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    Essere, fare e avere



    Pietro Prini

    (NPG 1981-01-08)

    Alla radice dei mali della civiltà moderna di questa splendida e rovinosa civiltà moderna, sta un dubbio radicale, vero e proprio cambiamento del senso della vita. Noi stiamo scontando gli esiti, o come direbbe qualche sociologo, gli effetti perversi di questo cambiamento.

    La caduta del primato dell'essere

    Ridotto alla sua espressione più essenziale, esso è consistito nella sostituzione del primato del fare e dell'avere al primato dell'essere. Il valore della produttività e della efficienza, da un lato, e dall'altro quello di ciò che si possiede - sia esso il cumulo del denaro o dei beni di fortuna o anche il patrimonio delle idee che si hanno, in maniera dogmatica, senza la esigenza critica di pensarle veramente, o delle qualità dell'anima, di cui ci si orna e ci si gloria, senza metterle continuamente al repentaglio della vita -, hanno preso il posto della dignità del nostro essere anzitutto e profondamente uomini. Il titolo così spesso ripetuto nella letteratura umanistica del Quattrocento: De Dignitate hominis era stato cifra di questo valore propriamente spirituale dell'uomo, al di sopra del suo rendimento e delle sue stesse doti socialmente apprezzabili. Quando sono nate, all'inizio del secolo XVII, insieme con il capitalismo, la scienza e le tecniche moderne, si è venuta invece imponendo, nella scala dei valori dell'uomo esemplarmente moderno - l'homo faber, che vuole impadronirsi delle forze della natura - questa persuasione di fondo: «Io valgo non per quello che sono nel mio essere profondamente e umilmente uomo, ma per quello che possiedo e produco».

    Valgo perché produco e possiedo

    Anche in altre età, certamente, il fare e l'avere sono stati apprezzati e spesso esaltati, ma è un carattere della civiltà moderna, la civiltà dell'ésprit bourgeois, quello d'averli collocati entrambi al vertice della scala dei valori, in un quadro metafisico che ha trasformato profondamente il rapporto dell'uomo con la vita, con la natura, con la società e con Dio. Nell'orizzonte di senso aperto dall'assunzione di quelle due categorie in funzione primaria, l'uomo moderno, fuori da un ordine ultimo delle finalità, si è lanciato nell'avventura straordinaria delle possibilità offertegli dalla nuova scienza e dalle nuove tecniche. Non ritengo, a questo proposito, che siano separabili la scienza e le tecniche che ne derivano, almeno nella funzione che l'una e le altre hanno avuto ed hanno nell'orientamento pragmatico ed utilitaristico di fondo della civiltà moderna.
    L'ideale di questa è stato, in definitiva, la trasformazione scientifica del mondo - e oggi dell'uomo stesso, nella sua struttura biogenetica, fisiologica, neurologica e psichica - in vista di una gestione contabile degli strumenti di produzione e dei beni di consumo.
    Era la sola risposta possibile, o pensabile nell'orizzonte della civiltà moderna, agli antichi problemi del bisogno, del desiderio e della paura nella prospettiva della metafisica del fare e dell'avere.
    I mali di cui soffriamo sono derivati dal fatto che egli, l'uomo moderno, non si è mai principalmente occupato della trasformazione educativa del suo proprio essere, di quello che i greci chiamavano paidèia, la civiltà dell'essere veramente uomo.
    In realtà, il diagramma che potrebbe forse dare un'idea appropriata dell'uomo moderno è questo: da un lato l'uomo ha aperto davanti a sé, mediante la formalizzazione.. matematica del sapere, il campo sterminato della sua produttività, delle sue macchine sempre più perfette, dei suoi congegni sempre più esattamente regolati, fino al cervello elettronico che potrebbe domani decidere della guerra o della pace; dall'altro lato, l'uomo si scontra impotente con l'inalienabile realtà del suo proprio essere, la realtà che gli è data, il suo esser nato di donna, con un'anagrafe metafisica ben precisa da riconoscere come la condizione e la finalità del suo stesso operare. Questo lato propriamente umano dell'uomo è ciò che è stato represso e umiliato da una civiltà come la nostra, che ha optato per il fare e per l'avere anziché per l'essere.
    Di fronte a questa scelta acquista tutto il suo senso la risposta di Obermann nel famoso romanzo di Sénancourt: «Io, io, io; ma chi sei tu per darti tanta importanza?» «Per l'universo, nulla; per me, tutto». Al di qua delle possibilità del nostro fare e del nostro avere, resta l'infinita importanza del nostro essere, l'unum necessarium, la nostra salvezza.

    Alienazione

    Nello sviluppo parziale della sua umanità, o in una serie di sviluppi unilaterali, sono dunque da cercare le fonti della disperazione dell'uomo moderno: il suo estraniarsi o alienarsi o perdersi quotidiano nell'ossessione del fare o del voler fare - secondo la lucida tragicità del progetto di Carlyle: «Lavorare disperatamente per vincere la disperazione» - e il suo preoccuparsi di ciò che ha, nel timore di perderlo o nella tensione di trattenerlo, finendo in realtà con l'esserne posseduto, in una specie di dialettica quotidiana dello schiavo e del tiranno.
    Stiamo soffrendo tutti, in mille modi, i sintomi di questa malattia del fare e dell' avere.
    Il privilegio del nostro tempo è di averli messi in evidenza incontestabile. Prenderne atto con sicura consapevolezza non comporta, certamente, il rinvio nostalgico a modi e forme di cultura del disimpegno dal fare o del distacco pauperistico, che sarebbe fatuo voler risuscitare da un passato in cui avevano il loro senso storico preciso. Ne deriva, piuttosto l'esigenza urgente di ricollocare il fare e l'avere nella finalità dell'essere, del nostro essere umanamente liberi e intensi.
    Su questa strada l'uomo di oggi, anche quando avesse il proposito di percorrerla, è ostacolato e in un certo modo bloccato dai mali del fare e dell'avere, dalle inibizioni, dalle repressioni e dalle alienazioni in cui lo vincola la sua metafisica pragmatica ed utilitaria.

    Le malattie del fare e dell'avere

    Vogliamo disegnare un quadro patologico, almeno nella sua espressione più semplificata e paradigmatica, delle malattie costituzionali che derivano dalla metafisica pragmatica ed utilitaristica che egli ne ha dedotto?
    Queste malattie mi sembrano di tre specie: le malattie del linguaggio, le malattie del desiderio e le malattie del bisogno.
    Vorrei che ci si persuadesse che i problemi di fondo sono metafisici anche quando sono proposti nell'orizzonte delle categorie sociologiche o psicologiche. Si tratta di cambiare l'impianto metafisico in cui si è collocata la mentalità dell'uomo moderno: un cambiamento che non è un'impresa ludica dei professori di filosofia, perché investe tutti gli uomini della nostra società, anche e specialmente, l'uomo comune, l'uomo della strada.
    Se non diamo questa dimensione al nostro discorso e ci limitiamo all'ambito dell'em. pirico, dell'empirico sociologico o psicologico, anche noi restiamo presi nel gioco di quella metafisica del fare e dell'avere. Si tratta di decidersi ad assumere un atteggiamento profondamente diverso di fronte all'esistenza, ossia a ciò che condiziona la nostra cultura.
    Un vizio comune del nostro tempo è quello di baloccarsi con false filosofie di superficie. C'è la pretesa pseudo-filosofica del sociologo, dello psicologo, del linguista, dello psicanalista, che si muovono prendendo a prestito da questa o quella ideologia di moda propri riferimenti categoriali. Se leggete le opere di alcuni psicanalisti aggiornati vi accorgerete che partono tutti da un presupposto indiscusso non certo «analizzato»: quello che anche Freud riteneva la triplice conquista della scienza moderna, quando osservava che la fisica ha negato la terra come centro dell'universo, la biologia ha eliminato l'uomo come differente dagli altri animali, e la psicologia ha eliminato l'uomo come padrone dei propri atti. È evidente che, se questa «riduzione» non viene discussa sopra un piano che oltrepassi l'ambito di queste scienze, non c'è da dire altro dell'uomo che non siano i suoi interessi o bisogni puramente vitali. Tutto il resto, dirà, è soltanto un fenomeno di «riflusso» sociale verso il «privato», verso il religioso o il metafisico.
    In realtà, si tratta soltanto di una metafisica a-critica che ha occupato la mentalità comune dell'uomo d'oggi. L'uomo medievale pensava da tomista o da agostiniano; quello d'oggi tende a pensare dentro quelle tre «inibizioni» della scienza moderna. Rispettivamente le terapie che ne hanno proposto il rimedio, nella cultura contemporanea, si sono collocate nelle prospettive metodologiche aperte dal neopositivismo linguistico, dalla psicanalisi freudiana e dal materialismo dialettico marxista, che sono le correnti di pensiero che hanno maggiormente operato sul complesso dei giudizi e delle valutazioni, sulla mentalità dell'uomo comune. C'è da ritenere che proprio per questa ragione, la proposta sia rimasta parziale ed inefficace, o addirittura tale da aggravare le condizioni di questo «grande malato» che è l'uomo comune di oggi.

    Patologia e terapia del linguaggio

    La malattia del linguaggio è davvero una malattia profonda, se l'uomo è essenzialmente, come dice il Cassirer, animal symbolicum, un animale che si esprime mediante la parola e la lingua. Che cosa è divenuto il linguaggio per l'uomo che si esalta soltanto nel fare e nell'avere? Esso ha raggiunto certamente un alto livello di perfezione formale e di esattezza critica nell'ambito della scienza e delle tecniche. Nel realizzare il progetto di costruzione di linguaggi perfetti l'uomo è arrivato a doversi mettere in concorrenza con le stesse macchine che egli ha creato, anche se i calcolatori elettronici della cibernetica più avanzata appaiono ancora a Claude Elwood Shannon, il grande teorico dell'informazione, «come dei sapienti stupidi». Ma questa concezione puramente strumentale del linguaggio si accompagna, nella cultura contemporanea, con quella fonte costante di equivoci, di malintesi e d'incomprensione che è il linguaggio attraverso il quale s'incanalano le suggestioni incontrollate della «cultura selvaggi» delle comunicazioni di massa, dalle quali finisce con l'essere sopraffatto anche il linguaggio dei nostri rapporti quotidiani, quello delle nostre discussioni e delle nostre scelte, sia morali, sia religiose, sia politiche, o infine quello stesso con cui ci avviene di pensare a noi, di parlare con noi stessi. Contro questa corruzione del linguaggio nel suo uso propriamente personale Wittgenstein ha proposto il suo affascinante ideale della chiarezza. E tuttavia la generale accettazione della concezione pratico-utilitaria dell'uomo ha ristretto il campo d'azione delle cosiddette terapie linguistiche nell'ambito dei modelli logici del fare o comunque del puro ed esclusivo riferimento empirico.
    Non si è arrivati alla terapia di quelle zone del linguaggio dove ha importanza il valore dell'essere che siamo noi stessi, come la zona del linguaggio privato, del parlarsi in «io» e «tu», dove si decide tra la verità e la falsità di un rapporto interpersonale, tra la verità e la maschera dell'amore, dell'impegno, della speranza, o la zona dei linguaggi della comunità politica o religiosa, o quella infine dell'anima che sta di fronte a se stessa, la zona del raccoglimento interiore.
    In tutte queste regioni linguistiche i criteri di verifica del linguaggio scientifico e tecnologico sono del tutto impertinenti ed inutilizzabili. Perciò il rimedio positivistico o linguistico-analitico è rimasto in gran parte sterile - almeno fuori dal campo scientifico e tecnico - proprio là dove il male è. più grave, perché ne derivano le difficoltà insuperabili della comprensione reciproca, le radici della violenza e la malafede con noi stessi. Ciò che doveva essere corretto era il modo stesso di concepire la funzione ed il valore del linguaggio, che non è soltanto un apparato strumentale della comunicazione, ma piuttosto, nel suo senso più profondo, l'atto stesso del manifestarsi e del presentarsi di ciò che veramente è, o, come dice Heidegger, è la «dimora dell'essere». Il linguaggio del profondo è di questa natura. È la parola come testimonianza, dove colui che parla è esso stesso in ciò che attesta, e le sue parole sono inseparabili da un atto di impegno e di partecipazione.
    Il rimedio dei nostri mali dell'incomprensione e dell'equivoco sta soltanto nel recupero di un legame profondo tra il linguaggio e l'essere che siamo noi stessi, cioè, in definitiva, nel riconoscimento di un senso metafisico e religioso dell'esistenza.

    Desiderio e mistero

    In un altro settore della cultura contemporanea sono sorti e si sono moltiplicati dopo Freud i nuovi messaggi di «guarigione» di quelle oscure malattie dell'anima che derivano dalla repressione o dalla sfrenatezza del desiderio. Qui il fenomeno più immediatamente rilevante del vasto diffondersi (fino ai livelli contagiosi della moda) dei «trattamenti psicoterapeutici», almeno di quelli che si chiudono in una prospettiva soltanto vitalistica, è quello che potremmo chiamare la profanazione del senso del mistero, la violazione sconsacrante del mondo interiore. Assistiamo, diceva a questo proposito Peter Wurt in Nativität und Pietät, «ad una secolarizzazione sempre più radicale di quella zona dell'anima che i mistici cristiani chiamavano l'intimum mentis. Il mistero che ci costituisce nell'intimità di un desiderio infinito - che è il nostro «desiderio primario», ossia il desiderio non di un oggetto, ma semplicemente di essere, dove si fondono insieme l'opzione di continuare ad essere (l'uomo essendo il solo che possa rifiutarsi di essere) e la fruizione edonica, come vissuto profondo, del dono di esistere nella coralità delle creature - è designato e «trattato» dai nuovi guaritori come la cattiva coscienza della libido repressa o sfrenata. E in effetti, se l'uomo coincide con il proprio fare e con il proprio avere, non ci sarà nulla di misterioso in lui, se non quello che egli stesso vorrà, attraverso i meccanismi delle sue proprie scissioni, nascondere a se stesso e agli altri. Il mistero dell'anima si risolve o si dissolve in una tecnica dell'auto-inganno, nell'astuzia subdola della malafede. Il mistero che noi siamo a noi stessi è una verità che ci comprende, piuttosto che non possa essere compresa da noi. È la verità dell'essere di cui siamo i depositari piuttosto che la sorgente e nel riconoscimento del quale consiste il rispetto di noi stessi e degli altri.
    Certo, la psicanalisi non sarebbe apparsa e non avrebbe avuto tanta fortuna come una nuova terapia dell'anima senza le innumerevoli finzioni e mistificazioni di un'educazione viziata da un moralismo precettistico che ha perduto quasi ogni legame con la felicità della vita e la partecipazione dell'amore. Ma è una terapia che non può essere autenticamente umana, o anzi si fa disumana, se non si iscrive e si fonda in quella specie di conversione interiore ontologica che ci fa riscoprire il nostro essere desiderante, alle sue radici, come un'inquietudine del divino, o secondo l'espressione di Paul Valéry, come qualcosa o qualcuno «che è profondamente indizio», che è essenzialmente «al di là della propria somma».

    La salvezza dal bisogno

    C'è infine un terzo aspetto dell'uomo contemporaneo ed è la frustrazione o l'insoddisfazione dei suoi bisogni fondamentali, di cui la proposta marxista, confinando la metafisica e la religione tra le «sovrastrutture» dell'evasione mistificatrice, vuole essere il messaggio di una salvezza integrale. Questa proposta è nata, in effetti dalla persuasione collettiva della possibilità di una salvezza totalmente terrena dell'uomo, o certamente ha grandemente contribuito a diffondere questa persuasione.
    L'uomo moderno, ricusando gli attributi divini che da qualche millennio gli avevano conferito le religioni e le filosofie dell'Occidente, si ritiene tuttavia sufficiente s se stesso, nella sola forza che gli viene dal proprio lavoro e dal possesso collettivo dei suoi strumenti e dei suoi prodotti. Il marxismo è la forma più religiosa e coerente di quel primato del fare e dell'avere sull'essere, che sta all'origine della terrestrità moderna, nell'età del capitale e della tecnica industriale.
    Esso ha assunto, potenziato ed universalizzato, il senso più originario dell'ideale borghese, spostandone la forma della soggettività dall'individuale al collettivo. La mèta che esso propone alla massa proletaria strutturata nella lotta di classe è quella di un escatologismo terreno, dove il senso sacrale della speranza cristiana viene trascritto in un registro di nourritures terrestres. Il messianismo marxista della salvezza del bisogno è la più radicale laicizzazione che mai si sia presentata nella storia del messianismo cristiano.

    La morte nel «regnum hominis»

    Ma questa filosofia della pienezza ha avuto di fianco a sé, nella sua rinascita particolarmente invadente nel secondo dopoguerra, una contemporanea scomoda che è stata a sua volta la più radicale denuncia del nichilismo della filosofia del fare e dell'avere.
    Le filosofie dell'esistenza, sviluppando per vie diverse la lezione di Kierkegaard e di Nietzsche, sono state nel loro complesso una tematizzazione del tempus edax rerum, cioè infine della morte, che è la contraddizione più flagrante nel regno dell'homo faber, perché è l'improduttivi pura, l'ultimo nonsenso del lavoro e della gestione possessiva dei suoi prodotti. Se la morte non costituisce un problema per gli individui delle specie animali, che vivono inesorabilmente condizionati dagli interessi della specie, essa è invece il problema dei problemi per l'uomo che ha il potere misterioso e terribile di accettare e di rifiutare il proprio essere e dunque d'interrogarsi sul proprio destino. Nessuna filosofia potrà mai ritenere di aver detto una parola chiarificatrice del senso della vita, fino. a quando non si sarà posta seriamente il problema della morte.
    Nel marxismo la pienezza della soluzione terrestre del problema dell'uomo come soggetto di bisogno è stata fondata, in definitiva, sopra la repressione dell'esigenza di dare un senso alla morte. Così l'escatologia mondana che esso progetta si implica di fatto in quella frustrazione del desiderio di assoluto, che ha costituito la motivazione più segreta dell'esaltazione del fare e dell'avere nella civiltà moderna ed è radice più profonda della disperazione insita in questa civiltà.
    Feci una volta una discussione pubblica con Garaudy a Napoli, davanti a 2.000 giovani, su questo punto, e la discussione si sviluppò accesa - ma parlo di Garaudy quando era marxista, o più vicino al marxismo di quanto lo sia ora - e mi parve che appunto questo fosse il punto della questione da cui un cristiano, un religioso, un metafisico dell'essere può affrontare il marxismo. Tanti altri punti ci sono, ma questo è il punto di fondo. Non si può fondare un senso della vita se non si dà un senso della finitezza dell'uomo, della finitezza radicale, essenziale dell'uomo e non solo dell'individuo umano, ma di tutta l'umanità nel suo complesso.
    Se l'umanità - e questo sarà un punto che Horkheimer nell'ultima sua posizione riprenderà - fosse soltanto come una muffa cosmica che ad un certo momento ha assunto le forme della vita e che ad un certo punto scompare senza lasciare traccia nel cosmo, l'umanità sarebbe ultimamente un episodio senza senso. È proprio questo il problema metafisico di fondo: bisogna poter rispondere, o almeno potersi interrogare come se si trattasse di un problema autentico, e chiedersi: «Qual è il senso ultimo della vita?». Di qui il divario del religioso dal mondano, del religioso dal puramente politico o sociale.

    Il marxismo nella cristianità

    Il marxismo, che non a caso è nato nella tradizione della civiltà occidentale, non avrebbe presa sopra centinaia di milioni di diseredati o d'impazienti, se il messaggio classico e cristiano del primato dell'essere non fosse stato travolto nella cattiva coscienza di coloro che ne hanno fatto lo strumento e la maschera del privilegio e della prevaricazione.
    Riconoscere apertamente la diagnosi dei mali che affliggono questa nostra civiltà non significa tuttavia abbandonarsi alle terapie dei falsi profeti. Il problema centrale è di ritrovare l'importanza che ha l'essere di ciascuno di noi, come destinatario di una vocazione assoluta, in cui trovano un senso creativo, insieme personale e sociale, il nostro fare ed il nostro avere. Occorre collocarci al di qua delle ansie del fare e dell'avere, fuori da una considerazione pragmatica della vita dove il mondo, secondo l'espressione di Gabriel Marcel «ci può apparire soltanto come il luogo di una specie d'immensa e inflessibile contabilità» (Etre et Avoir, 1935, p. 116).

    Una vocazione assoluta

    Si tratta di evitare di essere come degli ipotetici viaggiatori in una navicella spaziale, che abbiano perduto il contatto ed i vincoli della gravità e vadano, così come va il progresso moderno, con straordinaria rapidità, ma senza sapere dove, verso l'abisso in fondo al quale sta una morte senza senso.
    Ecco, il problema centrale della civiltà del fare e dell'avere è di ritrovare gli ormeggi, la gravità dell'essere.
    Nel rapido, disordinato e violento andare del mondo contemporaneo dobbiamo ritrovare il senso del nostro proprio essere, singolare e comunitario, che illumini di assoluto la nostra vita e le nostre speranze.


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