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    Fare compagnia all'uomo nel segno della radicalità della fede



    Intervista a Giuseppe Ruggieri

    (NPG 1980-10-26)


    Due atteggiamenti da evitare

    Domanda: Uno dei nodi principali del dibattito teologico contemporaneo è quello del rapporto fede-cultura. Lei ha parlato di questo complesso problema in un recente libro scritto come un serrato dialogo con Mancini[1]. Quali sono anzitutto le difficoltà in questo rapporto, gli atteggiamenti da evitare?

    Risposta: Penso che occorre in primo luogo prendere le distanze da due atteggiamenti, a mio avviso, non perfettamente coerenti con la fede cristiana. Il primo potremmo definirlo come un atteggiamento di conquista, volto alla ricerca di un potere, di un influsso che non è quello evangelico. Anche per il Vangelo esiste un potere, una exousia data ai discepoli nei confronti del mondo: ma si tratta del potere di coloro i quali stanno con il Cristo e sono chiamati a cacciare i demoni, il male, ad annunciare il Vangelo: è insomma lo stesso potere del Cristo che l'ha esercitato non alla maniera dei re di questa terra che hanno eserciti. Gesù ha esercitato il suo potere ultimamente proprio mediante la croce. «Per questo» Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è sopra ogni nome.
    Allora il potere della Chiesa nei confronti della realtà umana deve ultimamente imitare l'esercizio che del proprio potere ha fatto il Cristo. L'atteggiamento volto invece a stabilire delle gerarchie, delle sudditanze, non riesce quindi a trasmettere la peculiarità dell'atteggiamento cristiano.
    Il secondo è quell'atteggiamento che oserei chiamare intellettualistico: esso cerca di stabilire in un momento previo all'incontro concreto con le persone e con i movimenti, prima ancora dell'impatto con la storia, che cosa la fede può accettare e che cosa la fede deve rifiutare delle singole culture.
    Invece è soltanto dentro un rapporto vissuto nell'autenticità, guardando in faccia l'altro, dentro la prassi vissuta giorno per giorno, gomito a gomito, che il credente scoprirà che cosa realmente nasce dall'autentico desiderio dell'uomo, e che cosa può essere soltanto tradimento di questo desiderio. E non possiamo nemmeno dimenticare un altro aspetto: soltanto dentro questo incontro vissuto lo stesso credente in qualche modo sarà illuminato dall'altro. Lui, attraverso l'amicizia, la compagnia con i fratelli, sarà portato a scoprire aspetti dell'evangelo, profondità della sua fede, che forse non avrebbe scoperto in una solitudine autosufficiente o in un atteggiamento di dettatura dei compiti all'altro.

    Una fede che accoglie e riconcilia

    D. Lei ha parlato di «compagnia» o del credente con i fratelli. È forse questa la categoria da privilegiare, invece della divisione e del confronto dialettico, per ben intendere la funzione della fede nei rapporti alla cultura e alle istituzioni che mediano la fede?

    R. Penso di si. Quando Gesù annunciò il suo vangelo, la «cultura» lo rifiutò, ma quel vangelo non poneva divisioni. Nella divisione creatasi tra Gesù e ogni cultura del suo tempo (sulla croce egli restò assolutamente solo), non è Gesù che si divide e si separa. Egli è venuto per porre la riconciliazione tra ogni desiderio dell'uomo (e le culture incarnano il desiderio profondo dell'uomo) e il proprio annuncio.
    E così, se da una parte non è corretto codificare un'identificazione tra fede e cultura, non può essere codificata neanche una opposizione, una divisione.
    Nonostante la situazione di oggi sia quella di una divisione storicamente consumata tra fede e cultura, tra chiesa e società civile, in cui la fede è ridotta a fatto privato (e bisogna prender atto di questa realtà), la divisione non può essere l'ultima parola del cristiano.
    Il fatto è che la fede non può rinunciare ad essere comprensiva e globale, a pronunziare la parola che vale per ogni uomo. È allora all'evento Gesù che in ultima analisi bisogna risalire, è nel vangelo che dobbiamo leggere questa pretesa della fede di collocarsi come parola più grande. Si comprende allora che essa è comprensiva, universale, non nel senso della conquista, come dicevo prima, o della sintesi culturale già operata in anticipo rispetto all'incontro, ma come luogo dentro il quale tutto è già stato da sempre accolto. Accolto e riconciliato.
    La fede allora non crea divisioni, non ha nemici o concorrenti, ma permette di attuare una «configurazione» epocale della chiesa al suo Signore, una forma di amicizia col proprio tempo, una sorta di compagnia universale. E possiamo star certi che quando, a partire dalla fede, si evocano le figure del nemico o del concorrente, non si parla più del rapporto tra fede e cultura, ma di qualcosa che fede non è, con le varie culture.

    L'identità del cristiano come imitazione e sequela del Cristo

    D. Non vi è il rischio in questo dialogo-compagnia tra fede e cultura che ultimamente si vanificano i due termini? Che si perda il senso dell'identità cristiana?

    R. La domanda denota già una paura, e per comprendere questa paura potremmo riandare all'atteggiamento stesso di Dio quando si è manifestato a noi in Gesù Cristo. Di che cosa ha avuto paura il Cristo? Di vanificare la sua identità divina accogliendo il peccatore, sedendo a tavola con coloro i quali erano condannati dalla morale del tempo? Non è forse proprio li invece che si rivela ultimamente l'identità del Cristo? Questa è cioè la capacità di mostrare l'amore sovrano di Dio che accoglie ogni uomo, che ci ama mentre noi siamo ancora peccatori.
    L'identità cristiana è qualcosa di diverso ultimamente da questo atteggiamento manifestato da Cristo verso gli ultimi, verso gli emarginati, verso coloro che non partecipano alla speranza religiosa del popolo di Israele? E allora io direi proprio il contrario: non si dà manifestazione di identità cristiana se non appunto nella imitazione di ciò che è più tipico nell'atteggiamento di Gesù. E ancora qui occorre riandare alla croce, riandare al Cristo che si siede a tavola con i peccatori, allo scandalo che questo ha suscitato presso gli altri.
    L'identità cristiana cioè non è un possesso, non è una rapina da difendere, come lo stesso autore della lettera ai Filippesi si esprime; nemmeno l'uguaglianza con Dio fu per Gesù Cristo qualcosa da difendere come possesso forte, violento: ma colui che era ricco impoverì se stesso. L'identità cristiana è nell'imitazione dell'amore trinitario, cosi come si manifesta nel Figlio, che si è fatto uomo per noi. L'identità cristiana è cioè in questa capacità di impoverimento, proprio perché l'altro scopra tutta la ricchezza, tutta la profondità dell'atteggiamento cristiano, e sia portato anche lui ad adorare il mistero grande dell'accoglienza che Dio fa ad ogni uomo.

    Un giudizio che è dentro l'amore

    D. Un aspetto essenziale del problema è il fare compagnia della fede nei confronti dell'uomo che elabora valori e progetti. Come chiarire in tale prospettiva il rapporto tra valori umani e scelta cristiana, tra radicalità evangelica e valori umani?

    R. La radicalità evangelica è in ultima analisi soltanto la radicalità della sequela. Si tratta di abbandonare tutto, si tratta di rinunciare a farci forti di ogni possesso, di non costruire sulla carne e sul sangue, di seguire colui il quale è morto per noi, di non portare la doppia tunica, cioè di non portare addosso altre vesti, altri strumenti che non siano quelli dell'Evangelo.
    Come questa radicalità evangelica allora può farsi compagna allo sforzo dell'uomo che persegue tutt'altra direzione?
    Quando le culture generano valori, esse sono ultimamente volte ad un prendere possesso della terra. Nella cultura si esprime il modo con cui ogni uomo, e prima ancora ogni gruppo, prende possesso della realtà, cerca di superarne le contraddizioni. Ebbene, la radicalità evangelica accompagna questo progettare umano, questo costruire valori, non già in primo tempo per giudicare e allontanarsi. Occorre anzitutto la pazienza, nel senso biblico che evoca la stessa pazienza di Dio nei confronti del tempo: egli sa aspettare il momento della conversione mentre non vuole che nulla vada distrutto. E per noi occorre che, fino a quando non venga operato il discernimento divino finale sulla storia, sappiamo vivere sostenendo la diversità dei valori, la loro opposizione, comprendendo che il male non può essere immediatamente sradicato dalla storia. Questo non significa accettazione o avallo del male: il profeta griderà sempre sui tetti la volontà di Dio, il diritto del povero conculcato, la profanazione del corpo, l'asservimento della donna, egli proclamerà sempre anche la difesa della vita dell'innocente in tutte le sue forme. Ma questa proclamazione evangelica, questa proclamazione profetica non è la elaborazione di un sistema di valori ultimamente alternativo, che cioè possa essere contrapposto sullo stesso piano, come sistema di valori concorrenti, a quello dominante. In altri termini, colui che segue il Cristo si fa compagno all'uomo, nel senso medievale del «companio» che condivide il pane alla stessa mensa.
    Allora colui che segue il Cristo e accompagna i fratelli sa che in ultima analisi occorre accompagnare anche ciò che forse non ha speranza di avere una prosecuzione, sa che deve accompagnare anche l'uomo che pecca: lo stesso credente resta un peccatore e lui stesso deve sostenere nella pazienza la propria debolezza, la propria ricaduta nel peccato, il continuo allontanarsi da Dio. Il vangelo cioè non ci porta a costruire una città diversa da quella che gli uomini stanno costruendo, ma ci porta a salvare quella stessa città nella quale gli uomini stanno, ci porta ad annunciare il messaggio della pace e della liberazione in quella città cosi disumana, cosi ingiusta, cosi poco libera nella quale gli uomini a volte sono costretti contro voglia a passare la loro esistenza.
    L'annuncio del Vangelo cosi è la stessa parola profetica del giudizio: non è presa di distanza, è piuttosto l'amorosa compagnia d coloro che condividono lo stesso destino Occorre qui ancora una volta riscoprire l'atteggiamento di Gesù, cosi come ci viene testimoniato dalla memoria credente dei Vangeli. Non credo che noi troviamo un solo giudizio di Gesù, anche quello a volte esasperato nelle redazioni successive delle rampogne contro i farisei, che non parta da una accettazione previa e globale dell'altro. Il giudizio di Dio è sempre dentro l'amore. Cosi anche il giudizio nei confronti dei disvalori che possiamo riscontrare nell'elaborazione culturale, nell'elaborazione dei vari progetti di vita, è sempre il giudizio di colui il quale già in anticipo ha tuttavia posto l'unità, già in anticipo si è riconciliato con l'uomo che gli sta davanti. Il giudizio in altri termini di colui che segue radicalmente il Cristo non è il giudizio dell'inimicizia, ma è soltanto la correzione fraterna di colui il quale ha condiviso il destino.
    A mio avviso è qui esemplare la figura di Geremia, cosi come emerge dalla testimonianza che ne è rimasta. Geremia dovrà accompagnare il popolo proprio in quel gesto che non avrà futuro, nell'esilio in terra d'Egitto e pur non condividendo la scelta che quel popolo fa. In altri termini, il profeta pur nella condanna più severa non smette un solo istante di condividere un destino.

    Solo una fede «inutile» può gridare allo scandalo oggi

    D. Nella situazione attuale in cui la fede è messa da parte, privatizzata, considerata inutile, come la fede deve fare compagnia, come deve essere resa operosa?

    R. In primo luogo io non avrei paura della parola «inutilità».
    A che cosa è stata culturalmente utile la croce? La Chiesa, e la fede che la sostiene, non devono aver paura di apparire inutili, di apparire fuori del tempo, non devono rincorrere il mito della egemonia culturale, dell'influsso. Tuttavia proprio questa stessa inutilità è somma efficacia, per usare ancora le parole di Paolo: l'impoverimento del Cristo è la sua somma ricchezza. E la ricchezza di questo impoverimento si manifesta nella capacità che la chiesa ha, che i credenti hanno, nell'attuale dispersione delle culture, di condividere proprio la sorte non tanto delle culture forti, vincenti, ma proprio la sorte delle culture deboli, la sorte di coloro che non avranno mai futuro. Cerchiamo di far uscire queste formule dal loro alone quasi poetico e di calarle concretamente nella realtà. Le nostre città, le nostre periferie soprattutto, sono ricche di subculture o di controculture più o meno esplicite; le nostre città sono popolate da persone che non intendono nemmeno quale possa essere il senso del progetto sociale. Ebbene, la fede si fa vicina a chi non ha speranza, a chi non ha futuro. La fede non è in primo luogo la capacità di mettersi a sedere con coloro che decidono le sorti della storia, con le culture forti in questo caso. Ma la fede prima di tutto è questa capacità di condivisione con coloro che della storia sanno poco, che la subiscono soltanto, che magari si accodano appunto al carro dei vincitori: proprio perché loro abbiano speranza, perché proprio loro abbiano la capacità di continuare. L'operosità della fede, apparentemente passiva, apparentemente inoperosa, si mostra proprio nel manifestare tutto lo scandalo di coloro i quali ultimamente vogliono dominare. Questo scandalo non può essere messo a nudo da coloro che sono forti e potenti. La fede cioè non ha progetti altrettanto forti da far valere nei confronti degli altri. La fede non è un'etica: la fede è l'accoglimento dell'amore di Dio, che è al di sopra di ogni etica, al di sopra di ogni prestazione morale; è la percezione dell'amore di Dio, la coscienza dell'assoluta iniziativa di Dio, che impone perciò alla fede di non contrabbandare queste ricchezze, queste profondità, scambiandole con un qualsiasi progetto culturale, per quanto grande, degno, giusto.
    E la fede impone di far presente a qualsiasi progetto culturale che nasce dalla carne e dal sangue, la verità per cui in ultima analisi ciò che ci salva non è la prestazione, non è l'osservanza della legge, come direbbe ancora Paolo, ma è proprio l'amore del Signore che ci è stato donato. E questa verità va manifestata non con una predica moralistica, ma attraverso la testimonianza dell'amore di Dio che è capace ultimamente di svelare la stessa profondità del progetto etico, del progetto culturale: perché se è vero che ogni progetto etico, ogni progetto culturale, ogni desiderio dell'uomo, tende alla riconciliazione, a non perdere nulla di ciò che esiste, allora soltanto l'amore di Dio, così come si è manifestato in Cristo, che si è fatto vicino a ciò che era lontano, che ha ricuperato tutto, che ha celebrato il gesto supremo della propria esistenza accanto ai malfattori, soltanto questa capacità dell'amore di Dio può appunto mostrare la forza che genera ogni riconciliazione, ogni unità, ogni possibile ricupero.
    C'è qui un'indicazione di metodo preciso, debitore di nessuna cultura, ma proprio di coloro che annunciano il Vangelo.

    Ci sono dei nemici da combattere per il cristiano?

    D. La storia vede nel suo svolgersi lo scontro tra cultura, la lotta tra diverse ideologie. Può la fede scendere sul campo di battaglia, può il cristiano sperare nella vittoria di qualcuna delle parti? E non ha proprio paura di nessuno?

    R. Di fatto questa è stata sempre la tentazione del cristiano, una tentazione tanto più forte da quando storicamente la fede ha assunto un compito che non era originariamente suo. Quando cioè nel IV secolo la Chiesa ha sostituito la religione pagana come religione privilegiata e poi come religione unicamente ammessa dall'impero, la fede ha dovuto assolvere nei confronti della società e dello stato, anche le funzioni di supporto e di sostegno che erano della religione pagana. La fede allora si è dovuta sposare intimamente, ma non con l'abbraccio di Dio che accoglie anche il peccatore, bensì proprio con l'abbraccio della reciproca convenienza, del reciproco patto, con alcune parti sociali, con alcune culture.
    Non è un caso che ad esempio la giustificazione della guerra e l'elaborazione dell'ideologia della guerra giusta sia sorta proprio nel IV-V sec., prima con Ambrogio e poi soprattutto con Agostino.
    In altri termini, quando nei primi tre secoli la chiesa si trova ancora fuori del patto di reciproca convenienza, di reciproca accettazione con una determinata società, non riesce a concepire come possa essere giustificabile una qualsiasi violenza, una qualsiasi vittoria ottenuta con le armi; quando la chiesa invece si sposa con una parte degli uomini, essa riesce a concepire che possano esistere dei nemici da abbattere. Ed allora essa riesce addirittura a farsi supporto della vittoria di alcuni nei confronti degli altri, fino a fare coincidere i limiti e i confini del popolo di Dio con quelli di una certa parte dell'umanità, e a considerare appartenenti ad altre culture o ad altre civiltà come incarnazione del male. Persino un santo come Bernardo non esita a chiamare l'uccisione dei Saraceni un malicidio anziché un omicidio.
    Questo sta a significare che la chiesa non può assolutamente desiderare la vittoria di una parte. Si potrebbe obiettare che la chiesa per lo meno desidera la vittoria degli umili, la vittoria degli oppressi: forse è meglio dire che la chiesa desidera e lotta perché l'umile e l'oppresso possano partecipare al comune banchetto.
    La chiesa dovrebbe sempre condannare l'ingiustizia; dovrebbe sempre scagliarsi profeticamente contro i violenti; purtroppo qui la chiesa pecca di omissione.
    Ma questa predica non è la vittoria di una parte sull'altra. La fede non può creare dei vinti, non può accettare che alcun momento (sia esso pure il «negativo») sia già in anticipo votato alla dannazione, alla sconfitta, all'assenza della speranza. Perciò la fede «accompagna» l'agone storico delle culture dentro un centro a partire dal quale c'è la parola di salvezza per tutto e per tutti. Proprio perché il centro è la croce di Gesù, che non delimita, non pone confini, ma tutto attraversa. La fede in ultima analisi è l'affermazione della priorità e dell'anteriorità della parola di Dio che è amore, che è accoglimento dell'ultimo, come parola che appunto non ammette né vincitori né vinti, come parola che in ultima analisi vuole suscitare soltanto un'ultima fraternità.
    Questo equivale a dire che non ci sono nemmeno sul piano culturale dei nemici. Forse si potrebbe dire la stessa cosa chiarendo cos'è in ultima analisi il senso di una cultura o delle ideologie.
    Le culture e le ideologie non sono mai l'altro, non sono mai il soggetto, non possono mai essere identificate con il destinatario vero dell'annuncio cristiano. Culture e ideologie sono solo tramiti, sono solo strumenti, mediazioni di un desiderio più profondo. Come ogni mediazione esse tendono a volte a tradire il desiderio da cui sono state generate.
    Il cristiano non deve farsi fuorviare dalla disumanità (a volte solo apparente) delle varie mediazioni culturali; deve piuttosto cercare di comprendere il desiderio ultimo dell'uomo che gli sta davanti.
    Porto qualche esempio. Noi troviamo ne Vecchio Testamento delle affermazioni sconcertanti riguardo ad alcuni atteggiamenti delle tribù israelitiche, che ultimamente sono accolti dall'economia della rivelazione divina. Mi riferisco ad esempio allo herem, alla guerra santa, che secondo le esigenze di quelle culture imponeva la distruzione totale del nemico.
    Nella sua condiscendenza la rivelazione del Dio è capace di accogliere anche questo atteggiamento, di far posto al disvalore, ma che è tale soltanto se viene considerato nella sua astrattezza, non come elemento di un tutto vitale, di un atteggiamento storico.
    In questo senso il cristiano non ha nemici perciò anche nella critica, anche nella condanna profetica del peccato dell'uomo, non può smettere per un solo istante di guardare con amore il fratello che gli sta davanti.

    La fatica umana nel disegnare il volto dell'uomo

    D. Un'ultima domanda, il problema delle mediazioni: la Chiesa.

    R. In che senso si afferma che non è maestri in umanità, ma soltanto colei che vive al di dentro di ogni frammento dell'umano?
    Mi preme chiarire l'affermazione che la chiesa non è maestra in umanità, perché essa credo si riferisca a una frase che si riscontra nel mio volumetto su «Fede e cultura», scritto insieme a Mancini.
    Come ogni affermazione di questo tipo, è un'affermazione estremamente precisa, limitata al contesto storico che si ha di mira. Essa ha soprattutto un'intenzione, una verve polemica nei confronti di coloro i quali intendono questa frase (presente in diverse espressioni del magistero ecclesiastico, specie degli ultimi papi) come l'affermazione di un possesso, da parte della chiesa, del messaggio esaustivo sull'uomo, per cui ultimamente solo la chiesa sa che cosa è l'uomo. Ora in questo senso mi pare che la frase al positivo, che cioè la chiesa è maestra in umanità, si potrebbe per lo meno prestare a equivoci.
    In ultima analisi Gesù non ci ha dato un'antropologia, una dottrina sull'uomo: Gesù ha accolto l'uomo, l'uomo storicamente esistente; Gesù si è fatto uomo, in tutto reso simile a noi tranne che nel peccato. L'umanità non è cioè una deduzione, una derivazione dalla parola di Dio; ma la Parola di Dio si cala dentro l'umanità, diventa umana essa stessa: dove il diventare umano non è appunto nel senso dell'emanazione, ma nel senso dell'accoglimento di ciò che esiste come umano. E allora la Chiesa non è maestra di umanità, perché essa piuttosto diventa ogni volta uomo, diventa quest'uomo che storicamente esiste, che essa non può definire in anticipo. La Chiesa prima ancora di insegnare cos'è l'uomo, deve scoprire in questa compagnia, in questa fraternità, chi è l'uomo che gli sta davanti. L'uomo è stato creato a immagine di Dio; questo suo essere a immagine di Dio può essere riscoperto, non mediante l'annuncio di un'antropologia alternativa a quella che egli qui adesso vive, ma mediante l'annuncio del mistero della profondità stessa di Dio, aiutando in tal modo l'uomo a riscoprire anche le profondità della propria umanità.
    L'uomo allora potrà rispecchiarsi appunto sul volto del Crocifisso dove è apparsa la gloria di Dio stesso, e sul volto del Crocifisso può comprendere che il senso ultimo della propria umanità è la riconciliazione, la comunione, la fraternità, l'accoglimento.
    Allora la Chiesa non si pone di fronte all'uomo come quella che detiene i punti dell'insegnamento su ciò che l'uomo è.
    Le antropologie sono frutto dello sforzo dell'uomo di comprendere meglio se stesso. La chiesa accompagna questo sforzo, e la chiesa ogni volta pone in confronto questo sforzo storicamente datato con la testimonianza di Gesù di Nazareth, crocifisso per i nostri peccati e risuscitato nella potenza dello Spirito. L'insegnamento sull'umanità è quindi una impresa dell'uomo, che non deve essere svuotata di dignità, non solo umana, ma anche storico-salvifica; anche i progetti storici che si costituiscono fuori dall'orizzonte disegnato dalla fede difatti posseggono questa dignità in forza della presenza universale della volontà salvifica di Dio. Da qui discende la necessità che il cristiano attraversi la lunga e fastidiosa galleria che la fatica degli uomini scava dentro le viscere della montagna. La fede è anche capacità di sostenere la differenza e la lontananza di ciò che ancora sembra giacere fuori dalla luce messianica. Questa fede permette a Paolo di inglobare nella sua attesa il destino della creazione (Rom 8). La progettualità umana dentro la storia deve compiere il «suo» senso.
    Ma questa comprensione dell'uomo di sé, delle profondità del suo essere e il suo impegno di progettualità storica, si incontrano, nella chiesa, con l'autocoscienza di Dio che si è fatto uomo per nostro amore. In questo incontro i vari progetti umani debbono ogni volta scoprire le proprie crepe, i propri tradimenti verso il desiderio stesso che anima le varie forme di cultura, le varie autocoscienze.
    Davanti alla Parola di Dio dovrebbe apparire che il progetto che Dio ha sull'uomo sta sempre davanti all'uomo ed è sempre più grande di quello che l'uomo storicamente è riuscito a raggiungere.
    La fede che sostiene la chiesa aiuta il progetto storico del desiderio umano accompagnandolo con simpatia, mantenendo l'attenzione al suo futuro possibile, ponendo il segno del compimento messianico di tutte le cose, manifestando cioè la fraternità e la riconciliazione a cui tutto è chiamato nell'abbraccio del Padre.


    NOTE

    [1] Ci si riferisce al volume Mancini I.- Ruggieri G., Fede e cultura, Marietti 1979.


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