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    Saper sentire, una priorità assoluta


    Incanti di libertà o passioni tristi? /4

    Paolo Zini

    (NPG 2011-07-39)


    «Quando c’è sentimento non c’è mai pentimento!»[1] sentenzia una fortunata canzonetta che affronta, tra l’ironico e il faceto, tematiche troppo grandi per l’angustia di rime senza pretese e massime sconclusionate.
    Però, piaccia o no, così vien da pensare a molti, o, addirittura, così si pensa: se c’è sentimento non c’è pentimento.
    L’equivoco è di quelli pesanti, con buona pace della musica leggera che in qualche modo lo sottoscrive.
    È pesante l’equivoco perché tocca il sentimento e il pentimento, due esperienze fondamentali dell’uomo, che non si lasciano impunemente manipolare e – anzi – nella storia di ogni libertà, prima o poi passano comunque all’incasso, con la severità tipica degli appuntamenti grandi dell’anima.
    C’è bisogno allora di guardare con paziente attenzione dentro queste esperienze, mettendo in discussione quella rima che, allegramente musicata, mentre accarezza l’orecchio disorienta il cuore.

    Dorian Gray: la seduzione delle sensazioni

    Il ritratto di Dorian Gray, capolavoro di Oscar Wilde,[2] sa parlare proprio delle malattie del sentimento e del pentimento, soprattutto attraverso la descrizione della convivenza tumultuosa e dei divorzi liberatori delle loro drammatiche caricature.
    Nel romanzo di Wilde è stridente il contrasto tra la precisione ricercata della prosa, attenta alla sottigliezza del dettaglio, e la confusione interiore del protagonista, Dorian, un giovane il cui aspetto bellissimo conquista il pittore Basil Hallward che ne produce uno straordinario ritratto.
    Se l’ispirazione pittorica di Basil può fissare sulla tela la grazia singolare e lo stato di innocenza di Dorian, non può impedire che questi, patita la seduzione di Lord Henry Wotton, precipiti di nequizia in nequizia, usando il fascino e il candore di un aspetto perennemente giovane come ingannevole maschera d’irreprensibilità e salvacondotto d’impunità.
    L’ingenuo desiderio di Dorian, di non subire nel volto le ingiurie del tempo, misteriosamente si realizza, quasi si trattasse di un’intesa siglata con il diavolo; se le sue sembianze non patiscono così alcun invecchiamento, gli effetti della sua corruzione morale si accaniscono sul suo ritratto, che riflette, in un abbruttimento devastante, la putrefazione dell’anima e di una condotta sempre più perversa e pervertitrice.
    All’origine di una malvagità tanto inquietante e dirompente non stanno però soltanto le inclinazioni di Dorian, quanto piuttosto le parole corruttrici di Lord Henry Wotton, che del giovane prima uccidono l’innocenza e poi confondono la sensibilità morale, inducendolo a servirsi della sua bellezza per vivere di soli godimenti:
    «Mi chiedo come si svolgerà il resto della vostra vita. Non sciupatela con le rinuncie. In questo momento siete un tipo perfetto. Non diventate incompleto, non avete neppure un’incrinatura. […] E poi, Dorian, non ingannate voi stesso, la vita non è guidata dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è un insieme di nervi, fibre e cellule faticosamente cresciute, nelle quali il pensiero si nasconde, e la passione si illude. Vi immaginate di essere al sicuro, e vi credete molto forte. Ma una casuale sfumatura di colore in una camera o in un cielo mattutino, un certo profumo che abbiate amato una volta, e vi riporti lievi memorie, il verso riudito di una poesia dimenticata, il motivo di una musica che da lungo tempo non avete più suonato… credete, Dorian: da simili cose dipende la nostra vita. Browning lo ha scritto in qualche libro; ma i nostri sensi le immaginano per noi. Talora il profumo di lilas blanc improvvisamente mi sfiora, ed io rivivo il più strano mese della mia vita. Vorrei poter mutare con voi, Dorian. Il mondo ha imprecato contro voi, ma vi ha sempre adorato. Voi siete il simbolo di quel che la nostra epoca cerca, e teme d’aver trovato. Sono così contento che non abbiate fatto nulla, né scolpito una statua, né dipinto un quadro, né creato nulla oltre voi stesso. La vita è stata la vostra arte. Avete fatto di voi stesso una musica. I vostri giorni sono i vostri sonetti».[3]
    Le parole di Lord Henry Wotton mentono sulla verità del vivere, e circuiscono con la loro seduzione il cuore e l’intelligenza di Dorian.
    L’immediatezza superficiale e confusa del sentire, il fascino dell’apparenza che consuma apparenze, nelle parole del cattivo maestro, vorrebbero candidarsi ad esclusive ragioni di vita degne dell’uomo:
    «Per me la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente meschina non giudica secondo le apparenze. Il vero mistero del mondo è quello che si vede, non l’invisibile… […] Ah! godete della vostra giovinezza finché la possedete! Non sprecate il tesoro dei vostri giorni ascoltando la gente noiosa, cercando di consolare i predestinati all’insuccesso, donando la vostra vita agli incolti, ai mediocri, ai volgari. Queste sono tendenze morbose, idee false della vostra età. Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di nulla… Un nuovo edonismo! Di questo ha bisogno il nostro secolo. Potreste esserne il simbolo visibile. Nulla è vietato alla vostra persona. Il mondo è vostro, per una stagione».[4]
    Dorian viene intossicato da un insegnamento letale: il mondo sarebbe accessibile nella sua godibilità e la libertà sarebbe nata per goderne fuori da ogni compito formativo. Così la vita di Dorian si prospetta come consumo ossessivo di sensazioni, e si scopre sempre più affamata, intristita e delusa.
    L’eroe tragico e negativo di Wilde passa di esperienza in esperienza, ignaro della verità fondamentale del vivere: egli non sa che senza l’esigente tirocinio del rispetto, dell’attesa, del silenzio, dell’ascolto, della riflessione, non è possibile quel discernimento necessario all’uomo per accogliere la rivelazione della bellezza, della verità, del valore delle cose, degli altri e di sé.
    E, proprio mentre affoga tra il vorticoso incalzare di sensazioni sempre più forti, Dorian, a dispetto di ogni apparenza, si rivela un analfabeta sentimentale: prigioniero di una vita eccitata, in realtà è incapace di sentire.
    Non sa sentire il valore del mondo e degli altri, e, proprio per questo, è anche ignoto a se stesso: soltanto può assistere al proprio dilagare, in una pericolosa ed autistica affermazione di insensibilità, di tendenziosità.

    I sentimenti: fedele ritratto dell’anima

    Il sentire, dunque.
    Forse nulla interessa all’uomo più di questo, e forse nulla lo provoca più di questo, in quanto principio di scelte, di azioni, di sofferenze, di gioie.
    Basta però spingere lo sguardo dentro l’affascinante mondo del sentire – che nel postmoderno è oggetto parossistico d’attenzione – per scorgere le ragioni di frequenti confusioni e di singolari pericoli: esattamente quelli drammatizzati dalla vicenda di Dorian Gray.
    Il romanzo di Wilde è tanto riuscito da sintonizzare senza fatica il lettore sulle sensazioni di Dorian, vere protagoniste di ogni sviluppo narrativo; ma, proprio a seguito di questa equivoca centralità, è d’obbligo constatare la sorte che, in tutta la vicenda, tocca alla realtà.
    Nell’affermarsi famelico delle sensazioni la realtà scivola progressivamente nell’irrilevanza: tutto è pretesto, misurato dal bagliore superficiale della sua apparizione, a sua volta conosciuta solo di riflesso nelle smanie sempre più smodate degli appetiti di Dorian.
    Ma ecco: le tempeste superficiali di sensazioni, cui si abbandona Dorian, non impediscono al lettore di sentire, a un ben altro livello di profondità, la nefandezza dei suoi gesti, ignari del valore delle cose e delle persone e incapaci di rispetto e di relazioni, nella più desolante immoralità.
    Il realismo di questo livello più profondo del vivere e del sentire è genialmente restituito, nel romanzo, attraverso le sorti del ritratto misterioso, nel quale – contrariamente a quanto accade nella vita – la verità della condotta di Dorian si smaschera senza possibilità di equivoci.
    Il ritratto sente ciò che Dorian non sa sentire, sente nelle sue fibre, patendolo, che il male fa male – a sé, agli altri, al mondo – anche quando si produce nell’apparenza gaudente di gesti sfrontati ed eccitati.
    Il romanzo di Wilde impartisce allora – forse oltre le stesse intenzioni del suo autore – una lezione di assoluta importanza ed attualità: il male, che ha la libertà per protagonista, non è una creazione culturale o sociale, neppure è una reazione emotiva annidata nella fantasia umana e nemmeno può intendersi come una trama onirica di inibizioni e complessi.
    Il male è devastazione effettiva, che infierisce sulla realtà e la colpisce al cuore, misconoscendone il valore, insidiandone la preziosità; è invasivo, anche quando il suo autore non lo sente, illuso com’è di goderne.
    Il ritratto di Dorian diventa inguardabile, mentre il suo volto conserva un’immacolata bellezza; la finzione, in questo caso, capovolgendo l’ordine delle cose, ne radicalizza la logica.
    Certo, ad un ritratto si può consegnare un’apparenza che resiste alle ingiurie del tempo, mentre i volti reali non vi si possono sottrarre; ma nel gioco delle parti ideato dal genio artistico di Wilde, quando al dipinto tocca la sorte di patire lo scorrere del tempo, questa, producendosi nel simbolismo iperrealistico, giunge a palesare fino all’esasperazione la verità dell’esistere.
    Nell’esistere personale c’è un’identità, quella morale, che subisce le aberrazioni, o salva le benemerenze, collezionate dalla vita nel tempo, e non nel tempo cronologico, ma in quello della libertà, nel quale l’uomo fa qualcosa di buono o di cattivo con le cose, con gli altri e – alla fine e sempre – con sé.
    Nella realtà l’uomo può nascondere i chiaroscuri del suo farsi morale, ma la finzione di Wilde narra uno strano e istruttivo miracolo: Dorian riesce a mantenere pubblicamente un aspetto irreprensibile, mentre gli è negata privatamente ogni maschera, e proprio da quel ritratto che, in modo assoluto, materializza l’oggettività della sua fisionomia morale.
    Il ritratto mostra a Dorian la verità della sua condotta, quella verità a lui altrimenti ignota, della quale la sua sensibilità morale – soffocata da sensazioni superficiali, mero riflesso meccanico di consumi eccitati – non ha imparato ad avvertire l’orrore.
    Basta però il riflesso estetico, che denuncia nel ritratto di Dorian il suo disfacimento morale, a provocarne la reazione. La vista di quello squallore è insopportabile, sebbene non sappia produrre un sussulto di dignità o un desiderio di ravvedimento, bensì soltanto un odio disperato.
    La determinazione, cieca, a silenziare quell’ingombrante testimone della propria perversione, porta però Dorian a colpire nel ritratto – profondissima intuizione di Wilde – la radice ultima della propria identità.
    Nessun uomo può separarsi dalla propria identità morale senza annientare se stesso. Colpire, attraverso la distruzione del ritratto, la propria fisionomia interiore, già minata da una vita senza scrupoli, significa per Dorian negarsi ogni speranza, attraverso un gesto d’angoscia, violento e suicida:

    «Il quadro: ecco la prova. L’avrebbe distrutto. Perché l’aveva conservato così a lungo? Una volta gli faceva piacere guardarlo mutare e invecchiare. Da qualche tempo non provava più questo piacere. Gli aveva tolto il sonno. Quando era stato lontano aveva tremato di paura che altri occhi potessero guardarlo. Aveva aggiunto una malinconia alle sue passioni. Gli aveva guastato molti momenti di gioia. Era per lui come la sua coscienza. Sì, era ormai una coscienza. La avrebbe distrutta. Si guardò attorno e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte, e non v’erano macchie. Era lucido, e scintillava. Come aveva ucciso il pittore, così voleva uccidere anche l’opera del pittore e tutto quel che racchiudeva. Così avrebbe ucciso il passato, e una volta morto il passato, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa anima vivente, e, senza i suoi odiosi rimproveri, avrebbe finalmente potuto godere la pace. Prese l’arma, e con quella colpì il ritratto. S’udì un grido ed un tonfo, il grido fu così dolorosamente tremendo che i servi spaventati si svegliarono e uscirono dalle camere. […]
    Entrati, videro appeso al muro uno splendido ritratto del loro padrone, quale l’avevano visto l’ultima volta, in tutta la magnificenza della sua meravigliosa bellezza e gioventù. Per terra giaceva un uomo, morto, con un coltello piantato nel cuore. Era canuto, il viso raggrinzito e ripugnante. Soltanto esaminando gli anelli riuscirono a riconoscerlo».[5]

    Il pentimento, mistero di libertà

    Il romanzo di Wilde può fornire, ad una riflessione sul senso e l’orientamento della vita, un affresco inquietante ma molto istruttivo sulle forme e sulle conseguenze dell’immaturità e della confusione del sentire.
    Dagli sviluppi sempre più fallimentari della vicenda di Dorian si può ricavare un monito: non sa vivere chi non impara a sentire, e inizia a sentire solo chi avverte con chiarezza la differenza tra l’essere raggiunto nell’animo dal valore della realtà e l’essere in preda all’eccitazione, che assoggetta la realtà alle proprie brame ingovernabili.
    Chi sa dare la parola alla realtà, coglie le differenze di valore che la abitano e agisce nel rispetto delle esigenze poste da tali differenze.
    Dorian Gray non sa sentire, patisce soltanto le proprie brame, nella luce delle quali la realtà perde ogni profilo di valore e non può essere riconosciuta nel rispetto che esige.
    Un attento lettore del romanzo di Wilde non può restare indifferente al vortice di sensazioni che consumano il protagonista illuso di consumarle; e per questo sente la bruttezza dei suoi gesti corrotti, bruttezza che ferisce in profondità non solo le esistenze di chi ne viene lambito dentro la costruzione letteraria, ma pure l’animo del lettore, a riprova del realismo del mondo morale e della sua originalità, che devono essere finemente riconosciute.
    Serissima è la lezione che viene dal misterioso ritratto: muto testimone della potenza del male che può essere occultata da apparenze ingannevoli, ma certo non liquidata a poco prezzo.
    E questo è un chiaro messaggio sulla temibile severità della vita, sulla perentorietà di ogni azione dell’uomo, piccola o grande, buona o cattiva.
    Come accade per ogni anima, anche l’anima di Dorian reca i solchi del male: raggrinzisce, perde armonia, ordine, sensibilità, lo dice efficacemente il ritratto divenuto inguardabile, con il suo ghigno inquietante.
    Le cose stanno proprio così: ogni gesto di male indurisce l’animo, ne riduce la sensibilità, rende più pesante e temibile l’ingombro di azioni cieche e sorde rispetto alla realtà, alla sua ricchezza, alle sue attese, al suo valore; in una parola uccide il sentire, i sentimenti.
    Il sentimento dunque, questa straordinaria possibilità dell’uomo di risuonare al cospetto della dignità, della preziosità, del valore degli altri e del mondo, è il luogo fondamentale della maturità della persona.
    La sua serietà non ha nulla a che vedere con l’incoscienza e l’autoreferenzialità di qualche pulsione o con l’immediatezza di qualche sensazione in grado di ottundere il cuore, ingrigire i volti, appesantire di volgarità la condotta.
    E la speranza del sentimento, sempre fallibile e spesso immaturo, è proprio il pentimento. Nel pentimento è data alla fiacchezza, all’aridità, all’inefficacia del sentire una redenzione.
    Il pentimento cresce e matura solo in chi cerca un’attenzione e un rispetto sempre più grandi da accordare al valore di chi e di quanto lo circonda, anche a costo di rivedere la propria condotta sbagliata, di farne ragione di biasimo per sé e di rinnovata apertura ed attenzione ad altro.
    La vicenda di Dorian non giunge al suo epilogo tragico soltanto per la durezza e l’aridità di un cuore immaturo e di una condotta spregiudicata, ma anche per la disperazione dell’impenitenza.
    È la disperazione a soggiogare l’animo di Dorian Gray, incapace di reagire in altro modo allo sgomento di Basil Hallward, il pittore costretto a inorridire alla visione del suo dipinto reso irriconoscibile dall’immoralità di una vita e mutato, da icona di bellezza, in un coacervo di orrore:

    «– È il viso dell’anima mia.
    – Cristo! Che cosa ho mai adorato! Ha gli occhi di un demonio.
    – Ognuno riunisce in sé il cielo e l’inferno, Basil, – gridò Dorian, con un gesto disperato e folle.
    Hallward si volse di nuovo verso il ritratto, e lo scrutò.
    – Mio Dio, se è vero, – esclamò, – e se questo tu hai fatto della tua vita, devi esser peggiore di quanto credono i tuoi calunniatori. –
    Avvicinò di nuovo la luce alla tela, e guardò. La superficie pareva intatta, tal quale l’aveva lasciata, dal di dentro, erano verosimilmente affiorati l’infamia e l’orrore, per uno strano soffio di vita interna, la lebbra del peccato andava divorando la materia, la decomposizione di un cadavere in un sepolcro umido non sarebbe stata altrettanto spaventosa. […]
    – Dio buono, che tremenda lezione! –
    Dorian non rispose, ma poteva udirlo singhiozzare vicini alla finestra.
    – Prega, Dorian, prega, – mormorò.
    – Che ci insegnavano da piccini? «Non indurci in tentazione. Perdona i nostri peccati, liberaci dal male».
    Diciamola insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata esaudita. La preghiera del tuo pentimento anch’essa sarà esaudita.
    […] Dorian Gray si volse lentamente, e lo guardò, gli occhi pieni di lagrime.
    – È troppo tardi, Basil, – balbettò.
    – Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci, e vediamo di ricordare una preghiera. Non c’è un versetto che dice “benché i vostri peccati siano scarlatti, io li farò bianchi come la neve”?
    – Queste parole non mi dicono più nulla».[6]
    Dorian si nega l’esperienza del pentimento, vera speranza di una resurrezione del sentire, fuori della quale semplicemente non c’è vita, non c’è incontro, non c’è relazione, ma solo muta, solitaria e disperata estraneità al mondo, agli altri e a sé.

    Dunque?

    L’uomo, vivendosi come protagonista del proprio volere, avverte il fascino e il pericolo inscritti nella sua capacità d’iniziativa, nella sua vocazione all’attività, alla creazione.
    Neppure il volere più intimo e soggettivo si limita ad esprimere chi lo realizza, ma si dirige verso il mondo e verso gli altri, lasciando – fuori di sé – traccia della propria efficacia.
    Di qui l’insidia: le mire del protagonismo umano possono imporsi agli altri e al mondo, fino a violarli, impedendo al cuore di ascoltarne pazientemente la voce e rispettarne il valore.
    Così può prodursi una forma di esistenza che riduce quanto incontra a pretesto di ogni possibile arbitrio e su tutto proietta i propri deliri, riducendosi a minaccia per altri e a vittima devastata dalla propria insolenza.
    Tocca al pentimento richiamare il cuore perché cerchi scampo dalla propria durezza, distruttiva e autodistruttiva, attraverso una rinnovata apertura alla realtà che, con la sua ricchezza e verità, sa restituire al volere l’anima del rispetto e il vigore della libertà.


    NOTE

    [1] Neri per Caso, Sentimento Pentimento, in Le ragazze, CD, 1995.
    [2] Le vicende di Dorian, protagonista del romanzo, drammatizzano la tempestosità di un animo confuso, inquieto e lacerato; in questo modo danno prova non solo della genialità narrativa di Oscar Wilde (Dublino 1854 – Parigi 1900) ma pure ne riflettono la turbolenta e sofferta esperienza esistenziale. Solo prescindendo dagli accenti accorati di alcune tra le ultime pagine di Wilde è possibile rubricare gli intrecci della sua arte e della sua biografia come incisiva avanguardia letteraria ed audace emancipazione anticonformistica; l’onesta considerazione del carattere tragico della sua avventura umana suggerisce forse di accostarne l’opera non fermandosi al mero apprezzamento per gli estetismi del suo decadentismo letterario, bensì di leggervi considerazioni inequivocabili circa la severità dell’esistere e la profondità delle sue possibili ferite.
    [3] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (Biblioteca romantica 38), Arnoldo Mondadori, Milano 19702, 359-360.
    [4] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray…, 46-47.
    [5] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray…, 369-371.
    [6] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray…, 263-264.


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