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    Riscoprire il tempo, la «memoria» e la festa per fare liturgia con i giovani



    Franco Floris

    (NPG 1980-10-3)


    Come vanno le cose tra giovani e liturgia? Dopo anni in cui era spesso al centro del dibattito pastorale oggi il silenzio sembra essere sceso su questo tema pastorale. L'impressione è che dopo anni di tentativi coraggiosi, a volte un poco pionieristici e selvaggi, ci sia nell'aria una diffusa stanchezza ed un diffuso bisogno di rifugiarsi in schemi collaudati e di discreta affidabilità. Alla stanchezza si accompagna la delusione di chi non si accontenta di avere alla liturgia un piccolo sensibile gruppo di giovani e si chiede con quale linguaggio presentarla ai «giovani poveri».
    Capire la stanchezza e la delusione di questi educatori più sensibili è abbastanza facile.
    Abbandonati a se stessi, spesso sconfessati dall'ambiente adulto per niente attento ai problemi in gioco, essi si sentono anche abbandonati da quei giovani che più erano attenti alla elaborazione di nuovi linguaggi. Alcuni hanno lasciato perdere tutto, altri si sono rifugiati in schemi tradizionali, monacali, carismatici.
    Che fare? È possibile superare il momento di stanchezza? In che direzione camminare con la pretesa di volere parlare con tutti i giovani?
    Il problema giovani-liturgia non viene tuttavia affrontato in generale, ma da una prospettiva originale ed insolita: il rapporto tra tempo soggettivo quotidiano da una parte e tempo e festa liturgica dall'altra.
    Utilizzando un procedimento di tipo ermeneutico l'autore cerca di individuare dei criteri e delle piste precise per un discorso di liturgia che non si accontenti di dialogare con le minoranze, ma si preoccupi di riaprire il confronto con tutti i giovani.

    Si parla spesso con i giovani di «tempo liturgico», «tempo di Pasqua», «anno liturgico». Che risonanza ha in loro questo modo di parlare così abituale negli ambienti ecclesiali? Cosa dice ai giovani la «festa liturgica», il «fare memoria di Gesù Cristo», l'«anno liturgico» segnato da appuntamenti come la Pasqua, il Natale, la Pentecoste?
    Che senso ha per loro, in altre parole, il tempo della vita ecclesiale rispetto al loro quotidiano e al tempo della vita sociale?
    Con questi interrogativi si vuole introdurre alcune riflessioni sul rapporto tra giovani e liturgia. Il problema non è nuovo, evidentemente: ha una sua storia fin dai tempi del Concilio, che è opportuno richiamare velocemente per capire il momento attuale.

    LITURGIA ED EDUCAZIONE ALLA LITURGIA TRA «VISIONE TEOCENTRICA» E «VISIONE ANTROPOCENTRICA»

    Dagli anni del Concilio in poi si possono rintracciare due grossi orientamenti per presentare la liturgia all'uomo d'oggi, in particolare ai giovani.
    All'inizio c'è stata la strategia degli anni della riscoperta della liturgia per merito soprattutto della teologia biblica e patristica. La liturgia è vista come il luogo privilegiato in cui si attua il «mistero della salvezza». Nel rito si è introdotti nel tempo unico del Cristo (si diventa suoi contemporanei) e nel tempo del Regno escatologico (nella liturgia si vive una anticipazione del paradiso). Educare alla liturgia è, di conseguenza, aiutare l'uomo ad entrare coscientemente nello spazio e tempo dove «oggettivamente», per dono, si fa esperienza di salvezza. A livello ecclesiale la riscoperta del senso misterico della liturgia come momento ultimo della storia della salvezza è stata una svolta decisiva. Ne è nato l'impulso vigoroso alla riforma dei riti. E ne è nata una pedagogia della liturgia in termini di «iniziazione».

    La svolta antropocentrica

    La riforma non ha dato tuttavia i frutti sperati, o meglio, non ne ha dati a sufficienza. Uno dei fattori che più ha influito nell'impasse in cui la liturgia si è trovata dopo i primi entusiasmi riformistici è stato il cambio culturale. Nel giro di pochi anni si è operato, a livello di massa, il passaggio da una visione della realtà centrata sull'oggettivo ad una visione imperniata sul soggettivo. L'uomo della secolarizzazione si sente sempre più al centro della realtà e la misura a partire non da un suo adeguamento a ciò che è, ma dalla utilizzazione di tutto ciò che lo circonda in funzione della sua crescita personale.
    La svolta culturale ha conseguenze immediate in campo religioso, dove la stessa religiosità viene percepita non nella prospettiva dell'adeguamento a Dio, alla natura, alla legge come fatto oggettivo da accogliere in ogni caso, ma nella prospettiva dell'arricchimento e dell'autocostruzione del credente.
    I riflessi della nuova visione di religiosità hanno a loro volta determinato l'affievolirsi di una visione teocentrica del rito a favore di una visione marcatamente antropocentrica. La liturgia non è più l'unico spazio di esperienza di salvezza, perché di Dio si può fare esperienza ovunque e, più da vicino, la liturgia non è solo più accostamento, mediante il rito, all'evento Cristo e alla sua storia, ma è anche e sempre immersione nella vita dell'uomo, alla ricerca del suo senso definitivo.
    Alla domanda, soprattutto giovanile, di una liturgia più antropocentrica, più aperta alla dimensione soggettiva, più celebrativa del quotidiano, gli educatori tentano di rispondere, carichi di grosse attese, con un secondo rinnovamento della liturgia accogliendo i nuovi simboli e i nuovi linguaggi della cultura giovanile. Siamo alle messe dei giovani, al tempo liturgico ritmato sul tempo del gruppo, alle feste che celebrano l'essere giovani e lo stare bene insieme.
    Anche questa strategia di rinnovamento è ormai agli sgoccioli. Non si è capito a sufficienza, o perlomeno non si è riusciti a tradurre in convincenti itinerari educativi, che il problema non era solo il rinnovamento dei riti ma era anche, e prima, il consolidamento nei giovani di una robusta attività contemplativa che permettesse loro di vivere la vita come «camminare davanti a Dio».

    Quale rapporto tra «oggettivo» e «soggettivo» in liturgia?

    C'è da pensare che in questa seconda fase del rinnovamento si sia compiuto lo stesso errore, anche se in direzione opposta, della fase precedente, poiché non si è salvaguardato a sufficienza l'equilibrio tra «soggettivo» ed a «oggettivo» nella liturgia. Non si è stati attenti, in altre parole, a instaurare un rapporto corretto tra tempo quotidiano e tempo liturgico, tra festa dell'uomo e festa liturgica, tra memoria della propria storia e memoria di Gesù Cristo.
    Nella visione teocentrica si accentuava il fatto che la liturgia era momento di esperienza oggettiva di salvezza e non si prestava che scarsa attenzione a far percepire il significato esistenziale della celebrazione ed il suo rapporto con il tempo feriale.
    Nella visione antropocentrica la liturgia era presentata come momento di esperienza di sé e degli altri, di celebrazione del vissuto e della storia senza tuttavia riuscire ad offrire un sufficiente ancoraggio all'evento Cristo, l'unico «oggettivo» che può dare senso ad una vita e ad una storia «da cristiani». Nella fase teocentrica il tempo era quello di Gesù e vi si accedeva, attraverso il sacramento, a scapito del tempo soggettivo dell'uomo. Nella fase antropocentrica il tempo era invece il vissuto concreto dell'uomo senza tuttavia quelle coordinate antropologiche e teologiche che permettessero di cogliere lo spessore della storia dell'uomo. Nella prima fase si rischiava l'alienazione dalla storia, nella seconda il narcisismo e l'angoscia esistenziale.
    E oggi? Oggi sembra possibile lavorare per una terza fase del rinnovamento della liturgia e dell'educazione dei giovani alla liturgia. L'esperienza di questi anni non è passata inutilmente. È maturata soprattutto la coscienza di dover coniugare tempo liturgico e tempo quotidiano, festa liturgica e festa dell'uomo all'interno di un processo ermeneutico in cui spiegare e vivere ogni elemento a partire dall'altro, in cui cioè vivere l'oggettivo a partire dal soggettivo e il soggettivo dentro l'oggettivo.
    Alla luce di una grossa attenzione ai processi di tipo ermeneutico e di una nuova sensibilità giovanile per l'universo simbolico, sembra possibile proporre una nuova visione di liturgia e ricercare una nuova strategia educativa. È in questa direzione che si propongono alcune riflessioni che esemplificano il procedimento, senza per questo pretendere di ricoprire il vasto campo della liturgia.
    La ricerca si svolge su tre piste: la riappropriazione del tempo, la capacità di «fare memoria», la possibilità di vivere la festa. Le tre piste sono state scelte perché sembrano rispondere contemporaneamente ad alcune esigenze tipiche della liturgia e ad alcune sensibilità dei giovani e perciò possono costituire tre originali punti di incontro tra giovani e liturgia[1].

    EDUCARE A RIAPPROPRIARSI DEL TEMPO

    Siamo in una fase storica caratterizzata dallo smarrimento della dimensione tempo: fine dell'utopia, scadimento dei progetti a lungo termine, «impossibilità» di cambiare la società, ridimensionamento delle attese economiche e culturali dei singoli, dei gruppi e dei popoli. Tutto questo sembra aver frantumato l'esperienza di tempo: ognuno si ritrova con i cocci che gli sono vicini e faticosamente tenta di rimetterli insieme.

    Smarrimento della dimensione tempo e angoscia nei giovani

    Quali le reazioni dei giovani?
    L'impressione è che i giovani si sentano travolti dal tempo, dal succedersi di avvenimenti, informazioni, proposte culturali, mode. Essi si sentono continuamente fagocitati in nuove «esperienze», senza riuscire a «fare esperienza».
    Si fa esperienza quando un io sufficientemente consolidato, e che ha raggiunto i livelli profondi della sua personalità, si muove autonomamente nel tempo e nello spazio ed è capace di padroneggiare le situazioni. L'io, in questo caso, domina il tempo e se ne arricchisce.
    Non sembra questo il caso di molti giovani, immersi invece e quasi posseduti da un vorticoso giro di esperienze sempre nuove, senza che l'io abbia la possibilità e gli strumenti per farle sedimentare.
    Il tempo così vissuto è tempo angosciante. Invano ci si aggrappa al presente. Per vivere si è costretti a sempre nuove esperienze; sempre nuovi amici, sempre nuove attività, sempre nuove proposte culturali, sempre nuove e più raffinate droghe, sempre nuovi vestiti...
    Il problema tempo viene risolto dai giovani più nella direzione dello sperimentare, del fare nuove esperienze, dell'«avere», che nella direzione dell'io, della sua distensione, dell'«essere». Il rito del possesso si fa per i giovani rito dell'angoscia di chi tenta inutilmente di stringere l'attimo fra le mani.
    L'angoscia del presente alimenta del resto una progressiva angoscia del futuro: nulla di nuovo, nonostante il moltiplicarsi delle esperienze, potrà in fondo accadere. Il tempo futuro è percepito della stessa matrice di quello presente. È già scontato, senza senso. Lo si desidera perché non se ne può fare a meno: se ne è dipendenti come da una droga.
    I sintomi di questo malessere sono diversi e tutti sembrano portare nella direzione dell'angoscia, che fa così da denominatore comune a molte esperienze giovanili.
    Si può dire che il giovane d'oggi rischia di non essere capace di godere il tempo e che ha perso il gusto della vita che progressivamente si svolge? In effetti si è spesso in presenza (ed il fenomeno non riguarda affatto solo i giovani) di quella che G. Marcel ha chiamato «la falsa concezione del tempo», alla base dell'angoscia del tempo che passa e del tempo che deve ancora venire.

    Quale tempo liturgico per i giovani?

    Che significa a questo punto parlare con i giovani di tempo e anno liturgico? Che cosa può dire il tempo della liturgia a dei giovani che hanno una simile coscienza di tempo? Non è forse vero che il consumismo liturgico di cui l'immagine di anno liturgico rischia di farsi portatore, finisce per accrescere l'angoscia dell'avere, di nuove ed inutili esperienze di preghiera, di nuovi ed inutili riti? E non è forse vero che il tempo liturgico può essere visto come ritorno di un tempo puramente ripetitivo, senza segno alcuno di novità?

    Verso una «nuova coscienza del tempo»

    Un impegno di educazione alla dimensione liturgica della vita deve fare i conti con questa situazione.
    Occorre in fondo educare ad una «nuova coscienza del tempo», attraverso un salto qualitativo che porti il giovane ad intravedere nel tempo che passa «il tempo eterno», nell'esperienza contingente l'accumulo di «esperienza definitiva», nel tempo che viene non la ripetizione deterministica e circolare del passato ma un novum che supera il passato e i suoi schemi.
    Questo è possibile se verso il tempo vissuto soggettivamente e ancora da vivere si assume un atteggiamento escatologico.
    A livello antropologico si fa pace con il tempo personale e collettivo nel momento in cui si riesce a cogliere negli istanti, nelle esperienze, nei segmenti di tempo un qualcosa di eterno, di definitivo, un dono da riconoscere e da accettare più che un oggetto da conquistare. L'eterno (cioè ciò che sazia la felicità dell'uomo e lo beatifica) non è fuori del tempo, ma dimensione profonda del tempo personalmente e socialmente vissuto.
    Quando il soggetto riesce a vivere questa prospettiva escatologica, esce dalla disperazione e si apre alla fecondità della responsabilità storica. Solo allora il tempo si fa luogo di autocostruzione, di a esperienza», di «progetto». La vita si fa compito, senza l'angoscia di dover possedere gli altri e se stessi. Si può dire che i giovani d'oggi percepiti inconsciamente i rischi di alienazione stanno ritrovando un rapporto positivo con il tempo? Alcuni fatti sintomatici sembrano affermarlo, anche se non bisogna nascondersi che la società cammina ancora verso un tempo dell'avere.
    Non stanno forse alcuni di loro riscoprendo la «pausa», il silenzio, lo stare insieme e la gratuità, la gioia che nasce dall'accontentarsi e godere le piccole cose della vita, la quotidianità?

    Il tempo e la risurrezione di Gesù

    Per individuare uno spazio in cui i giovani d'oggi possano ritagliarsi una concezione cristiana di tempo e di tempo liturgico sembrano decisive due serie di riflessioni tra loro in continuità. La prima sulla resurrezione di Gesù e la seconda sulla venuta del Regno di Dio. La resurrezione di Gesù è la rottura definitiva del tempo come «tempo che divora l'uomo». In Cristo risorto il determinismo storico, secondo cui i fatti si evolvono in modo sempre angosciante, viene spezzato: l'esito temporale della vita è un novum assoluto e definitivo perché Cristo è il vincitore della morte.
    E questo non solo perché risorge dopo la morte, ma perché tutta la sua vita nel tempo è già escaton, tempo nuovo. L'uomo che cammina per le strade di Galilea ed il crocifisso sono il risorto nel tempo. La risurrezione di Gesù afferma che nel tempo si è inserita una dinamica di «novità» che lo garantisce per sempre.
    Allargando questo discorso alla liturgia si può dire che la celebrazione dell'anno liturgico non è la celebrazione del tempo che passa, che inutilmente se ne va. È invece la celebrazione del novum assoluto che si vive proprio nel tempo che passa, del suo aspetto di definitività nel contingente, del suo aspetto di risurrezione come dimensione profonda del quotidiano.
    Celebrare l'anno liturgico è allora accettare la novità come ci sottrae al rito frenetico delle esperienze. Come «tempo liberato», l'uomo può finalmente vivere con fiducia, calma, pace, gioia, capacità di unificare le esperienze, impegno e responsabilità personale.

    Il tempo del Regno di Dio

    Una riflessione teologica altrettanto importante e che dà senso alla precedente è quella sul Regno di Dio.
    Di quale tempo si fa portatore l'anno liturgico, così come oggi lo celebriamo. Del tempo del Regno di Dio o del tempo della sua contingenza?
    Spesso la nostra è una celebrazione della caducità dell'oggi a favore di un tempo dell'al di là o di un tempo del tutto passato, come il tempo «episodico» della vita di Gesù.
    E troppo spesso la nostra celebrazione del tempo è un consolidamento dell'alienazione soggettiva e strutturale.
    Raramente invece riusciamo a proporre il «discernimento cristiano» di chi sa riconoscere il Regno di Dio presente in mezzo a noi, e allo stesso tempo non ancora realizzato e quindi atteso e sperato dalle sue «anticipazioni».
    Solo l'equilibrio dinamico tra il «già» e il «non ancora» può salvare il tempo dei giovani.
    Nella direzione del «già» vediamo un'educazione alla accoglienza e valorizzazione di tutto quello che è buono e umano, a cogliere «il nucleo profondo dell'essere attraverso la scorza del tempo» (Pannikar), al godimento esistenziale che unicamente può sostenere ogni impegno e rivoluzione veramente umana.
    Nella direzione del «non ancora», vediamo un'educazione al senso critico verso l'oggi, alla relativizzazione delle ideologie, alla demitizzazione del possesso e dell'avere, alla rinuncia ad ogni droga per realisticamente fare i conti con la povertà e la miseria.
    Solo in questo equilibrio sempre incerto, che sa evitare perciò toni e linguaggi da valle di lacrime e messianismi utopistici, la liturgia e la celebrazione dell'anno liturgico liberano il tempo dei giovani ed acquistano così un senso profondo di salvezza.

    Liberare il tempo ricercando una nuova qualità della vita

    C'è sempre il rischio però di fuga dalla storia per ritrovare la pace ed il godimento esistenziale in un rapporto mistico trascendentale con Dio. Il rischio non va sottaciuto e lo poniamo come domanda: a quali condizioni il giovane può riscoprire il senso definitivo del tempo contingente, senza cadere in un atteggiamento passivo che fa del tempo come dono una nuova droga che addormenta le coscienze ed esime dalla responsabilità storica?
    La liturgia, la festa, l'anno liturgico possono in effetti sfociare in una nuova alienazione se la comunità ecclesiale (e quella umana) non promuovono una reale liberazione del tempo, nella ricerca di quella che oggi viene chiamata una «nuova qualità della vita». Una vita senza qualità è alla base dell'angoscia del tempo; solo lavorando per dare contenuto alla vita si può aiutare i giovani a maturare un rapporto positivo con il tempo.
    Ed è quello che ora vedremo più da vicino parlando di «memoria».

    EDUCARE A FARE MEMORIA

    Parlando di «memoria» entriamo maggiormente nel discorso del tempo liturgico. È tipico della liturgia infatti «fare memoria». Ma in che senso si parla di «memoria» e di «fare memoria»?
    L'attuale uso del termine, a livello di linguaggio e di prassi concreta, pone in luce alcuni aspetti ambivalenti anche in rapporto all'anno liturgico.

    Quale riferimento al passato?

    Alla base c'è una ambiguità di cui a volte la liturgia è complice, e che coinvolge i processi di socializzazione, inculturazione ed educazione, dove questi sono sorretti da una logica di ripetitività, ritorno al passato, inserimento nella cosiddetta «tradizione». Non è forse vero che il «fare memoria» viene spesso usato nel senso di ascolto del passato per apprendere la verità e la norma per il presente? Non è forse vero che per alcuni educatori i nuovi problemi non sono che dei vecchi problemi al massimo riverniciati, per i quali bastano le cure e le medicine di sempre, cioè del passato? Non è forse vero che a volte l'atteggiamento del cristiano è quello di chi ascolta pazientemente l'altro, le sue difficoltà e aspirazioni, ma sa già di aver la risposta e la terapia prima ancora che l'altro abbia finito il suo discorso?

    Memoria e tradizioni

    Per chiarire il senso del fare memoria occorre una breve digressione sull'uso dei termini.
    Distinguiamo tra memoria e tradizioni. Per memoria (o tradizione) a intendiamo la capacità dell'uomo di rifarsi continuamente alla sua costituzione essenziale. Quando si dice che il giovane è «senza memoria», ci si riferisce appunto alla sua incapacità di radicarsi nella storia e nella cultura. La memoria è diversa dalle «tradizioni», che ne sono soltanto delle oggettivazioni parziali e provvisorie. Come ogni oggettivazione le tradizioni tendono all'inerzia e a perpetuarsi senza fantasia, al fissismo, senza desiderio apprezzabile di rinnovamento. Quando oggi si parla di ritorno alla memoria bisogna allora distinguere tra fedeltà alla memoria e ossequio alle tradizioni. È facile, in un momento di transizione culturale come il nostro, aver paura e rifugiarsi più o meno inconsapevolmente nel passato per ritrovarvi certezze, norme chiare, rassicurazioni esistenziali e così via.
    Non è affatto di questo revival che ci si deve fare portatori per aiutare i giovani d'oggi a fare memoria.
    Il discorso va invece fatto in altro modo, in due direzioni: la «memoria culturale» e la «memoria fondatrice».

    Memoria culturale

    L'educazione a «far memoria» va fatta anzitutto nella direzione di quella che può essere definita la «memoria culturale», cioè «la sedimentazione del passato di una collettività in documenti e costumi, in convinzioni e gusti, in ideali e strumenti».
    In questo senso, nella attuale crisi dei meccanismi di trasmissione culturale, con dei giovani che nulla sanno perché quasi nulla hanno sperimentato nelle tradizioni culturali, si afferma che «senza passato non c'è presente e non potrà esserci futuro». La pretesa di inventare il futuro buttando a mare il patrimonio culturale, dopo averlo qualificato in modo grossolano come superato, nasconde spesso la incapacità di confrontarsi criticamente con esso.
    Ogni evoluzione in effetti, pur essendo un momento creativo, è insieme la rielaborazione di valori affiorati, in modo più o meno esplicito, nel passato.
    Senza l'attenzione a questa base storica dei valori si rischia di costruire inutilmente sempre da capo.
    Oggi gli educatori sentono di dover dare maggior profondità storica e culturale ai giovani e sono impegnati a ricercare metodi sempre più raffinati per trasmettere le tradizioni e le esperienze del passato.
    È da pensare però che il nodo educativo non siano i metodi ma il metodo. Il nodo cruciale non sono le tecniche con cui trasmettere le conoscenze, ma il metodo con cui far fare ai giovani esperienza.
    Educare alla memoria non è soltanto offrire dei «materiali» facendo conoscere quanto nel passato è stato elaborato a proposito di stili di vita, modi di comportamento, valori da privilegiare. Questo è troppo poco ed è pericoloso, perché rischia di sfociare in una mitizzazione del passato e non educa a utilizzare in modo creativo i materiali di sedimentazione della storia alla luce dei nuovi interrogativi.
    Ma secondo quale progetto di uomo e di società riprendere i materiali del passato, visto che non ha senso un approccio neutro al passato e tanto meno un tentativo di riprodurre il passato nel presente e di usarlo come schema di progetto per il futuro?

    Memoria fondatrice

    Bisogna a questo punto muoversi in un'altra direzione, introducendo un secondo concetto, «la memoria fondatrice»: un evento, una parola, un mito, una ideologia, un'utopia che permetterà di accedere al passato con un progetto e di utilizzare i suoi materiali in modo creativo. Per dare un volto al presente partendo dai nuovi bisogni.
    Per memoria fondatrice si intende in fondo una decisione soggettiva (personale o collettiva) sulla storia, giustificata da alcuni fatti o da alcune ipotesi di lavoro. Per un cristiano, ad esempio, l'evento Cristo è la memoria fondatrice della storia a cui ci si deve sempre richiamare. La memoria fondatrice può agire in due modi verso la storia, e così è sempre stata utilizzata.
    Il primo uso è quello che finisce per giustificare tutto ciò che è già, come l'unica realtà possibile nel passato e anche per il futuro. Questa utilizzazione della memoria non fa che predicare la bontà ultima del mondo esistente, della natura e dei suoi cicli, della società e delle sue leggi ed istituzioni. Il futuro non dovrà che ripetere il passato. Si è di fronte, come si vede, ad una memoria «conservativa ». Cosi concepita la storia non ha nulla di nuovo in serbo per le prossime generazioni. Il tempo, sia per gli adulti che per i giovani, è solo il luogo di una stanca liturgia di ripetizione.

    La punteggiatura del tempo nella memoria di Gesù Cristo

    Ma c'è un secondo tipo di memoria fondatrice ed è quella messianico-liberante, in cui il tempo non è più una pura ripetizione del passato, ma una possibilità di nuova esperienza personale e collettiva.
    La memoria passionis, mortis et resurrectionis Jesu Christi è di questo secondo tipo.
    Vediamo come questa memoria messianica organizza il tempo. Essa attiva due processi complementari.
    La memoria biblica insegna anzitutto ad organizzare gli avvenimenti personali e collettivi in sequenze temporali caratterizzate da tre movimenti che nella storia biblica continuamente, anche se con nomi sempre nuovi, si ripetono: eden-cacciata-promessa, natura-diluvio-alleanza, terra dei padri-Egitto-liberazione, vita-morte-risurrezione... A questa punteggiatura il credente, altrimenti immerso in un tempo indecifrabile, è continuamente invitato: un lavoro per nulla facile, a volte incerto, ma in cui è in gioco la sua capacita di scorgere con l'aiuto di tutte le scienze umane e religiose i segni dei tempi.
    Man mano che il credente si esercita in questa identificazione di sequenze, cresce in lui la struttura biblico-salvifica del tempo, che si divide appunto in creazione-peccato-redenzione. La interiorizzazione progressiva della punteggiatura del tempo così come la Bibbia e soprattutto la memoria di Gesù Cristo ce la offrono, educa il cristiano e lo libera per pensare e costruire la storia come spazio in cui il novum come dono è principio attivo determinante. Non si è a questo punto all'interno di una memoria ripetitiva e conservativa, ma in una memoria sovversiva, dialettica, dinamica e liberante.

    Anno liturgico come liberazione del tempo

    Che vuol dire allora fare esperienza di anno liturgico, se non abilitare i giovani a punteggiare il loro tempo secondo lo schema dell'Esodo e a trovare la ragione ultima di questa punteggiatura in un evento che rompe per sempre i cerchi dell'eterno ritorno, delle tradizioni possessive, del ripetersi fatalistico delle stesse situazioni, nell'attesa angosciante di un futuro che non presenterà novità alcuna?
    Solo in questo modo la storia di Gesù ed il vissuto dei giovani possono coniugarsi in modo credibile. In altre parole, l'anno liturgico non estrania il giovane dal vissuto e dal mondo in cui vive e neppure esalta il passato storico, perché l'evento Gesù Cristo non è affatto un evento del passato, ma un brandello di futuro che è entrato nel tempo e ne indica la traiettoria definitiva.
    Il tempo si fa angosciante quando non si è in grado di punteggiarlo in modo convincente. In questo senso il Cristo libera il tempo dalla sua inconsistenza aiutando a cogliere il definitivo nel contingente, la salvezza nel quotidiano.
    Ma il tempo si fa angosciante anche quando la punteggiatura finisce per ipervalutare il processo in tre tempi di cui parlava, dando appiglio a quei futurismi messianici, da quello tecnologico-scientifico a quello ideologico di destra o di sinistra, a cui in questi anni ci siamo variamente esercitati.
    Fare memoria di Gesù Cristo vuol dire liberarsi dalla duplice angoscia. Non è vero che il tempo non cammina: nel tempo è già presente l'escaton e si può vivere nella pace e nella responsabilità.
    Il tempo definitivo tuttavia non è nella direzione della conquista ma del dono: Gesù inaugura per tutti l'escaton. E Gesù è per se stesso un tempo già definitivo. Noi partecipiamo gratuitamente di tale definitività.
    Non è vero però che il tempo è del tutto liberato. Il novum si è del tutto realizzato solo in Gesù Cristo; sta alla nostra responsabilità critica e pratica far emergere il novum che ci è dato e criticare la radicale insufficienza di ogni realizzazione storica.

    Liberazione del tempo tra interpretazione e prassi

    Bisogna ora precisare come deve avvenire questa punteggiatura della storia per non rischiare di essere ancora una volta di quei filosofi che contemplano la storia ma non la trasformano.
    La interpretazione del tempo facendo memoria di Gesù Cristo non si fa anzitutto nella catechesi e neppure nella liturgia, ma dentro la realtà che si vive. L'interpretazione non è un momento separato dall'agire, ma è il risvolto conoscitivo della prassi di trasformazione. Il vero luogo della interpretazione è la ricerca di una nuova qualità di vita.
    La liturgia diventa angosciante quando la comunità pretende di chiudersi in una memoria che celebra l'evento Cristo, come «garanzia» di senso del passato e lo solidifica fino a pretendere che il presente ed il futuro ne siano una pura ripetizione. Ciò può avvenire quando la comunità vive di fatto fuori dalla storia, quasi un'area di salvezza in cui le perturbazioni del tempo non la sfiorano e pretende di a fare memoria» di Gesù.
    La riconciliazione con il tempo è data invece dalla possibilità che la comunità cristiana (e la società) offrano ai giovani di sperimentare una trasformazione che neghi la ripetitività della storia e ne faccia invece toccare con mano la creatività, e sia dettata non dal bisogno ossessivo di accumulare esperienze, ma dal bisogno di profondità di essere e di senso.
    Grande importanza vengono ad assumere i processi educativi. La riconciliazione con il tempo può avvenire solo se i processi di crescita sono impostati secondo una «pedagogia di liberazione», in cui la crescita non è puro adeguamento ad un modello di uomo precostituito, né sradicamento da ogni modello del passato, ma è invece accettazione del nuovo che è negli adulti e nei giovani e liberazione di questo nuovo offrendo ai giovani stimoli, sostegno, proposte.
    Quando il giovane percepisce il cammino percorso nella sua crescita, è in grado di «celebrare il tempo» in modo non più angosciato, perché ha sperimentato direttamente che la vita non è affatto organizzata (o per lo meno non tende ad organizzarsi) secondo sequenze temporali chiuse o precostituite ma secondo sequenze aperte.

    EDUCARE AL SENSO DELLA FESTA

    Riappropriazione del tempo ed esercizio della memoria culturale e fondatrice sono due obiettivi essenziali per educare i giovani a vivere il tempo liturgico. Ma non basta. Oggi ci si rende conto che un salto qualitativo verso una nuova vita di liberare richiede non solo il quotidiano, il «feriale», ma anche il «festivo». Si sostiene anzi che la liberazione del festivo è in grado di contribuire in maniera sostanziale alla formazione di una «nuova coscienza» culturale, soprattutto nei giovani. Alla base di queste affermazioni c'è una comprensione più attenta della struttura psicofisica dell'uomo; c'è l'intuizione di una sorta di vasi comunicanti tra tempo di lavoro e tempo di festa, tale che ogni liberazione del lavoro può liberare la festa e, viceversa, ogni liberazione ludica rinnova il rapporto tra l'uomo ed il suo quotidiano. Parliamo dunque di festa e del suo ruolo nel consolidare nell'uomo la consapevolezza del senso definitivo, trascendente del tempo in cui è immerso.

    «Come fare festa in terra straniera?»

    Dopo aver affermato il ruolo liberatore della festa, numerose domande insorgono e si accavallano. Come non ricordare, anche oggi, il lamento del salmista: Come fare festa in terra straniera? Come parlare di festa a quei giovani che non sanno godere il tempo che vivono? E come parlare di festa a quei giovani che vivono la festa come una febbre, a la febbre del sabato sera », e a quelli che la vivono nel chiuso del gruppo sociale o religioso, immersi in un clima trascendentale che svapora le domande concrete e nutre di emozioni intimiste?
    Se è vero che a causa della difficoltà di tradurre in progetti l'utopia degli anni della speranza e della contestazione giovanile, il bisogno di momenti ludici si è fatto più intenso e se è vero che a questi momenti si riconosce un potere liberante, occorre però interrogarsi sulle condizioni che permettono davvero di scatenare quei processi di liberazione.

    Gli elementi costitutivi della festa

    Che vuol dire allora educare a vivere la festa?
    La festa è un avvenimento in cui è possibile rintracciare alcuni elementi costanti: il ripensare il quotidiano e il celebrarlo cogliendone gli aspetti positivi e negativi e soprattutto accettandolo con un atteggiamento globale di «sì alla vita»; lo stare gratuitamente insieme come espressione della accettazione reciproca tra individui e tra gruppi sociali; il porre dei gesti alternativi che profeticamente rompano la monotonia e indichino il senso profondo di tanti fatti del quotidiano; una certa disposizione interiore che dilata atteggiamenti come la gioia, la serenità, la calma, il silenzio, il senso del gratuito, l'apertura agli altri. Riprendiamo questi elementi per indicare alcuni obiettivi educativi su cui sembra importante insistere.

    Educare a ripensare e celebrare

    Un primo compito è quello di educare a celebrare, a «fare memoria», a ripensare in momenti di dialogo festoso e di silenzio, di interiorità personale e collettiva, la vita di tutti i giorni e i grandi avvenimenti. La festa è tale se risponde non solo al bisogno di rompere il ritmo del quotidiano e in un certo senso evaderne, ma anche e soprattutto al bisogno di interrogarsi e capire.
    Il giovane d'oggi in effetti sente il bisogno di solitudine, ma non sempre è capace di soddisfarlo. Spesso vive la festa solo come tempo di reintegrazione delle forze psicofisiche in una scarica convulsa di tensioni e desideri repressi.
    Incapace di possedersi e nella tranquillità di un giorno di festa, egli rischia di lasciar assopire le sue possibilità di esperienza del piacere e del dolore. Non è che non abbia tali esperienze (anche se purtroppo per molti è così); solo che se non ci a ritorna su », i momenti di piacere e di dolore scivolano via senza provocare ad una presa di coscienza e di responsabilità e senza riuscire a controllare la violenza che la vita di ogni giorno alimenta.
    Dire festa tuttavia non vuole soltanto dire tranquillità e riflessione, ma anche gioiosa celebrazione. Non sono la stessa realtà e non hanno la stessa funzione nella vita. Solo nella celebrazione ci si appropria di quel senso della vita a cui la azione e la riflessione introducono. Da questo punto di vista è forse da rivedere un certo atteggiamento che ha portato a scusare con facilità chi non partecipa alla liturgia e agli altri momenti celebrativi della vita di gruppo.

    Educare a stare insieme

    Il secondo elemento della festa è il gratuito stare insieme, percepito come «anticipazione» di una umanità nuova, segno vivente del Regno di Dio sulla terra, proprio mentre ci si dibatte nella difficoltà di creare rapporti umani tra le persone. Stare insieme nella festa, ridere, scherzare, giocare non è perdere tempo, ma ha un particolare significato antropologico. È un piccolo esperimento di quella liberazione interpersonale che ci attende continuamente come compito.
    Assaporare per qualche istante momenti di gratuità, nei quali si riconosce l'altro in quanto altro, libera nuove energie per riconoscere gli altri anche nella giustizia.
    Bisogna riconoscere pero che per molti questo gratuito stare insieme è al mattino della festa una grossa attesa, ma alla sera dello stesso giorno un obiettivo appena sfiorato. Occorre abilitare i giovani a parlarsi e ascoltarsi, ad accogliersi e a rispettarsi nella diversità, a programmare tempi di vita comunitaria rinunciando ad iniziative individuali, a uscire dal solito giro e allo stesso tempo ad affezionarsi ad un gruppo di giovani e di adulti...
    In molti educatori l'attenzione allo stare insieme implica un liberarsi da una concezione efficientista per cui ad ogni stare insieme deve immediatamente corrispondere un «fare insieme». Contro questa concezione si sottolinea oggi come sia difficile maturare un serio «essere-per-gli-altri», se non si è capaci di vedere la ricchezza esistenziale dell'«essere-con-gli-altri».
    Che fare in concreto?
    Occorre anzitutto creare, soprattutto nei giorni di festa, spazi di aggregazione per i giovani. L'isolamento è all'ordine del giorno. L'esperienza sociale negata nel feriale non trova sbocco per molti neppure alla festa. Tanto più che molti degli spazi di aggregazione che si offrono, dalla discoteca allo stadio, non sono liberanti.
    Perché l'esperienza di gratuita aggregazione possa consolidare una seria presa di coscienza della vita è decisivo poi che il giovane d'oggi possa farne esperienza in più direzioni. Ne ricordiamo alcune.
    La prima direzione è l'esperienza del piccolo gruppo in cui poter esprimere l'accettazione, la voglia di divertirsi e di stare allegri, il bisogno di confrontarsi sui fatti di ogni giorno... La seconda direzione è quella delle esperienze vissute fianco a fianco con degli adulti. La società moderna lascia pochi di questi spazi e spinge ad aggregarsi per livelli di età contribuendo a isolare anche nel tempo libero le generazioni e favorendo la perdita di memoria nei giovani e la sclerotizzazione degli adulti. La terza direzione è quella dell'intergruppo giovanile. Ci troviamo oggi di fronte non solo all'individualismo del singolo, ma anche a quello del piccolo gruppo che si fa banda senza esperienza sociale di rilievo. Il senso profondo dello stare insieme matura quando, oltre al piccolo gruppo, si sa sperimentare positivamente sia l'intergruppo sia la stessa massa giovanile in incontri di tipo culturale, politico, religioso.
    Una breve appendice per l'aspetto religioso che va inteso come dimensione di fondo di ogni aggregazione umana e come dimensione da esplicitare in modo specifico. Dal primo punto di vista sembra importante anche per i credenti quanto detto finora; resta da aggiungere che occorre una specie di «mistagogia» perché possano capire e vivere la dimensione religiosa dell'aggregazione. Dal punto di vista più esplicitamente religioso, è importante che non si riduca l'aggregazione nel nome della fede alla assemblea liturgica o ad una vaga appartenenza all'istituzione ecclesiale. Occorre dare più spazio ad aggregazioni extraliturgiche, incentrate sul confronto sui problemi ma anche sullo stare assieme puro e semplice tra credenti.

    Educare a vivere la festa nella sua concretezza

    È necessario infine superare una certa spiritualizzazione della festa per ritrovarne alcune dimensioni molto concrete: suoni e rumori, luci e colori, abiti e fiori, un minimo di esuberanza nel mangiare e nel bere, il ritrovarsi insieme e l'avere dei momenti di calma e di respiro... Questo spessore della festa va recuperato, contro chi vede la festa solo come celebrazione liturgica; la religiosità popolare ha a riguardo molte cose da insegnare. D'altra parte occorre umanizzare i suoni e i rumori, le luci e i colori con cui i giovani d'oggi riempiono e tingono la festa. Tutti questi elementi, a cui si può aggiungere il gioco e lo scherzo, vanno liberati dalla società dei consumi e ripensati alla luce della memoria collettiva e dei nuovi bisogni dei giovani.
    In realtà qualcosa sembra stia cambiando. A parte certi maldestri tentativi di riproporre spezzoni di tradizioni folkloristiche ormai sepolte come fatti culturali, ci si sta muovendo da più parti per rintracciare nelle tradizioni stimoli e spunti per inventare momenti simbolici in cui esprimere, nella musica e nella danza, nel gioco e nel ballo, i bisogni e le attese del giovane d'oggi.
    In questo senso tuttavia la svolta è ancora da compiere, più che un dato di fatto. Rimangono aperte alcune domande. Quali gesti simbolici possono oggi interpretare e dare corpo, nei giorni di festa, alle sensazioni e intuizioni della loro filosofia della vita? Quali gesti profetici i giovani cristiani devono porre per esprimere dimensioni di fondo della esistenza, come il silenzio e la contemplazione, la comunità e la gratuità, l'impegno etico e il servizio agli «ultimi», l'ascolto della Parola e dei segni dei tempi, il prendere le distanze e l'assumere la cultura moderna?
    Troppe volte i gesti sono nella direzione del rumore, raramente nella direzione del silenzio che pure è una dimensione costitutiva della festa. Come far sì che questi gesti diventino momenti di speranza e non servano solo a dimenticare ciò che nel quotidiano non si riesce ad umanizzare?


    NOTE

    [1] Per riflettere su questi temi, soprattutto il «fare memoria», è stata utilizzata la monografia Memoria, tradizione, tradizioni in Servitium. Quaderni di spiritualità n. 5, settembre-ottobre 1979.


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