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    Parole per una nuova politica


     

    Franco Miano *

    (NPG 2011-04-24)

    Il quadro concettuale che qui viene offerto non è frutto di pensate a tavolino, ma – come si è narrato negli articoli precedenti – è costruito in un fecondo dialogo con la ricerca di giovani, fatta soprattutto a scuola e sollecitata da attenti docenti, in una specie di circolo ermeneutico tra attese dei giovani e il quadro astratto elaborato dalla teoria politica e dalla prassi storica. In mezzo entra come fattore determinante l’educazione, dunque l’arte del possibile che, come definizione, ha qualcosa che la avvicina alla stessa definizione di politica.

    A fondamento di ogni discorso sulla politica non può non esservi un principio di vita, un principio di umanità: il primato della persona. Un principio non astratto.

    IL PRIMATO DELLA PERSONA E LA CENTRALITÀ DELLE RELAZIONI

    Si dice, infatti, primato della persona, quando si fa riferimento al primato di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino, giovane, adulto o anziano che è sulla faccia della terra, a prescindere dalle latitudini e dalle longitudini. Dunque non un discorso vuoto o retorico: mettere al centro la persona vuol dire prestare attenzione alla persona vera, concreta, storica in tutte le dimensioni della sua vita e in tutte le condizioni in cui si trova a vivere. Da questo punto di vista, è importantissimo notare che la somiglianza con Dio, l’essere immagine vivente di Dio stesso, mette in luce l’essenza vera dell’uomo. L’uomo è creatura grande, è caro a Dio.
    Il primato effettivo di ogni persona discende, allora, dal riconoscere in ogni essere umano l’immagine vivente di Dio stesso. Se l’uomo somiglia a Dio, vuol dire che la sua relazione più profonda è con Dio. Se la relazione dell’uomo più importante e più profonda è con Dio, contemporaneamente acquistano valore immenso tutti i rapporti di prossimità, tutte le altre relazioni. Incontrare Dio non è altra cosa dall’incontrare i fratelli.
    A partire da queste considerazioni di fondo, quali elementi esprimono e danno forza al primato della persona?
    Prima di tutto la persona è caratterizzata da un’unità profonda. Spesso la persona è stata rappresentata in modo diviso insistendo troppo sulla separazione tra corpo e di anima. C’è chi ha insistito sulle dimensioni materiali della vita della persona e chi, invece, sulle dimensioni di carattere spirituale. In realtà tutte le dimensioni della vita della persona, quelle materiali e quelle spirituali, concorrono al bene della persona stessa.
    Se una parte del nostro essere sta male, in una certa misura è tutta la persona che sta male. Quando non siamo contenti, ne soffre anche il corpo; quando non stiamo bene fisicamente, anche lo spirito viene messo alla prova.
    Nell’unità della persona comincia a tradursi, in concreto, il significato dell’espressione primato della persona. L’unità e la globalità richiamano fondamentalmente l’apertura alla trascendenza di ogni persona. In questa unità profonda che caratterizza la vita dell’uomo, c’è il richiamo alla relazione con la trascendenza, alla relazione con Dio. La persona è resa grande proprio dalla sua capacità di andare oltre se stessa: nessuna persona è veramente grande, se rimane chiusa dentro di sé. Solo l’apertura a qualcosa che ci oltrepassa, che va al di là di noi, rappresenta la chiave di volta della vita della persona, la calamita e il punto di riferimento per il quale vale la pena di vivere.
    Aprirsi alla trascendenza significa, dunque, superare il proprio egoismo, saper guardare oltre il proprio orizzonte verso orizzonti più vasti; significa, in poche parole, vivere quel contatto diretto con Dio che è sempre caratterizzato da una relazione unica, perché le relazioni più belle della nostra vita sono sempre irripetibili, così come è originale la persona.
    Infatti l’unità della persona e l’apertura alla trascendenza si accompagnano all’unicità della persona. La caratteristica fondamentale della persona stessa, che ne esplicita il primato, è il suo essere singola, irripetibile, specifica e originale. L’unicità della persona suggerisce il fatto che ogni uomo è in diretto rapporto con Dio, in ogni uomo c’è un germe di Dio, ad ognuno Dio affida un compito: anche questo rende unica la persona, nella sua singolare dignità. Accogliere ed impegnarsi a realizzare questo compito costituisce la premessa del cambiamento che ciascun uomo è in grado di realizzare nella propria vita e nella storia, nella prospettiva della realizzazione di un bene sempre più grande per se stesso e per gli altri.
    Anche la persona meno fortunata, che vive l’esperienza più dolorosa, o che è segnata da fallimenti e fragilità, porta con sé l’immagine vivente di Dio, che fonda il suo stesso essere e la sua stessa unicità. E nell’unicità della persona è custodita anche la sua dignità, in quanto in ogni uomo – non nell’uomo generico, ma in ogni uomo – si riflette l’immagine vivente di Dio.
    L’unicità della persona sta ad indicare anche la singolarità e, insieme, la decisività delle relazioni. Nell’unicità di una relazione si apre, infatti, la presa di coscienza di se stessi, che consiste nel saper diventare consapevoli del fatto che la persona non sarebbe se stessa senza il rapporto con Dio ma anche senza il rapporto con gli altri. Nessun uomo può crescere da solo: ciascuno di noi è tale perché matura insieme con gli altri. Attraverso la scelta del nostro modo di relazionarci agli altri, cresciamo e scegliamo contemporaneamente noi stessi. La scelta degli altri, dunque, è contemporaneamente la scelta di me stesso: così come accolgo me stesso e la mia vita, il modo stesso in cui entro in relazione con gli altri che mi capitano accanto o che scelgo di avere accanto, esprime me stesso. Gli altri mi interpellano in molti sensi. La dimensione relazionale è costitutiva della persona e fonda anche quell’ apertura sociale della persona che è alla base delle relazioni di ordine politico che, pur non avendo l’intensità della relazione amicale, sono altrettanto costitutive dell’umano. «La persona domanda essa stessa, in virtù della sua dignità come dei suoi bisogni, di essere membro di una società» (J.Maritain, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia 1990, p. 29).
    Per questo è proprio della persona vivere in modo adeguato e significativo la dimensione sociale e politica della vita, senza la quale si impoverirebbe in umanità. Tale dimensione attraversa tutte le forme che mettono in comunicazione con gli altri: le prime esperienze della vita familiare e scolastica, l’universo delle relazioni amicali, l’ambito associativo e di gruppo. La dimensione sociale e politica della persona ha tante facce quante sono le persone che si incontrano e con cui si entra, giorno dopo giorno, in contatto. Essa chiede di essere salvaguardata a tutti i livelli, tutelata ed incentivata. Oggi questa sottolineatura appare particolarmente importante. Viviamo un tempo in cui è più facile separarsi che unirsi, in cui è più naturale interrompere le relazioni che crearne di nuove. Insistere sulla bellezza e importanza anche della dimensione sociale e politica della persona, significa scommettere non solo su se stessi ma anche contemporaneamente sugli altri. È un dato di profonda apertura che dà sostanza e colore, ma offre anche vita effettiva al principio dell’uguaglianza nella dignità di tutte le persone. Eguaglianza e fraternità sono facce concrete della stessa medaglia, a condizione che venga sempre rispettata la dignità dell’uomo, la dignità della persona in tutte le persone, la dignità della vita in tutte le esperienze della vita. Questo è il fondamento dei diritti umani, che non sono un vuoto richiamo teorico ma esperienza concreta della dignità inviolabile, universale e inalienabile.

    LA SPERANZA CHE GUIDA LA STORIA, OVVERO IL PRINCIPIO DI GRATUITÀ

    Il richiamo al primato della persona evoca una realtà semplice eppure difficile e problematica. Abbiamo la possibilità di vivere rimanendo schiacciati nella quotidianità, lasciando che siano i fatti a dettare la nostra agenda, non ponendoci mai domande oppure abbiamo la possibilità, pur nelle oscillazioni dell’esistenza, nelle esperienze belle come in quelle brutte, di riuscire a porre nella vita germi di infinito e di eternità.
    Troppo spesso si è portati a separare il tempo e la vita quotidiana dall’eternità, dallo sguardo rivolto al trascendente, dall’apertura grande al mistero di Dio. In realtà le due dimensioni sono strettamente congiunte: non c’è vera storicità, vera concretezza, vera quotidianità, senza un’apertura all’infinito, senza uno sguardo che oltrepassi la quotidianità stessa, senza riuscire, sempre e comunque, a saper guardare oltre.
    Tutte le volte che la persona riesce a vivere nella gratuità, cioè in libertà e semplicità, senza secondi fini e senza strumentalizzare gli altri, in essa appare l’immagine vivente di Dio. In altre parole, c’è un germe di infinito e di eternità, che è capace di guidare la storia: il riferimento al primato della persona diventa allora la via privilegiata per rintracciare i segni di speranza nella vita di ciascuno e di tutti. La speranza più importante è custodita nel cuore dell’uomo, rappresenta il primo motore che fa cambiare la storia e la prima certezza che avvertiamo come nostra, il primo anelito che sentiamo.
    La speranza più grande è fondata sulla gratuità. La dimensione della gratuità esprime la persona nella sua capacità di relazioni autentiche. C’è una dimensione sociale della persona che corre sempre il pericolo di essere segnata da una mentalità che è pervasa da aspetti consumistici e relativistici, che esprimono problematicità. Nella misura in cui le relazioni sono segnate dalla gratuità, esse rappresentano un’autentica possibilità di trasformazione di se stesse e della realtà che le circonda. C’è un valore politico della gratuità. La persona, che si rende appassionata, solidale, capace di aprirsi agli altri, di vivere con gioia la responsabilità, diventa essa stessa segno di speranza. Le persone che si mettono insieme per progetti comuni in modo libero e disinteressato sono segno di speranza e compiono così concrete opzioni dal chiaro significato politico.
    Non si tratta di un’argomentazione astratta ma concreta, in quanto dalla forza di questa passione ha sempre preso le mosse il cambiamento. È in questo senso che va difeso il primato della persona, della vita della persona e delle persone. È in questo senso ancora che occorre lavorare per valorizzare concretamente la centralità della persona stessa, che dovrebbe risaltare in ogni opera educativa anche per le sue valenze politiche. La centralità della persona dovrebbe essere mostrata nella vita della famiglia di oggi, nelle esperienze lavorative, dovrebbe vedersi all’opera in una società in cui non predomini l’elemento consumistico ma viga invece una dimensione di solidarietà effettiva. La centralità della persona dovrebbe diventare il motore dell’agire politico, per restituire, attraverso la capacità d’infinito dell’uomo, più fiducia alle generazioni presenti e a quelle future.
    Persona è ogni uomo e tutti gli uomini sulla terra – anche quelli che verranno nel tempo futuro. In tale prospettiva assumono rilievo ineludibile le questioni della mondialità, della destinazione universale dei beni, della promozione dello sviluppo di tutti i popoli, della cooperazione tra Nord e Sud, della salvaguardia dell’ambiente. Sempre più chiara, allora, appare la necessità di costruire una buona società in cui vivere, che sappia coniugare l’impegno per l’attuazione dei diritti «tradizionali» (diritto alla vita, alla proprietà, al lavoro, alla libertà religiosa…) con quello per la salvaguardia dei nuovi diritti (diritto alla tutela della privacy, alla verità dell’informazione…) e sia fondata su stili di vita personali non egoistici ma capaci di apertura e attenzione all’altro, non solo all’altro che mi è dinanzi, ma anche all’altro che mi è estraneo e all’altro che verrà.
    Ricordiamo Giorgio La Pira, che sul finire della Seconda guerra mondiale proponeva questa stessa prospettiva per la ricostruzione della comunità civile italiana:
    «Se [...], come è in realtà, il fine ultimo della persona trascende quello della società, allora la conseguenza è ovvia: la società deve organizzarsi in tal modo da aiutare la persona a raggiungere i suoi fini. Ora, quali sono i fini della persona? Qui va richiamato quanto si è detto avanti: c’è una gerarchia di fini dell’uomo: fini economici, fini affettivi, fini politici, fini culturali, fini religiosi esterni, fini religiosi interiori. Per pervenire ad essi l’uomo singolo non basta, egli ha bisogno dell’integrazione che gli viene dagli altri; ecco allora l’organizzazione sociale destinata a produrre tutta la gerarchia dei beni economici, beni familiari, beni politici, beni culturali, beni religiosi esterni. Il bene religioso interno non può essere prodotto dalla società perché viene soltanto da Dio ed è, anzi, in ultima analisi, Dio medesimo. La società ha quindi per scopo la produzione dell’integrale e gerarchico bene comune necessario alla conservazione e perfezione della persona e l’attribuzione proporzionale di esso a tutti i membri del corpo sociale. [...] Produzione per opera di tutti; comunità del prodotto; distribuzione proporzionata a tutti: ecco tre pilastri dell’edificio della comunità umana. Ora possiamo precisare così la finalità del corpo sociale: la società ha per fine la produzione per opera di tutti dell’integrale gerarchico bene comune [...] e l’attribuzione proporzionata di esso a ciascuno» (G. La Pira, La nostra vocazione sociale, Editrice AVE, Roma 2005, pp. 97-98).

    LIBERTÀ

    Nell’unicità della persona, si fonda la sua dignità ma anche la sua libertà. La libertà è il termine con il quale possiamo riassumere, particolarmente in questo tempo, le caratteristiche stesse della persona. Non si vuole alludere, tuttavia, a una libertà neutra, che non esiste, ma a una libertà che muove dalla situazione, dalle caratteristiche stesse dell’essere – uomo o donna, giovane o adulto, genitore o figlio – che è nato in questo tempo e in un determinato luogo, che è espressione di una peculiare cultura.
    La libertà muove dalla capacità di accogliere se stessi e il grande dono della vita: accogliere se stessi nell’unicità di questo dono che il Signore fa, dono che è concretezza di vita. Accogliere se stessi è il primo passo per esercitare la propria libertà, è il germe di tutte le azioni future. La libertà è prima di tutto questo atto di relazione con se stessi, a partire dal quale si cresce, si è coinvolti, si fanno passi avanti dal punto di vista delle scelte e delle decisioni.
    C’è una dinamica che muove la persona: dalla libertà alla grande decisione della vita, dalla libertà alle grandi scelte, ma anche alle piccole risposte che, giorno dopo giorno, la sostanziano e la rendono concreta, la trasformano in quotidianità, normalità della vita stessa. La libertà svela alla persona di essere legata alla trascendenza, di essere se stessa perché c’è qualcosa di altro che attira, che è, al contempo, dentro e che la supera.
    La libertà vera si esercita, si concretizza e si mette alla prova nella capacità di scegliere e di decidere. In special modo durante l’adolescenza e la giovinezza scegliere e decidere vuol dire sostanzialmente anche assumere un orientamento, avere una direzione, individuare un progetto, scoprire una finalità. L’orientamento non è fuori dal soggetto, ma è dentro la persona: è la spinta che fa andare in una direzione anziché in un’altra; è riuscire a capire il senso della vita.
    Questo processo di orientamento, che appare cruciale nell’età evolutiva, abbisogna poi di rinnovarsi e rimotivarsi continuamente nel corso della vita di ciascuno. Diventare pienamente se stessi, infatti, è una sfida mai completamente compiuta, che richiede discernimento costante della mutevole realtà che ci circonda e capacità di superare i rischi di omologazione e conformismo che si nascondono dietro modelli di libertà solo apparente. Ne deriva che la libertà è dono, ma anche orizzonte da raggiungere, da raggiungere nelle relazioni e nella capacità di essere solidali con tutti assumendosi sempre le proprie responsabilità. La libertà personale si fa libertà politica.

    Libertà solidale

    L’esercizio della libertà (e della libertà politica), nella sua autenticità, pone al centro il valore della solidarietà (mai disgiungibile da quello della sussidiarietà). Prima di tutto una solidarietà con l’oggi e con la sua quotidianità. In fondo la politica è una forma di solidarietà con l’oggi, con la realtà, con il tempo. L’oggi è sempre dono e compito, il dono di luoghi, persone, situazioni da accogliere, il compito di sentirle profondamente nostre e di amarle pienamente e generosamente. Chi conosce la continua tensione esistente tra il fine ultimo della promozione piena dell’uomo e i gesti di giustizia e solidarietà che quotidianamente possono essere attuati mai completamente all’altezza di quel fine, trova in questo limite (il limite del qui ed ora) non il freno, ma lo slancio ulteriore verso un impegno appassionato per la propria terra e il proprio tempo.
    È per questo che, a tutti i livelli, la solidarietà appare il primo banco di prova di una libertà che voglia essere effettivamente politica. Pensiamo all’art. 2 della Costituzione, che così recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
    Giovanni Paolo II, a sua volta, al n. 38 della Sollicitudo rei socialis, specifica che la solidarietà
    «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti [...]. L’impegno per il bene del prossimo, con la disponibilità, in senso evangelico, a perdersi a favore dell’altro invece di [...] opprimerlo per il proprio tornaconto».
    Benedetto XVI, al n. 53 dell’enciclica Caritas in veritate, d’altro canto approfondisce il tema della comunione nella società moderna:
    «Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare [...]. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita dai soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro».
    Dice ancora il pontefice nello stesso documento:
    «Paolo VI notava che il mondo soffre per mancanza di pensiero. L’affermazione contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l’interazione fra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l’integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione».
    L’essere umano è dunque una persona sociale, che vive, sperimenta e coglie la sua socialità solo se può disporre di spazi in cui crescere. Non dobbiamo, quindi, sottrarle luoghi ed esperienze di solidarietà, ma piuttosto moltiplicarli.
    Senza un criterio di trascendenza, senza il riferimento a una ulteriorità, senza l’individuazione di un fine che oltrepassi gli interessi particolaristici e che superi ciascuno di noi, tuttavia, è difficile, se non impossibile, parlare di solidarietà. La cultura della solidarietà si alimenta, quindi, alle dimensioni di fondo, che ci radicano al cuore della vita, ma che ci aprono ai contesti della quotidianità. Senza guardare a un «di più», a qualcosa che va «oltre», o meglio a un «al di là», risulta difficile vivere in modo pieno e significativo il nostro «al di qua»: solo ciò che dà senso può, infatti, dare luce e valore alla vita di ogni giorno.

    Libertà responsabile

    Non c’è solidarietà senza responsabilità, senza una cultura della responsabilità. La responsabilità non è un atto di natura giuridica, la responsabilità che ciascuno impara a portare non è il peso che mettiamo sulle spalle e non vediamo l’ora di scrollarci di dosso, non è il fardello che rallenta i nostri passi.
    La responsabilità è la risposta gioiosa che sentiamo di dover dare ad un appello che ci proviene dal cuore, a quella domanda che avvertiamo come nostra. È la passione per gli altri, quella passione che rende più solleciti, più veloci. È la capacità di ripensare il passato, reinventando la propria storia e volgendo anche i limiti in positivo. La responsabilità è avere il senso e la passione per il futuro.
    Essere responsabili, infatti, come appare evidente dall’etimologia della parola stessa, significa «rispondere a», rispondere all’appello che viene da una situazione, dal tempo che si vive, dalla storia, rispondere in ordine a qualcosa, ma è soprattutto rispondere a qualcuno e più ancora rispondere di qualcuno, tanto che si potrebbe addirittura affermare che senza il riferimento implicito o esplicito all’altro non c’è responsabilità.
    Una responsabilità di questo tipo non si improvvisa: essa può darsi solo come esito di una paziente opera di educazione ed autoeducazione.
    Il compito di formare alla responsabilità verso la «città dell’uomo» ci interpella in modo forte: siamo chiamati ad acquisire uno sguardo libero, un’intelligenza critica, capace di «leggere dentro» le pieghe di questo tempo, capace di stare nel mondo con cuore di profeta, per testimoniare la bellezza, il senso e il valore di una vita salvata e redenta.
    Formare alla responsabilità civile significa anche avere il senso cristiano della storia, avere la pazienza dei tempi lunghi e la gioia della semina, significa sapere che il bene non si attua mai del tutto. Vi è, per così dire, una responsabilità verso la storia, una risposta che, come singoli e come comunità o popolo, dobbiamo al passato nel senso di una continuità da salvaguardare o di una liberazione da attuare, diventando così responsabili di fronte al futuro.
    Vi è come una solidarietà con la storia, con la realtà, che implica sempre una responsabilità da assumersi rispetto al tempo: al proprio tempo, al tempo passato, al tempo che viene.

    PER IL BENE COMUNE

    La formazione alla responsabilità civile passa perciò dall’educazione della persona al senso del bene comune. Impegno, questo, che richiede – come affermava Vittorio Bachelet (L’educazione al bene comune, 1964, in V. Bachelet, Scritti civili, a cura di M.Truffelli, Editrice AVE, Roma 2005, p. 898) –, «un retto e vigoroso ideale, [...] una lineare aderenza agli essenziali immutabili principi della convivenza umana e in pari tempo al senso storico, alla capacità di cogliere il modo nel quale quei principi possono e debbono trovare applicazione», nella consapevolezza della «necessità di attrezzarsi spiritualmente, intellettualmente, moralmente, tecnicamente per divenire capaci di attuare concretamente quei principi nella concreta convivenza umana in cui è chiamato a vivere».
    Aderire ai principi della convivenza umana vuol dire anche impegnarsi per la realizzazione di una società più aperta ed accogliente, capace di integrare piuttosto che escludere, di promuovere l’incontro ed il confronto tra culture ed identità diverse piuttosto che lo scontro utilizzando sempre di più il metodo del «confronto argomentativo» e dell’«apprendere reciprocamente» che, per esempio, chiede al credente «di tradurre alcuni essenziali contenuti di fede in termini passibili di intesa e di consenso anche per i ‘cittadini privi di sensibilità religiosa’ per usare il lessico di Habermas» e al non credente di «dimettere la convinzione, diventata col tempo, un luogo comune diffuso e acritico, secondo cui la dimensione religiosa è per eccellenza la dimensione dell’irrazionalità, dell’emotività, della superstizione» (cf R. Gatti, Religioni e spazio pubblico. Questioni di metodo, in «Dialoghi», 2/2010, pp. 36-38).
    Il bene comune è un grande principio che si alimenta attraverso una mentalità nuova e condivisa, prima ancora che attraverso astratte forme di indottrinamento di qualsiasi matrice. Ne deriva, tra l’altro, l’esigenza che la formazione alla cittadinanza responsabile non sia disgiunta dalla formazione alla partecipazione e all’esercizio della democrazia. Si impara insieme a cercare le linee di traduzione del bene comune, le sue possibili declinazioni nell’oggi. Ogni opera di traduzione è vero esercizio di laicità, possibilità di mediazione tra l’ideale e il reale, tra i principi e la storia.

    Pensiero critico ed integrità etica

    La riduzione del politico al tecnico e all’economico, i problemi posti dalla rivoluzione tecnologica e dagli squilibri ecologici, dai particolarismi e dalle rivendicazioni etniche, dalla crescente sperequazione nella distribuzione della ricchezza fra Paesi industrializzati e Paesi poveri, provocano un senso di impotenza che porta al deperimento della vita democratica, all’indebolimento del senso civico e al rifugio nel privato, proponendo con forza l’interrogativo radicale sul senso e sulle caratteristiche della partecipazione oggi.
    Dobbiamo ritornare ad abitare le nostre città, testimoniando senso civico e spirito di cittadinanza attiva, che è capacità dei cittadini di auto-organizzarsi, di mobilitare risorse umane, finanziarie, e di occuparsi della tutela dei diritti esercitando poteri e responsabilità allo scopo di contribuire alla cura e allo sviluppo del bene e dei beni comuni, e di colmare lo scarto tra le leggi e la loro quotidiana attuazione. Perché «abitare» vuol dire «stare dentro», partecipare, farsi carico dei problemi della comunità. Contrapporre alle storture della politica il rispetto e l’esercizio dei propri doveri e diritti di cittadinanza.
    Spesso ci capita di fuggire da un luogo o, viceversa, di trovare al suo interno nascondigli privati in cui costruiamo la nostra personalità, ignorando – a volte persino colpevolmente –che la vita è fuori. Nella città, nella comunità che vive insieme, dove diviene fondamentale la ricostruzione di un tessuto di relazioni vere.
    Garantire a tutti un’uguale possibilità di partecipazione all’esercizio della politica è la condizione stessa della pluralità che caratterizza costitutivamente lo spazio del «pubblico», dove tutti, pur occupando posizioni distinte e talora irriducibili, scelgono di porsi come pari, agendo indipendentemente dalle loro condizioni private e dalle loro appartenenze. Tale spazio ha però bisogno di essere coltivato in modo sempre nuovo attraverso una discussione pubblica illimitata come inevitabile via per lo sviluppo della verità, in una comunità in cui niente sparisce nella segretezza e il costume politico diviene quello della più ampia veridicità.
    «L’idea di democrazia – della forma di governo repubblicana – rischia di andar perduta in una democrazia che diventa formale, che decade a strumento di manipolazioni da parte di politici e interessi economici» (K. Jaspers, Verità, libertà e pace (1958), tr. it. in Verità e verifica, a cura di A. Ponsetto, Morcelliana, Brescia 1986, p. 182).
    Le degenerazioni della vita politica e dei processi produttivi ed economici possono insinuarsi nelle pieghe della democrazia consentendo un permanere solo esteriore della vita democratica. In tal senso, la ricerca delle forme di «non-verità», nascoste all’interno dei meccanismi politico-sociali anche nelle democrazie occidentali, è parte integrante del cammino della cittadinanza che esige di coniugare pensiero critico e integrità etica. La democrazia come sistema politico non può resistere, infatti, senza un modo democratico di vita, senza un ethos della vita quotidiana e della vita comunitaria.
    Vivere la responsabilità nella città, riscoprire il senso della partecipazione e l’esercizio della democrazia richiedono, dunque, una conversione sia morale sia intellettuale.
    «Sia ben chiaro che una incompatibilità essenziale è posta tra il cristiano e il machiavellismo. Distinguere, come faremo, il piano politico dal piano religioso, non vuol dire affatto accettare il principio o la prassi diffusi purtroppo anche tra molti cristiani sulle cui labbra ricorre, più o meno apertamente, la frase: ma la politica è un’altra cosa, quasi che fosse possibile sottrarre tale azione alle esigenze del principio unificatore!».
    Così scriveva nel 1948 Giuseppe Lazzati (nel suo Pensare politicamente, v. I, Editrice AVE, Roma 1988, p. 72).
    Fin dal momento in cui la nostra democrazia stava prendendo corpo, si rendeva indispensabile il richiamo fermo e preciso alla necessità della coerenza tra impegno politico e principi etici. Alla logica machiavelliana, secondo cui politica ed etica sono e devono essere concepite come due sfere distinte, indipendenti e non in relazione tra esse, se non in senso strumentale, Lazzati contrapponeva la convinzione che l’unità e la coerenza della persona, l’integrità etica, fossero la sola modalità con cui è possibile perseguire il bene comune: non ogni mezzo può essere giustificato dal fine, perché, come ricordava Gandhi, tra mezzi e fini esiste un «inviolabile rapporto come tra il seme e la pianta» (M. K. Gandhi, Civiltà occidentale e rinascita dell’India: la nonviolenza come liberazione individuale e collettiva, EMN, Perugia 1984, p. 62).

    Una formazione integrale

    Esiste, tra i diritti fondamentali garantiti alla persona umana, il diritto all’educazione. Un diritto talvolta dimenticato o sottodimensionato, ma che oggi reclama, a vantaggio delle nuove generazioni, la possibilità di una formazione capace di fornire tutti gli strumenti per decifrare la complessità del tempo presente e, non ultimo, del dato politico attuale.
    Si avverte, dunque, sempre più il bisogno di una proposta formativa globale, nella quale le dimensioni della spiritualità e della preghiera e i cammini catechistici non risultino separati dalla formazione sociale, culturale e politica, ma siano anzi strettamente connessi ad essa. Sempre più, quindi, siamo chiamati a dar vita a una formazione non settoriale e frammentaria, ma capace di integrare le diverse dimensioni della vita.
    Una particolare declinazione della più complessa opera di formazione della coscienza personale è sicuramente la formazione ad assumersi responsabilità nella vita sociale e politica, la formazione alla responsabilità su una conversione sia morale sia intellettuale. Formare alla responsabilità e alle responsabilità civili significa apprendere che si è parte di un tutto (comunità, società...), di un intero che ha bisogno di noi, del nostro apporto competente e della nostra dedizione. Ciò permette di porre al centro, alla luce del Vangelo, la persona e il bene comune.
    La formazione da sola non può, però, essere sufficiente, perché essa va sperimentata e resa concreta all’interno della realtà: essa ha cioè bisogno di «buone pratiche», di esperienze in cui tradursi ed essere messa alla prova. Si tratta di esperienze realizzate dai singoli, per un verso, e proprie dei gruppi, per un altro verso. Ovviamente, va considerato che le esperienze non potranno mai tradurre pienamente la grandezza degli ideali che accompagnano la nostra vita. Tuttavia, esse sono importanti perché rappresentano un segno, quasi ad affermare che è possibile modificare la realtà.

    Un’informazione libera e plurale

    Formazione significa anche diffusione capillare dell’informazione, capacità di promuovere dibattito pubblico sulle questioni del bene comune, vigilanza e affinamento del senso critico.
    Nel nostro ordinamento giuridico la libertà di informazione è garantita dalla Carta costituzionale che, tutelando all’articolo 21 la libertà di manifestazione del pensiero, ricomprende in essa sia il diritto ad informare che ad essere informati.
    Oggi aumentano in modo esponenziale strumenti e velocità di comunicazione delle informazioni e, accanto alle aumentate possibilità di informazione e partecipazione alla vita pubblica, appare doveroso segnalare anche gli effetti distorsivi e manipolativi che i mezzi di comunicazione di massa e i mezzi telematici riescono a produrre sul flusso delle informazioni. Accade allora che, in special modo presso le società più ricche, si assiste ad una dinamica di rimozione, soprattutto della povertà e dei conflitti armati che dilaniano interi Paesi. E la rimozione è il fondamento della deresponsabilizzazione, della massificazione, dell’indifferenza, del non voler sapere. Risulta evidente, quindi, come la formazione significhi anche diffusione capillare dell’informazione, capacità di promuovere dibattito pubblico sulle questioni del bene comune, vigilanza e affinamento del senso critico.
    In I sette saperi necessari all’educazione del futuro, il sociologo francese Edgar Morin (Cortina Editore, Milano 2001, pp. 117-119) sottolineava:
    «Le democrazie del XXI secolo saranno messe a confronto sempre più con un problema gigantesco, originato dallo sviluppo dell’enorme macchina in cui scienza, tecnica e burocrazia sono intimamente associate. [...] Più la politica diviene tecnica, più la competenza democratica regredisce. Il problema non si pone solo in caso di crisi o di guerra. Si pone anche nella vita quotidiana: lo sviluppo della tecnoburocrazia insedia il dominio degli esperti in tutti i campi che fino ad allora pertinevano alle discussioni e alle decisioni politiche. [...] I cittadini sono espulsi dagli ambiti politici, sempre più accaparrati dagli esperti, e il dominio della nuova classe impedisce di fatto la democratizzazione della conoscenza».
    Formare alla cittadinanza responsabile in questo tempo, dunque, significa fornire gli strumenti e le chiavi di lettura adeguate per scardinare i meccanismi viziati della società mediatica globalizzata, formare coscienze critiche capaci di orientarsi nell’agone politico sulle grandi questioni poste dalla modernità evitando chiusure aprioristiche o assolutizzazioni, ma con senso critico e spirito di partecipazione, senza mai rinunciare a portare il proprio contributo di impegno e di speranza.
    Ecco il senso vivo del bene comune, che è tale per la persona e le persone. Non a caso Maritain affermava:
    «da un lato le persone umane, in quanto parti della comunità politica, si subordinano a questa e all’opera comune da compiere; dall’altro la persona umana, per il focolare stesso della sua vita di persona, è sovraordinata a questa opera comune e la finalizza», poiché «il bene comune è un bene comune di persone umane» (J. Maritain, Uma­ne­simo integrale, Borla, Torino 1962, p. 231).

    * L’Autore è docente di filosofia all’Università Tor Vergata d Roma e presidente nazionale di AC.


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