la loro intima articolazione vanno giocate in tutta la loro portata concreta e singolare: il presente nella sua genuinità è sempre definito dalla sua concreta possibilità di dilatarsi, come memoria o come anticipazione, nel passato o nel futuro; e l'anticipazione - nella quale si puntualizza il rapporto con la morte - resta caratterizzata più dalla qualità che le proviene dallo slanciarsi proprio da quel passato, che dalla lunghezza della sua gittata.
    Non si intenda tutto questo in prospettive individualistiche: nella memoria di ciascuno urge una lunga vicenda naturale, biologica; sonnecchia, e talvolta si agita la immaginazione collettiva, con le sue immagini e i suoi fantasmi. È presente la tradizione, che il giovane tende a svalutare per la naturale sintonia che ha con i processi e le acquisizioni più avanzate della sua situazione storico-culturale. Il tutto coinvolto nel ritmo talvolta frenetico della vitalità giovanile, della esplosione di tutte le forze dell'uomo.

    Due atteggiamenti davanti alla morte: minore inibizione e maggiore rimozione

    Ma la morte è già presente nel fanciullo, e non s'allontana dal giovane. L'irruenza del vivere e la convinzione della distanza dal momento della morte rendono possibili due atteggiamenti apparentemente opposti: una minore inibizione quanto al parlare della morte, e una più facile rimozione se non intervengono incidenti, la propria morte è ritenuta molto improbabile.
    Con la rimozione s'alleano l'accettazione del rischio, o la sfida della morte; mediante i quali ci si rassicura circa la sua distanza.
    Così, la vittoria sopra la morte rende sapida la vita, ricuperata e quasi riscattata dal rischio; l'ebbrezza del dominio che si pretende esercitare su di essa, non consente più l'accettazione di alcun limite. La vita è assolutizzata, non nel senso di una infinita durata, ma come intensità piena e totalità di partecipazione.

    Rimozione di ogni limite e affermarsi di una «morale» eroica

    Ma la morale, in quanto è misura, senso della limitatezza, contrasta profondamente contro la tendenza all'assolutizzazione, della vita, ed allora è negata. Così come è rifiutato ogni ammonimento circa la caducità del piacere, il suo carattere momentaneo e illusorio, la necessità di una sua integrazione in una vita che si sa finita dalla morte. La figura del don Giovanni non può essere pensata altrimenti che nella pienezza o in una sorta di pietrificazione della giovinezza.
    Si afferma allora una morale eroica, che si slancia di là di ogni misura e di ogni limite, che richiede tutto, per sempre. Facilmente però l'impeto s'attenua e cade: e la caduta sarà provocata dall'esigenza di continuità e dalla ripetitività, che la concretezza dell'azione comporta.
    È comprensibile allora come nell'esistenza del giovane occupi un posto essenziale e talvolta pressoché esclusivo il «divertimento», quale è descritto e interpretato da Pascal;[1] e, con il divertimento, la noia: «Niente è così insopportabile per l'uomo come trovarsi in assoluto riposo, senza passioni, senza affari, senza divertimenti, senza problemi... Immediatamente verrà su dal fondo della sua anima la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione».[2]
    Proprio al giovane è più prossima questa noia infinita, proporzionata al vuoto che risulta non dalla mancanza di qualcosa, sempre facilmente surrogabile, ma del tutto: perché manca quello che, in quel momento, può occupare la totalità dell'orizzonte del giovane.

    GIOVANI E MORTE IN UNA SOCIETA GIOVANILISTICA

    Sono innegabili le consonanze tra le tendenze proprie dei giovani e alcuni tratti della società: opposizione alla tradizione e alla autorità tradizionale, spegnimento del senso del limite, scadimento della morale normativa, presunzione di onnipotenza, o almeno di possibilità illimitate. Il superamento del passato, cui tende la civiltà industriale, ben s'accorda con l'inesperienza giovanile e con il rifiuto, vivo nei giovani, delle remore, che la tradizione comporta: a vantaggio del nuovo, l'inedito, il futuro che la tecnologia in parte permette, in parte promette e fa sperare come possibilità imminente.
    I problemi non scompaiono né sono più facilmente risolti; vengono soltanto ricoperti: il male non è colpito alle sue radici, ma se ne spengono i sintomi. Trionfa la cultura dell'analgesico! Via via il procedimento della sostituzione nell'affrontare le difficoltà, protratto ad oltranza, è destinato a scontrarsi con la propria impotenza, priva della capacità di resistenza, di costanza nello sforzo, di attesa e di speranza nella sofferenza, di sopportazione e di coraggio nella dura lotta che l'esistenza impone. Risposte diventano allora la fragilità psichica, le nevrosi, e poi le varie forme di evasione, sino alla droga mortale.

    Allontanàti da ogni esperienza di morte e limite

    Sin che è possibile bambini e giovani sono tenuti lontani dalle esperienze e dalla consapevolezza di tutto quello che della vita costituisce un limite, la malattia e la miseria, la nascita e la morte: quegli avvenimenti, entro i quali si distende l'esistenza terrena dell'uomo, già integrati nella realtà della vita familiare, sono ora allontanati dalla riservatezza della clinica, o dall'isolamento dell'ospedale: funzione protettiva esercitata a beneficio di chi ne sta fuori. Anche sulla vecchiaia va steso un velo ipocrita: i vecchi sono accetti se, con gli atteggiamenti del giovanilismo imperante, fungono da baby-sitter, in sostituzione delle inadeguate strutture sociali. Se l'esperienza della morte si insinua subdolamente nel fortilizio costruito contro di essa, o ne frantuma i bastioni, può ancor essere neutralizzata; ma quando colpisce la cerchia degli affetti personali, il trauma psichico che ne risulta diventa terribile. E la liberazione è ancora più difficile, perché la società e il singolo sono ormai privi delle difese, un tempo così efficaci, di integrazione psicologica della morte: la presenza sempre pertinente della famiglia, del clan, della intera comunità; le forme del cordoglio, del lutto, ecc. Oggi sono numerosi i farmaci che promettono il sonno, la distensione, la dimenticanza, la rimozione; ma non permettono la soluzione, il superamento, la vittoria.

    Alternativa radicale: integrazione o rifiuto

    È una situazione ambigua quella della società contemporanea, forse contraddittoria: ne segue che le reazioni nei confronti delle forme di iniziazione e integrazione che essa ha elaborato sono reazioni paradossali ed ambigue. Se si accetta la integrazione sociale, si accetta anche aproblematicamente come unico possibile il progetto di esistenza che essa propone, e che prevede la rimozione della morte; se si rifiuta la società, il progetto di esistenza che essa propone, sembra doversi mettere in conto un rifiuto radicale della vita stessa, della realtà. Sotteso è il nichilismo, la negatività assoluta, sino alla lucida progettazione dello spegnimento progressivo della vita, o alla ricerca diretta e decisa della morte.
    Oppure l'orientamento è verso la ribellione violenta, il tentativo terroristico e di rivoluzione, a causa della delusione per il falimento dei grandi progetti di rinnovamento sociale e politico: sentiti e assolutizzati come le uniche forme di vita degna e pienamente umana.

    UNA VALENZA POSITIVA AL NICHILISMO GIOVANILE?

    Proprio perché si presenta la società come l'unico alveo nel quale è possibile incanalare la vita umana, la contrapposizione ad essa, anche in nome di una vita migliore, finisce troppo facilmente col risolversi in generici utopismi, in anarchismi velleitari, e negli esiti più sconfortanti e fallimentari. Ma non bisogna neppure soggiacere al peso dei fenomeni più negativi, così da non riconoscere e sottolineare che tra i giovani contestatori prevalente è la volontà di una vita qualitativamente diversa, più autentica e più umana. Di qui sorgono le più larghe e consapevoli opposizioni alla integrazione sociale, e agli indirizzi che la società propone, al dominio che essa pretende di imporre ai singoli, e alla violenza che riesce di fatto a esercitare. Così che può persino acquistare valenza positiva il nichilismo: esso, nonostante una pericolosa identificazione della realtà e delle sue possibilità con l'assetto di morte tipico della società odierna, si oppone ad essa, ne forza le costrizioni e, tentando di distruggerla, lascia balenare altre possibilità, spente o rimosse.
    Si ascolta spesso il discorso sul dar un senso alla vita, cui s'oppone l'affermazione del suo non-senso, o la volontà di non chiuderla in un senso determinato. Ci si chiede se sia possibile un'esistenza umana, che non sia già un dar senso; se il senso non sia semplicemente correlativo all'umanità dell'esistenza, così che lo si affermi anche e proprio là dove se ne proclama il rifiuto.
    Non meno importante è però chiedersi se la gamma dei sensi proposti oggi come positivi o necessari non sia di fatto logora, spenta, alienante; così da rendere almeno comprensibile e anche plausibile la dichiarazione e la volontà di rifiutarsi a quei sensi, e di contrapporre il non-senso alla proposta mortificante e mortifera che il nostro mondo avanza e impone. Che non sia il naufragio l'unica possibilità di salvezza, e di approdo all'ultima spiaggia della libertà?


    NOTE

    [1] Cf. B. Pascal, Pensieri, Milano 1952, pp. 65 ss., nn. 139-143.
    [2] B. Pascal, o.c., p. 64, n. 131.


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