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    La lingua, i giovani e la fede



    Esperienze pastorali

    Giovani nati in emigrazione

    Antonio Grasso

    (NPG 2011-04-65)


    Mons. G. B. Scalabrini nel 1905 presentò alla S. Sede un progetto per la costituzione di una Commissione pontificia «Pro Emi­gratis Catholicis». Possiamo considerarlo il suo testamento spirituale, il suo sogno per gli emigranti, visto che morirà nello stesso anno.
    Sfortunatamente questo progetto non andò in porto: era troppo all’avanguardia per quei tempi. Ci vorranno vari anni, prima che la Chiesa realizzi alcune delle intuizioni espresse da Mons. Scalabrini all’inizio del XX secolo.
    In un passaggio di questo «Memoriale», Mons. Scalabrini afferma: «La lingua è un arcano mezzo di conservare la fede. Non è facile spiegarlo, ma è un fatto che perdendo la lingua, facilmente si perde anche la fede avita. Quale ne sia la ragione arcana è difficile determinarlo, ma l’esperienza ci dice che sino a che una famiglia conserva all’estero la propria lingua, difficilmente muta la propria fede».
    Queste parole mi colpiscono e mi fanno riflettere sempre di più sulla pastorale migratoria che portiamo avanti e, in particolare, sul nostro apostolato tra i giovani delle nuove generazioni.
    Se le parole di Mons. Scalabrini risuonano con un’attualità stravolgente a distanza di oltre 100 anni per quella che definiamo la prima generazione dei migranti, quanto possono essere applicate anche alla seconda e terza generazione?
    Nelle mie attività pastorali incontro vari giovani, non solo italiani. Ho iniziato il mio ministero sacerdotale a Los Angeles con i giovani latinoamericani e da 6 anni seguo e coordino a livello europeo le attività di pastorale giovanile e vocazionale nell’area europea della Con­gre­ga­zione Sca­la­bri­niana. Sempre più mi confronto con giovani che sono alla ricerca di una sintesi di identità e alla ricerca di una loro fede.
    L’essere giovane è già una condizione di ricerca da tanti punti di vista (identitario, culturale, professionale, spirituale), tanto più l’esserlo in un contesto migratorio, in cui c’è da ritrovare se stessi e definirsi in un ambiente multi lingue, multi culturale e multi religioso.
    Ma focalizziamoci sulle parole di Mons. Scalabrini sul rapporto «fede e lingua». Come possiamo applicarle alla seconda e terza generazione?
    I giovani delle seconde e terze generazioni, si sa, fanno fatica a definire qual è la loro identità e tanto più la loro lingua. Il concetto di «lingua madre» è molto relativo. Se penso alla mia vita e prendo alla lettera il termine «lingua madre», dovrei dire che la lingua insegnatami dai miei genitori non è stato l’italiano, bensì il dialetto leccese. Certo, essendo vissuto per tanti anni in Italia, la lingua italiana è diventata la lingua delle relazioni ufficiali, come per esempio a scuola o negli uffici. Ma poi ho dovuto studiare l’italiano e faticare sui libri per apprenderlo.
    I giovani nati in emigrazione devono districarsi tra contesti linguistici multipli. Prendiamo il caso di Basilea, che è la città in cui vivo. Qui i giovani in casa parlano prevalentemente il dialetto dei genitori (lingua madre?), poi c’è il tedesco, la lingua ufficiale del cantone, poi il Basel Deutsch, cioè il dialetto (qui considerato una vera e propria lingua) e che rappresenta per i giovani la lingua comune, quella della strada, delle amicizie, che apprendono da piccoli relazionandosi con la società in cui vivono. Tra di loro i giovani italiani parlano una lingua mista tra Basel Deutsch e italiano: sembra quasi che abbiano in testa un loro archivio di parole e quando non ne trovano una in una lingua passano automaticamente all’altra. In pratica, avviene il fenomeno definito lo «switch» (un processo di alternanza di codici linguistici tra due lingue). L’obiettivo tanto è comunicare! Questo fenomeno è tipico di tutte le seconde e terze generazioni, in ogni parte del mondo (es: l’itaniolo, lo spanglish). Per non parlare poi delle lingue che si apprendono a scuola, come l’inglese e il francese, che arricchiscono e/o complicano ancora di più il proprio repertorio linguistico.
    E l’italiano? Per coloro che sono nati a Basilea resta la lingua delle «occasioni»: molti dei giovani che conosco hanno frequentato i corsi di lingua e cultura italiana (sempre più ridotti a causa dei tagli che il governo italiano continua a fare!), che equivalgono a poche ore di lezione settimanali. Alcuni hanno frequentato le scuole bilingui, con maggior possibilità di parlare e imparare l’italiano. Ma l’italiano è anche la lingua usata per comunicare quando ci si ritrova tra connazionali (vista la diversità di provenienza regionale), e infine è anche la lingua della fede quando vengono in parrocchia.
    Fondamentalmente, il punto a cui sono arrivato con la mia riflessione è che l’italiano non è la lingua principale (o madre) dei nostri ragazzi. Non lo è però neanche il tedesco! Dunque, riprendendo il pensiero di Mons. Scalabrini, qual è la lingua che i nostri giovani non dovrebbero perdere per non perdere la fede?

    Quale la «lingua» della fede?

    Ho provato a portare alcuni dei nostri giovani a messa in una parrocchia svizzera. Pur capendo la lingua, la risposta che mi hanno dato all’uscita è stata: «Non sapevamo rispondere... non sappiamo pregare in tedesco». Alla prima risposta c’è rimedio, ma alla seconda? La fede è trasmessa in parte dai genitori, che da piccoli insegnano le preghiere (in italiano) e poi dalla parrocchia attraverso la catechesi e le varie attività. Ma come si può vivere ed esprimere una fede quando della lingua con cui è formulata, se ne conosce una minima percentuale di vocaboli?
    Forse dall’esterno non s’immagina quanta fatica si fa nel preparare un’omelia o un incontro di formazione, cercando le parole più semplici, comprensibili, vicine al mondo di coloro che ascoltano... perché, in fondo, l’obiettivo è questo: comunicare! E se le nostre parole non toccano il cuore e la mente di chi ascolta perché sono troppo difficili, tecniche o appartenenti a contesti culturali troppo distanti, cosa resta di tutto ciò che diciamo?
    In questi anni ho sviluppato una personale sofferenza pensando al linguaggio liturgico: mi preoccupa il fatto che dall’altare diciamo tante parole che la gente non capisce. Ogni volta che celebro la S. Messa mi chiedo cosa sta capendo chi mi ascolta quando recito le Collette o i Prefazi. Non ne nego la bellezza e la profondità teologica, biblica o spirituale, ma a livello linguistico i termini e i concetti sono distanti anni luce dalla vita e dai parametri culturali di chi li ascolta, specie in un contesto di emigrazione. La domanda nasce spontanea: a che serve dire quelle parole se non comunicano? Un amico prete liturgista mi ha detto una volta che la Chiesa è restia a cambiare quei testi perché si teme che semplificando il linguaggio si possa svuotarne il significato. Preoccupazione legittima, ma personalmente la vedrei come una sfida, oltre che come un’urgenza.
    Sta di fatto che i giovani sono sempre più distanti dalle nostre liturgie e dalle S. Messe. Che fare? Provo a delineare alcune piste di riflessione e di azione.

    Piste di riflessione e azione

    – L’italiano può essere definita la «lingua del cuore» e quindi dobbiamo puntare a far sì che i giovani la apprendano sempre meglio. Questo può comportare che, se il governo italiano taglia ancora di più i finanziamenti per i corsi di lingua e cultura, dobbiamo attivarci in parrocchia e con le associazioni di volontariato per offrire ai nostri giovani qualche corso gratuito. Questo processo permetterà loro di comprendere maggiormente i concetti biblici, i contenuti della catechesi, di esprimere meglio le loro idee e la fede, e infine, di comprendere anche il linguaggio liturgico durante le nostre celebrazioni.
    – Puntare maggiormente sulla formazione globale dei nostri giovani. Dato che non si ama ciò che non si conosce, penso che per amare Gesù Cristo non basti una conoscenza linguistica, ma occorra elevare il livello culturale delle persone.
    Le difficoltà qui provengono dal sistema di formazione svizzero che privilegia fin da subito l’apprendimento specialistico a scapito di una formazione culturale generale.
    Cosa può comportare questo per le nostre parrocchie o missioni? Forse puntare maggiormente sugli eventi culturali (cosa che già veniva fatta nel passato) e offrire non solo corsi di lingua ma veri percorsi di formazione di cultura generale.
    – Andare verso i giovani, mettendoci in ascolto del loro mondo. A parer mio, la Chiesa in generale e noi operatori pastorali in particolare dovremmo avere il coraggio di ripetere quel vecchio fenomeno definito come «inculturazione della fede», adottato da Gesù quando usava le parabole per farsi capire dai suoi ascoltatori, da S. Paolo che usava il greco per diffondere il Vangelo, e dai tanti missionari e missionarie che nel corso della storia hanno saputo coniugare l’annuncio della fede con la cultura dei paesi dove andavano. Mi chiedo quindi se invece di portare i giovani nel nostro mondo, non dovremmo andare noi nel loro, facendo lo sforzo di riformulare i contenuti della fede nei loro parametri linguistici (compreso il dialetto basilese) e culturali, per renderli loro accessibili. Questo comporterebbe per noi non temere di usare più linguaggi nella nostra pastorale, conoscere i riferimenti culturali della società in cui viviamo perché la nostra predicazione sia incarnata, frequentare maggiormente i luoghi «informali» dove i giovani si ritrovano per capire cosa cercano, cosa li affascina, cosa li riempie o li svuota nella loro ricerca di senso, e là annunciare la fede.
    Come sempre, alla logica dell’aut... aut si può scegliere quella dell’et... et, cercando di realizzare percorsi paralleli. Per­sonalmente credo che non possiamo imporre più alle seconde e terze generazioni la lingua italiana come unico strumento linguistico per comunicare la loro fede, perché non corrisponde più alla realtà. Il rischio è quello di perdere la lingua, i giovani e la fede. La preoccupazione principale di Mons. Scalabrini era la protezione della fede dei migranti. A distanza di oltre 100 anni, penso che questa debba essere anche la nostra preoccupazione.
    Forse abbiamo bisogno di maggior coraggio per rischiare nuovi percorsi di fede attraverso linguaggi umani innovativi.

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