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    Parlare di peccato e di riconciliazione in un tempo di crisi di libertà e di conflittualità



    Giannino Piana

    (NPG 1980-9-41)


    La possibilità di restituire credibilità al sacramento della Penitenza, nel contesto del mondo giovanile, è oggi, in larga misura, legata allo sforzo di risignificazione delle categorie antropologiche ad esso soggiacenti. Si tratta, in altre parole, di rendere trasparenti, nel vissuto effettivo del mondo giovanile, gli atteggiamenti fondamentali che il sacramento suppone e su cui si regge.
    Per fare questo è, allora, necessario domandarsi che cosa significano i concetti di peccato, di penitenza, di conversione, di riconciliazione e di perdono nell'attuale momento storico. Ma è necessario, soprattutto, interrogarsi positivamente sulle potenzialità inedite che si sprigionano dai bisogni e dai desideri dei giovani, in ordine ad un approccio più autentico e seriamente motivato al loro contenuto e alla loro verità.
    La risposta non è facile. La cultura giovanile si presenta, infatti, come una cultura complessa, un impasto di istanze ambivalenti e, per molti aspetti, contraddittorie. Rifiuto della società consumistica e adeguamento passivo ai modelli da essa proposti, coscienza del limite e desiderio di onnipotenza, tendenza alla privatizzazione e ricerca di una nuova socialità si mescolano spesso tra di loro in una composizione magmatica, una sorta di labirinto all'interno del quale è arduo potersi districare. Ci si trova come spiazzati di fronte ad un mondo dai contorni sfumati e dai lineamenti inusitati. D'altra parte, l'annuncio cristiano deve concretamente fare i conti con la realtà storica. Il fatto che il cristianesimo non sia un'ideologia o un progetto totalizzante lo mette in grado di dialogare con le diverse proposte culturali, senza per questo lasciarsi da esse catturare. Gli stessi concetti sopra accennati non esistono al di fuori di una precisa contestualizzazione storica. Il che significa che, per poterli rendere trasparenti, occorre risituarli correttamente nel contesto socio culturale presente, assumendone criticamente le tensioni e le provocazioni.
    È quanto si tenterà di fare in questo articolo, proponendo alcune chiavi interpretative della realtà, senza pretesa di completezza.

    VERSO UNA NUOVA COSCIENZA DI PECCATO E CONVERSIONE

    La categoria oggi più radicalmente in crisi è quella di peccato. Le ragioni della disaffezione giovanile nei confronti del sacramento della Penitenza sono, in gran parte, addebitabili alla difficoltà di definire il peccato, sia nella sua natura ultima che nei suoi contenuti concreti e storici. La cultura del nostro tempo è contrassegnata dalla negazione del peccato.
    Tale negazione ha origini diverse, che sono, tuttavia, riconducibili ad una comune matrice: quella di una non corretta concezione della libertà umana, la quale o viene negata, in nome di un determinismo assoluto, o viene all'opposto indebitamente esaltata, in termini di totale autosufficienza. Non è infrequente che i due atteggiamenti coesistano nel mondo giovanile, generando, di volta in volta, stati di depressione e di fatalismo rassegnato o stati di euforia e di presunzione. I giovani passano con disinvoltura dall'uno all'altro, senza quasi avvedersene, subendone i contraccolpi e le conseguenze negative.

    Il dilemma tra negazione della libertà e autosufficienza

    È evidente che la negazione della libertà comporta come conseguenza la negazione del peccato. Peccato e libertà sono due grandezze direttamente proporzionali. Il peccato ha senso soltanto in un contesto di responsabilità, di affermazione della possibilità, da parte dell'uomo, di decidere del proprio destino e di progettare la storia. Laddove la libertà viene negata, non è più possibile parlare di responsabilità e di colpa, perciò di peccato e di conversione.
    Ora il clima culturale contemporaneo è particolarmente segnato da questa tendenza. Le scienze del sospetto mettono sempre più l'accento sui condizionamenti psichici e sociali dell'esperienza umana. Ciò che un tempo veniva considerato come il risultato di scelte precise fatte dall'uomo viene oggi interpretato come l'esito di un intreccio di forze oscure, che determinano - il più spesso inconsciamente - l'agire umano. Si fa strada così la tentazione di intendere il proprio comportamento come la risultante di un insieme di dati che operano in maniera meccanicistica, senza lasciare spazio effettivo al controllo personale.
    La persistenza di eventi negativi, e talora tragici, che attraversano la vicenda umana, sia individuale che collettiva, viene letta in chiave del tutto fatalistica. Il peccato è, in altri termini, ridotto al male come realtà enigmatica, indecifrabile, come destino inesorabile, che accompagna l'uomo, segnandone profondamente l'esistenza.
    Per uscire da questo tunnel, che genera impotenza e frustrazione, fatalismo e rassegnazione passiva, l'uomo tende, allora, a proclamare la propria autosufficienza. La caduta dell'orizzonte sacrale, che costituiva in passato un punto di riferimento costante per orientare la propria vita, si traduce nella proclamazione di un'assoluta indipendenza, di una libertà senza limiti. I giovani, in modo particolare, sperimentano questa avventura di una libertà prometeica, svincolata da qualsiasi riferimento, capace di produrre da sola orientamenti per la vita. Le norme morali vengono considerate come remore alienanti, come imposizioni indebite che la chiesa e la società producono per incanalare il consenso, spegnendo la creatività personale e la possibilità di emancipazione e di autorealizzazione. Ciascuno si sente padrone del proprio destino, chiamato ad elaborare, a partire da se stesso, il proprio progetto di esistenza. Le situazioni di ingiustizia e di mortificazione dei diritti dell'uomo vengono interpretate come l'effetto di una colpevolezza collettiva, che si obiettivizza in strutture ed istituzioni, create da gruppi di potere contro i quali è doveroso lottare.
    La politica diventa il luogo in cui si gioca il futuro dell'umanità come possibilità di liberazione per tutti.
    È sintomatico come questo atteggiamento, che conduce ad una collettivizzazione della colpa, si accompagni di fatto alla crescita di un senso acuto e sempre più diffuso di colpevolizzazione nevrotica, di natura strettamente patologica, che finisce molto spesso per produrre gli stessi segni di paralisi, di impotenza e di disperazione sopra ricordati.

    L'accusa come atto di libertà di fronte a Dio

    Scacco radicale della libertà e desiderio di onnipotenza, per quanto di segno opposto, molto spesso coesistono come due facce della stessa medaglia, due opposti poli di una stessa realtà. Le oscillazioni dall'uno all'altro sono la conseguenza di un mondo distorto e irrealistico di pensare la libertà e la responsabilità umana. L'autosufficienza e la presunzione non possono che produrre - ogniqualvolta l'uomo fa esperienza del proprio limite - uno stato di radicale pessimismo e di angoscia esistenziale.
    È dunque indispensabile ridefinire lo spazio concreto della libertà e della responsabilità umana, se si vuole uscire da questo circolo vizioso, che può diventare letale.
    Ora la ridefinizione della libertà umana diventa possibile soltanto nell'orizzonte dello stare davanti a Dio. Solo uscendo dalla propria solitudine e riconoscendo come essenziale il proprio rapporto con Dio, l'uomo riacquista il senso vero della propria responsabilità, che è sempre situata e limitata, ma non per questo meno reale e produttiva. La relazione con Dio, che è relazione di amore e di comunione, colloca correttamente l'uomo nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo. Egli acquisisce così, nello stesso tempo, il senso del suo limite e delle sue possibilità: esce dalla presunzione senza cadere nella paura dell'abbandono e nella disperazione. Il peccato prende significato in questo contesto: è l'atto di accusa di sé, cioè di riconoscimento della propria colpevolezza, fatto dinanzi a qualcuno, senza la pretesa di catturarne la benevolenza rendendolo complice, ma, insieme, senza temerne la reazione persecutrice e distruttrice. È attestazione resa all'altro della propria responsabilità negativa nel rispetto pieno della sua libertà. Per questo l'accusa diventa l'atto per eccellenza della libertà, che in essa si costituisce e attraverso di essa si obbiettivizza, acquisendo la pienezza del suo significato.
    Ovviamente tutto ciò diventa possibile solo nella misura in cui si coniuga con la speranza del perdono. Solo il perdono rende possibile il ristabilimento del rapporto e restituisce a chi si accusa la capacità di cambiare, uscendo dalla propria situazione di degradazione e aprendosi responsabilmente al futuro. La conversione ha inizio nel momento in cui si capisce che Dio continua a cancellare, nonostante tutto, la colpa e proprio per questo esige dall'uomo una trasformazione radicale della vita, l'assunzione di nuovi parametri di valutazione della realtà e di una nuova logica, una totale inversione di rotta. Convertirsi è, allora, impegnarsi a rendere operante il dono ricevuto, che è appello alla responsabilità. È rispondere con amore alla chiamata dell'amore di Dio, vincendo l'egoismo e l'autosufficienza per lasciarsi fare da lui, per aderire al suo progetto. È imboccare la strada di una laboriosa - e mai esaurita - ricerca di revisione della propria vita, di un costante itinerario di purificazione dei propri atteggiamenti interiori e del proprio modo di stare con gli altri e di cambiare il mondo. In questo senso la conversione e penitenza. Il perdono di Dio lascia intatta la nostra responsabilità, non ci esime dal preoccuparci delle conseguenze negative che il peccato ha prodotto; anzi, ci stimola a prendere ancora maggiore consapevolezza, senza cadere in sterili sensi di colpa, della negatività di quanto è accaduto e a porvi rimedio con un impegno rinnovato di trasformazione di noi stessi e della realtà.

    Quali contenuti?

    Ma il ricupero del senso profondo del peccato e della conversione - per quanto importante - non è sufficiente. Occorre più che mai, ai nostri giorni, ridescriverne i contenuti, ritagliarne i contorni precisi nel quadro del contesto socioculturale in cui viviamo. Molti giovani si sentono genericamente peccatori, ma non sanno di che cosa accusarsi. Le tradizionali classificazioni dei peccati appaiono anacronistiche: rispecchiano una cultura del passato, disattenta alle dimensioni sociali e politiche della realtà e ai nuovi problemi emergenti. Sono soprattutto preoccupate di fissare i singoli comportamenti dell'uomo nel quadro di una casistica dettagliata, che reifica l'agire umano e lo parcellizza, riducendolo ad una successione di atti senza un vero legame tra di loro; fanno, in definitiva, poco spazio agli atteggiamenti profondi, agli orientamenti fondamentali sui quali si costruisce il senso della vita dell'uomo. Inoltre, molto spesso tali classificazioni sono più centrate sulla proiezione dei desideri e dei bisogni umani che su una seria verifica del progetto di Dio. Riflettono cioè il dislivello che l'uomo constata esservi tra ciò che egli è e ciò che desidererebbe essere, tra il proprio vissuto quotidiano e il fantasma che egli si è fatto di se stesso, piuttosto che la non-adeguazione al piano di Dio.
    La ricerca di contenuti storico-concreti mediante i quali ridefinire peccato e conversione per restituire ad essi lineamenti precisi e situati è dunque un compito ineludibile. La chiesa ha, del resto, sempre assolto, nel corso della sua storia, a questa funzione. Le liste neotestamentarie dei peccati e i cataloghi delle colpe elaborati in epoca medioevale - pur con i limiti oggi riconosciuti - sono un esempio concreto di questa preoccupazione pastorale. Si tratta di ripercorrere questa strada con attenzione ai nuovi bisogni. La maggiore sensibilità dei giovani alle esigenze del «personale» rimette l'accento su alcune istanze fondamentali, che devono essere, tuttavia, collocate in un orizzonte più ampio, nel contesto cioè delle istanze sociali, alle quali non è possibile derogare. Peccato e conversione vanno ai nostri giorni ricuperati, nei loro contenuti storici, nell'ambito di una corretta mediazione tra il privato e il pubblico, tra il personale e il politico.
    La comunità cristiana deve tornare ad essere il luogo all'interno del quale si compie quest'opera di discernimento. Spetta ad essa infatti - e solo ad essa - delineare con coraggio e con lungimiranza, alla luce della parola di Dio e sotto la guida dello Spirito, i contorni storici che il peccato assume e scegliere le vie concrete del cammino di conversione, che occorre percorrere. Ma, perché questo avvenga, è necessario che essa sia profondamente inserita nella vicenda storica degli uomini e del mondo e che si apra, nel modo più ampio possibile, all'ascolto di tutte le componenti che la costituiscono.

    INTEGRAZIONE DI RICONCILIAZIONE E DI PERDONO

    Il riconoscimento del proprio essere peccatori e la stessa conversione diventano autentici nella misura in cui generano la volontà di riconciliazione. Il bisogno di trovare strade nuove per superare la situazione di esasperata conflittualità in cui viviamo è particolarmente avvertito nel mondo giovanile. Forse anche per questo il termine « riconciliazione» è oggi un termine di moda. Esprime il desiderio della comunicazione e del dialogo, la necessità del confronto e della ricerca della comunione. È un termine interpersonale, che tende, di sua natura, a saldare nel presente il passato e il futuro. Attraverso di esso il passato oppressivo viene superato e si apre la possibilità di un futuro inedito. Del resto, nella stessa riflessione teologica, esso gode di un posto privilegiato: Cristo è il riconciliatore di Dio con l'uomo, penitenza ed eucaristia sono i sacramenti della riconciliazione, il futuro promesso da Dio è il grande momento della riconciliazione piena e senza termine.

    La riconciliazione come lotta

    Occorre, tuttavia, essere attenti a non ridurre la riconciliazione cristiana ad una facile conciliazione. La condizione umana è e rimarrà sempre una condizione conflittuale. Psicanalisi e marxismo hanno giustamente evidenziato la positività del conflitto come momento necessario di crescita personale e collettiva. I giovani sono particolarmente sensibili a queste dimensioni della realtà.
    La dura militanza politica di questi ultimi anni li ha resi consapevoli della necessità della lotta per il cambiamento, dell'esigenza di non presumere di poter facilmente superare gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un assetto nuovo di convivenza umana.
    La riconciliazione vera nasce al di dentro dei conflitti, è il frutto di una loro realistica assunzione e di una loro elaborazione creativa. Essa non può voler dire assopimento del conflitto, esorcizzando chi lo provoca o tacitandolo brutalmente, e tanto meno copertura delle differenze e delle divisioni attraverso un atto mistificatorio di apparente compromesso, che lascia le cose come sono, consolidando il potere del più forte. Del resto Cristo stesso dice di non essere venuto a portare la pace, ma la spada, ad alimentare, anziché spegnere, il conflitto e la divisione dell'uomo con gli altri - comprese le persone più care - e persino con se stesso: «Se il tuo occhio ti scandalizza, cavatelo». L'esperienza realistica delle lacerazioni e delle rotture, che connotano i rapporti umani, sia interpersonali che sociali, rende dunque consapevoli dell'esigenza di ricercare una riconciliazione a lungo termine, costruendola giorno per giorno attraverso un faticoso sforzo di dialogo, che è capacità di fare spazio all'alterità, non rifiutandola come nemica, ma accettandone gli stimoli positivi, la costitutiva ricchezza. La riconciliazione è sempre più pensata come ricerca di sintesi nuove, che sono il frutto di un insonne confronto tra posizioni diverse e talora persino radicalmente opposte, coscienti che la verità non è mai da una sola parte, e che ad essa si accede soltanto imboccando la strada di una continua revisione critica delle proprie posizioni; in altre parole, soltanto mediante la messa in comune di esperienze diverse e il superamento delle totalizazzioni ideologiche.
    L'obiettivo non è, infatti, quello di sottrarre l'uomo dalla condizione conflittuale in cui vive, ma piuttosto quello di far passare il conflitto da alienante in liberante, mettendolo in grado di sprigionare potenzialità nuove ed insospettate.
    Questa visione delle cose suppone, naturalmente, il superamento del mito dell'onnipotenza, che conduce l'uomo a sognare ingenuamente il paradiso perduto, uno stato di innocenza originaria non più ricuperabile, o lo spinge a guardare con scetticismo la realtà, accettandone cinicamente le contraddizioni quasi fossero del tutto insuperabili.

    Il perdono come gratuità

    C'è, d'altra parte, il rischio che il puntare tutto sulla riconciliazione ne allontani definitivamente l'obiettivo. La riconciliazione come lotta - e sembra questo l'aspetto che oggi più la qualifica, soprattutto a livello di mondo giovanile - è fondamentalmente proiettata nel futuro. Di qui la necessità di integrarla nel gesto del perdono. Esso riveste ai nostri giorni una grande funzione sociale, ma è soprattutto l'espressione più pura del modo di atteggiarsi di Dio nei confronti dell'uomo. Esistono situazioni umane nelle quali, sia nell'ambito delle relazioni interpersonali che sociali, la riconciliazione si rivela impossibile. Si pensi alle rotture laceranti di rapporti profondi tra persone, ove qualsiasi tentativo di ricucitura non può che fallire, se posto sul terreno della stretta giustizia, oppure a fenomeni come quello della violenza terroristica dove non c'è posto per la mediazione razionale, che viene pregiudizialmente rifiutata.
    D'altra parte, l'esasperazione di una visione della riconciliazione come lotta finisce per rendere incomprensibile il senso della giustizia di Dio, che non è pura giustizia del diritto, ma giustizia dell'amore. Il perdono appartiene a questa logica: è atto assolutamente gratuito, che rompe il cerchio chiuso del diritto, aprendo spazi nuovi e possibilità inedite. È il momento dell'irruzione del diverso, della cancellazione della colpa per semplice dono (perdono). È l'ingresso della carità come amore senza attesa di contropartita, nonostante tutto. Il perdono è, di sua natura, creativo, anzi ricreativo, perché è atto di fiducia nell'altro, al di là di quello che umanamente è possibile vedere; è un affidarsi all'altro, nonostante esistano segni che spingerebbero in direzione opposta; è, in ultima analisi, uno sperare contro ogni speranza.
    Si tratta evidentemente di intenderlo nella sua verità, di non confonderlo con una facile remissione della colpa o tanto meno con un atto di complice benevolenza. Il perdono è un atto esigente come è estremamente esigente l'atto dell'amore, che produce in chi lo riceve la necessità del ricambio. Essere amati ci costituisce debitori di amore; e il debito non ha limiti, non si esaurisce nell'ambito di semplici prestazioni oggettive, comporta l'assunzione di un atteggiamento di dedizione incondizionata e totale. L'amore del nemico, che il vangelo indica come proprio del cristiano, non si esaurisce in se stesso; pone colui che lo riceve di fronte alle proprie responsabilità, lo stimola a convertirsi, a cambiare radicalmente orientamento, ad uscire da se stesso per ritrovare pienamente l'altro.
    Il perdono non è, di conseguenza, una realtà facile né per chi lo dà né per chi lo riceve; suppone, infatti, in chi lo dà la capacità di accettare il proprio limite e di usare anzitutto misericordia verso se stesso, e in chi lo riceve impegno a modificare profondamente la propria vita. Esige, in definitiva, la consapevolezza dell'essere di continuo perdonati da Dio con un atto di amore gratuito, che, cancellando la colpa e rinnovando l'uomo, lo rende capace di assumersi fino in fondo il proprio impegno di trasformazione del mondo.
    Riconciliazione e perdono sono perciò due grandezze complementari, che hanno senso soltanto nella loro reciproca integrazione e nel loro mutuo riferimento. La riconciliazione come sforzo di elaborazione dei conflitti acquista significato soltanto nell'orizzonte della speranza di un perdono assoluto come atto di radicale gratuita; mentre, d'altra parte, il perdono, che rappresenta un salto qualitativo, non elimina lo sforzo di una faticosa ricerca della giustizia, perciò della riconciliazione, attraverso la lotta per un mondo diverso, contrassegnato da relazioni umane più vere.

    OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

    La prassi penitenziale insiste oggi giustamente sul tema della riconciliazione. Esso evidenzia molto bene la dimensione ecclesiale, per troppo tempo dimenticata. Ma se si vuole restituire pienezza di valore ad un sacramento tanto importante e - purtroppo - non sufficientemente apprezzato e praticato, non si può ignorare il tema del perdono, che descrive l'irrompere di Dio nella storia dell'uomo, l'aspetto essenziale di incontro con Lui, che avviene nel segno della pura gratuita e dell'assoluto amore. Occorre riuscire perciò a fare sintesi tra questi due momenti: quello orizzontale, che ha la sua esplicitazione nel contesto ecclesiale, e quello verticale, che immette più direttamente l'uomo in contatto con l'intervento divino, con la sua grazia di liberazione.
    Tutto questo diventa possibile a due condizioni, che meritano di essere segnalate - a modo di conclusione.
    La prima è la necessità di una profonda revisione del linguaggio simbolico, perché corrisponda effettivamente alla realtà di quanto viene celebrato. Messaggio e simbolo sono nel rito strettamente collegati. L'uno non sta senza l'altro; anzi, il messaggio è sempre comunicato attraverso segni, che ne devono rendere immediatamente percepibile il significato. Trasformare il linguaggio simbolico, adeguandolo alle esigenze dell'attuale momento storico, in un'epoca di trapasso culturale e di trasformazioni sociali tanto rapide e profonde, come il nostro, non è impresa facile. Ma si tratta di un obiettivo fondamentale da perseguire, se si vuole che il sacramento ricuperi la sua pregnanza di verità per la salvezza dell'uomo.
    La seconda condizione è quella di una perfetta trasparenza del segno ecclesiale della riconciliazione e del perdono nella prassi quotidiana della chiesa. Solo una chiesa, che esercita all'interno di se stessa e nei confronti del mondo, il difficile compito della riconciliazione, nella povertà, nel confronto e nel dialogo, può annunciare con verità nei segni sacramentali la riconciliazione. Solo una chiesa che vive l'esperienza del perdono, relativizzando l'inimicizia e facendo spazio al diverso, al di la del muro dell'ideologia, può diventare testimone credibile del perdono di Dio.


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