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    La buona notizia della libertà



    Incanti di libertà o passioni tristi? /1

    Paolo Zini

    (NPG 2011-03-34)

    Presentazione della rubrica

    Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo! [1]
    Inevitabilmente amaro è il retrogusto di questa pillola di saggezza che John Stuart Mill – non sappiamo se per disincanto o cinismo – somministra all’entusiasmo umano, perché si guardi dall’eventuale ricerca di ragioni con le quali consolidarsi.
    E, se dopo tale farmaco, qualche residuo di entusiasmo avesse ancora bisogno di essere smorzato, saprebbe pensarci Camus con il passaggio lapidario di un suo scritto, nel quale si afferma che una sola cosa è più tragica del dolore: la vita di un uomo felice.[2]
    La felicità umana andrebbe dunque pagata con la moneta dell’incoscienza e con la valuta della superficialità?
    Se così fosse, le apologie della riflessività per la formazione di una libertà felice, che talvolta in modo retorico, talvolta in modo accorato, accade di udire, sarebbero esortazioni all’infelicità.
    Per uscire dall’alternativa, evidentemente tristissima, è d’aiuto un verso, di Hölderlin questa volta: A portarsi è greve l’infelicità, ma la felicità più greve.[3]
    Il verso è bello, e – se inteso a modo – è pure vero: per essere felici occorre essere robusti, robusti nella libertà.
    Una libertà senza robustezza non può che scegliere la superficialità come compagna e aspirare ad una letizia di facciata. E una simile letizia basta un pensiero un pochino più audace degli altri a squarciarla, inesorabilmente.
    Ma, soprattutto, una libertà inconsistente, sebbene avvinghiata alla propria gaiezza, non saprebbe produrre alcun incanto! Allora ben venga il monito: una gaia incoscienza è assai più tragica di un vigile dolore.
    Va anche detto però che ciò non basta a dichiarare impossibile una libertà felice, e felice perché riuscita.
    Qualche interesse potrebbe allora avere l’esplorazione di una libertà desiderosa di prendersi sul serio e di misurarsi con gli incanti che le sono promessi, fuori dal ricatto dell’incoscienza.
    E prendersi sul serio potrebbe voler dire prendere sul serio alcuni interrogativi, da rendere più o meno così:
    1. In fin dei conti, ubriacarsi di libertà non è schiavitù?
    2. Spesso, non vorremmo non volere le cose che pur vogliamo?
    3. Se una voglia che s’accende fosse un desiderio che muore?
    4. Quando c’è sentimento non c’è mai pentimento?
    5. Il male è proibito perché bello o bello perché proibito?
    6. Una regola non potrebbe essere un regalo?
    7. E se lo scorrere del tempo fosse un dono?
    8. Se l’amore è cieco, a vederci bene è l’odio?
    9. Una felicità non facile potrebbe essere felice?
    10. Quando non è un gioco, il Vangelo è un giogo?
    Se una risposta seria a questi interrogativi illuminasse la via di una libertà felice, destinata a quel cuore pensante che è l’uomo, allora la capitolazione alle passioni tristi, che alterna sconforto e vanità, non avrebbe il diritto di presentarsi come il solo stile di vita concesso ai figli del secolo breve.

    L’uomo è una passione inutile![4]. Con questa affermazione si conclude L’essere e il nulla, uno dei volumi più fortunati e impegnativi della filosofia del Novecento, un volume interamente consacrato alla libertà dell’uomo.
    E a motivare la chiusura dell’attenta e appassionata ricerca di Sartre sarebbe proprio il carattere insieme ambizioso, enigmatico e paradossale della libertà e dei suoi progetti.
    «La mia libertà – afferma infatti Sartre – è scelta di essere Dio e tutti i miei atti, tutti i miei progetti, traducono questa scelta e la riflettono in mille e mille modi».[5]

    Scelta di essere Dio?

    Vien da chiedersi se questa prospettiva possa interessare un uomo di buon senso; e sorprende un po’ constatare come per Sartre rappresenti la verità ultima di ogni condotta umana.
    Ma, soprattutto, un’esistenza che baldanzosamente si intende come scelta di essere Dio può arrivare poi a riconoscersi come una passione inutile?
    Benché possa sorprendere, la descrizione di una simile parabola esistenziale accredita culturalmente il pensiero di Sartre da oltre mezzo secolo; e proprio questa fortuna non può non sfidare cuore e intelligenza di chi è interessato al mistero dell’uomo.
    È urgente allora domandarsi se identificare l’uomo come scelta di essere Dio, e – insieme e proprio per questo – come passione inutile, abbia qualche fondata ragione.
    Nel caso poi tali ragioni vi fossero, diventerebbe ancora più pressante l’interrogativo se questa sorte sia un percorso obbligato dell’impresa umana o non piuttosto una malattia della libertà che, forse non di rado, volendo ubriacarsi di sé, finirebbe nella più pericolosa delle schiavitù.

    Scimmie di un Dio freddo

    Non è molto conosciuto il dramma Oulanem, scritto da Marx in gioventù; risultando, per stile e contenuto, piuttosto di maniera e affine ai componimenti d’esordio e senza seguito di numerosi aspiranti poeti, le biografie di Marx spesso nemmeno lo citano.
    Proprio in questo dramma, che contiene una apologia della consunzione del mondo nel nulla, troviamo versi cupi e sibillini, e, forse anche per questo, di non poco effetto:
    I mondi […] urlano il loro canto di morte
    E noi, noi scimmie di un Dio freddo…[6]
    Al di là del rapporto di queste parole con il pensiero e le intenzioni del loro autore, le immagini che esse ci forniscono sono provocatorie, per la forza della loro rappresentazione negativa, tanto dell’uomo, che di Dio e del mondo.
    Il vincolo sul quale si pronunciano queste espressioni inquietanti è di quelli che fanno pensare: infatti le sorti dell’uomo, del mondo e di Dio sono tra loro annodate.
    Quando il mondo è considerato un baratro di non senso, il suo principio può essere solo un burattinaio cinico, del quale l’uomo è una caricatura e un replicante.
    Merita qualche riflessione questa figura d’uomo ridotto a scimmia di un Dio freddo, perché nomina con efficace plasticità l’esito sconcertante di tante antropologie, imbarazzate dall’enigma della libertà finita.
    La consapevolezza della libertà nell’uomo è sempre accompagnata al rilievo di una misteriosa anomalia: quella di un potere che sembra presentarsi, insieme, come assoluto e come drammaticamente limitato.
    Di qui la tentazione di ritenere il compito di vivere come disegno beffardo ideato da un burattinaio incomprensibile.
    Se talvolta la libertà esalta l’uomo, consegnandolo alla coscienza del proprio potere, dal quale in numerosi frangenti dell’esistere dipendono innegabilmente successo o rovina, nondimeno, la stessa libertà avverte la propria impotenza, quando la vita, fuori da ogni scelta personale, è in balia della fortuità di eventi favorevoli o di sventure irrimediabili.
    È questa illogicità a produrre nella storia esaltazioni e gemiti umani, e a dare consistenza al sogno di una libertà assoluta; e il sogno non di rado viene vissuto dalla coscienza come diritto, drammaticamente confuso con la felicità.
    La censura poi che la vita sembra spesso riservare alla felicità trascina la coscienza inquieta, oltre il disincanto per la propria impotenza, al sospetto verso un’onnipotenza dispotica e cinica di Qualcuno egoisticamente alle prese con se stesso, e forse persin divertito dalle sventure del mondo.
    Se l’uomo pazientasse tra questi labirinti del pensiero e del sentimento, non capitolerebbe a molte menzogne sul valore e le possibilità del vivere, e magari scoprirebbe che la libertà è quel tratto di mistero che c’è tra sé e la felicità della propria storia, e percorrerlo significa imbattersi nel mondo, negli altri e in Dio.

    Sisifo, figlio di Prometeo…

    Già la mitologia greca, intrecciando le sorti di Prometeo e di Sisifo, affronta non solo gli interrogativi umani sull’enigma della libertà e delle sue possibilità storiche, ma il loro fondamentale legame con il senso del mondo e la potenza del divino.
    Secondo la mitologia greca la libertà non si appaga attraverso mezze misure. Ma ardirne l’assolutezza significa sfidare gli dei, patendone poi – da schiavi – la tirannide; e poca differenza fa se questa sanzioni il titanismo di Prometeo – che vuole rendere agli uomini un bene divino – o censuri le astuzie di Sisifo – che mirando a migliorare la vita dei mortali ne svela poi il più assurdo non senso.
    Nei miti ellenici il riferimento al divino non scioglie dunque l’enigma della libertà, piuttosto lo radicalizza: l’ebbrezza dell’arbitrio, mentre esalta l’uomo, minaccia gli dei, che diventano a loro volta censori delle pretese della storia.
    La libertà scava le trincee di una possibile e pericolosa ostilità tra l’uomo e Dio, piuttosto che disegnare la patria di una reciproca relazione.
    La cultura occidentale, pur vivendo di queste premesse, le ha progressivamente elaborate sulla scorta di una crescente insofferenza per i limiti storici dell’umano, insofferenza che ha moltiplicato gli interrogativi sul senso della libertà finita e della libertà divina.
    Il pensiero degli ultimi secoli ha così esplorato – ma pure ha motivato – la ribellione della libertà umana di fronte all’impossibilità della disposizione assoluta di sé, che di necessità impone all’uomo l’impotente capitolazione al limite e alla morte.
    E là dove il pensiero di Dio ha conservato qualche importanza, ribellione e capitolazione antropologica hanno determinato un crescente risentimento nei confronti dell’onnipotenza del Creatore, insieme al sospetto riguardo alla sua bontà.
    Se alle spalle della libertà finita ve ne sta una assoluta, proprio il destino di sofferenza e morte, ineluttabilmente riservato alla prima, getta un’ombra oscura sulla seconda.
    Ma il risentimento, ingenerato dall’assurdità di un esistere ridotto a dipendenza da un Assoluto indifferente alle sventure della storia, a dispetto di ogni progettualità emancipatoria, può legittimare soltanto una ribellione inutile, per quanto aggressiva o appassionata possa apparire.
    Se ogni umano tentativo di accesso e partecipazione all’onnipotenza di un divino egoista è condannato allo scacco, risulta allora inevitabile concludere che tanto il protagonismo storico moderno, quanto l’antico eroismo tragico, non possono aspirare a qualche considerazione, incapaci come sono di dissimulare la propria velleità.
    Di qui un pensiero della libertà che, per non ridurre l’avventura umana individuale e collettiva ad elaborazione risentita della maledizione del finito, sceglie di liquidare la trascendenza.
    Inevitabilmente però la liquidazione della trascendenza, negando la coerenza dell’esistente con un progetto metastorico, espone il mondo e la storia ad una considerazione non in termini di ordine e senso, bensì di ordigno assurdo, privo di principio e di fine ed in balia di una cieca casualità.
    Uno scienziato del XX secolo, premiato con il Nobel per il valore delle sue scoperte nell’ambito della biologia, proprio da un osservatorio dal quale non può sfuggire il sorprendente finalismo del mondo, indizio non insignificante di un progetto di senso, arriva al contrario ad affermare che l’uomo, «come uno zingaro, si trova ai margini dell’universo in cui deve vivere. Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini».[7]

    Libertà vo cercando ch’è sì cara…

    L’uomo si deve dunque arrendere alla lezione mitologica della maledizione di Prometeo, o del supplizio senza senso di Sisifo? O, ancora, deve riconoscersi tra le scimmie del Dio freddo di Marx o tra gli zingari dell’universo di Monod?
    Se queste figure fossero coerenti descrizioni dell’umano, lo stare al mondo sarebbe una crudele condanna, resa oltremodo beffarda da quell’anelito alla felicità che pare attraversare l’essere e il tempo dell’uomo.
    E se, invece, proprio scrutando questo anelito, fosse possibile guadagnare uno sguardo alternativo rispetto a quello disperato – e forse superficiale, a dispetto delle apparenze – responsabile delle immagini d’uomo che abbiamo sin qui recensito?
    Che l’uomo voglia essere felice è verità a tutti nota attraverso l’ascolto di sé e dell’affanno – altrimenti incomprensibile – della storia intera; meno chiare sono però le ragioni che universalmente portano l’uomo ad avvertire, proprio al cuore di tale volere, un diritto sancito semplicemente ma decisamente dal puro fatto di esistere.
    Se l’uomo non avvertisse la propria felicità come una sorta di diritto, non si spiegherebbe la sua tenacia nell’inseguirla, anche a dispetto di tutte le evidenze storiche del dolore, corredo irrinunciabile di ogni esperienza di vita.
    E, nei singoli o nelle comunità, non dilagherebbe, come sovente accade, l’aggressività, capace persino del sacrificio di sé, e rivolta contro ogni possibile causa d’infelicità, fosse pure assai potente o si trattasse, addirittura, di Dio.
    Quello alla felicità è dunque inteso come diritto; certo non pacifico, non mero compimento di un processo naturale, piuttosto vera faccenda di libertà, di libertà in gioco nel mondo, tra gli altri, con Dio.
    Tra l’uomo e la sua felicità c’è dunque una distanza, uno spazio: lo spazio della libertà, dal quale non può essere esclusa la presenza d’altro, d’altri, dell’Altro.
    Quando queste presenze sono avvertite come ostili, lo spazio di libertà posto tra l’uomo e la sua felicità diventa inospitale.
    Esclusi gli altri, l’uomo si trova prigioniero di sé, e la sua libertà, da via di felicità si muta in diaframma di un isolamento mortale.
    Ma l’equivoco di una libertà allergica agli altri, che, mentre vorrebbe rendere l’uomo padrone esclusivo di sé, lo separa irrimediabilmente dalla sua felicità, è divenuto, nel pensiero occidentale, persino la bandiera di alcune filosofie.
    Il secondo Ottocento ci consegna con Max Stirner le parole forse più celebri di questo imbarazzante modo d’intendersi dell’uomo: «Io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’Unico».[8]
    Fa davvero riflettere questa tentazione che seduce l’uomo di ritenersi misura ultima ed esclusiva di sé; fa riflettere perché contraria ad ogni evidenza, ad ogni buon senso, ma non per questo meno caparbia e pericolosa.
    L’uomo non si avvede di perdere, attraverso questa chiusura in se stesso, quel diritto alla felicità che in qualche modo si trova scritto dentro; non si avvede della menzogna cui si consegna, nel momento in cui vorrebbe azzerare la distanza tra sé e la propria felicità, venendo meno alla sfida della libertà e alla sua strutturale apertura agli altri.
    Vivere allora significa anzitutto guardarsi da questo equivoco mortale, e questo è possibile attraverso un onesto sguardo sulla propria origine e sul proprio destino: entrambi sono sottratti all’arbitrio dell’io che pure li vive, e grazie ad essi ha vita umana.
    Ogni libertà non ha in suo potere il proprio principio e la propria fine: a lei decidere se considerarli espressione di un assedio soffocante e insopportabile d’altri, o se riconoscerli come grembo entro cui la propria libertà da altri è custodita.
    Senza il riconoscimento dell’affidabilità di questo grembo, l’uomo è privo di patria e diviene straniero a se stesso, incapace di abitare la sua stessa vita e dunque di raggiungere la sua felicità.
    Ma se la storia della filosofia mostra come l’intelligenza umana possa smentire anche le evidenze più solari della relazione della libertà ad altri, investendo ingenti risorse intellettuali nel giustificare l’implausibile, allora occorre concludere che queste fondamentali verità dell’uomo sono ragioni del cuore più che sillogismi della ragione.
    Pertanto dovremo dire che la vita è un lungo tirocinio di libertà cui il cuore è chiamato per non cedere ai miraggi dell’egoismo, perché, come avvertono i versi di Rebora:
    Solo l’arca del cuore
    Salverà dal diluvio morale
    Chi non teme se muore
    L’egoismo fatale.[9]

    Dunque?

    Degli enigmi posti al cuore dell’esistenza umana, quello relativo alla libertà, al suo senso e alle sue possibilità è il più affascinante e drammatico; non c’è questione vitale che non vi si riferisca, né pena o speranza che non trovino lì la loro premessa.
    Per quanto però la libertà sia la filigrana della persona, più che una sua dote o qualità, il cuore e l’intelligenza umana vi hanno scorto spesso una notizia cattiva invece che buona per le possibilità dell’esistere.
    E questo perché nulla quanto la libertà pare presentarsi come fenomeno contraddittorio: se la forza dell’emancipazione e l’ebbrezza del protagonismo ne costituiscono l’anima, le forme del vivere entro le quali soltanto può accendersi parlano spesso il linguaggio severo del limite, dell’indigenza, addirittura della costrizione.
    Due soltanto sono allora i modi possibili di abitare quest’enigma: l’uno ne esaspera la tensione, facendo della vita un forsennato divincolarsi da quanto le consente di essere, nel delirio contraddittorio di un’impossibile autopoiesi; l’altro riconosce, quale custodia della libertà, la limitatezza indigente delle sue misure, nelle quali l’uomo, con gratitudine, può riceversi come donato a se stesso.

    NOTE

    1) J.S. MILL, Autobiografia, 2 voll., Carabba, Lanciano 1919, qui II,14.
    2) A. CAMUS, Nozze, in ID. (C. Pastura - S. Perrella ed.), L’estate e altri saggi solari (Tascabili Bompiani 867), Bompiani, Milano 20102, 1-39, qui 26.
    3) «Denn schwer ist zu tragen / Das Unglück, aber schwerer das Glück» (F. HÖLDERLIN, Der Rhein, strofa 14, vv. 10-11, in ID. [E.L. Santner ed.], Hyperion and selected poems [The German Library 22], Continuum International Publishing Group, New York 1990, qui 226).
    4) J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla (La cultura 77), Il Saggiatore, Milano 19914, 738.
    5) J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla…, 719.
    6) «Die Welten fassen’s und sie roll’n dahin, / Und heulen ihren eig’nen Todtensang, / Und wir, wir Affen eines kalten Gottes / Wir hegen noch die Natter üppig warm, / Mit toller Müh’ an voller Liebesbrust, / Daß sie zur Allgestalt hinauf sich dehnt / Von ihrem Gipfel aus uns anzugrinzen!» (K. Marx, Oulanem, 1° atto, 3a scena; consultabile on line all’indirizzo https://www.hs-augsburg.de/~harsch/germanica/Chronologie/19Jh/Marx/mar _gva2.html.
    7) J. MONOD, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea (Oscar Mondadori), Mondadori 1974, 165.
    8) M. STIRNER, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979, 13.
    9) C. REBORA, [Versi] da Poesie sparse e prose liriche 1913-1927, in ID. (G. Mussini – V. Scheiwiller ed.), Le poesie 1913-1957 (Gli elefanti – Poesie), Garzanti 20083, 245.


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