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    Il bisogno di infinito dei giovani



    Verso la GMG /2

    Luis A. Gallo

    (NPG 2011-02-37)


    Merita attenzione il modo estremamente sintetico, ma incisivo, in cui Benedetto XVI descrive l’eterna condizione giovanile: «La gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande». E commenta, rifacendosi alla sua propria esperienza personale: «È parte dell’essere giovane… sentire l’anelito per ciò che è realmente grande». Un modo di dire che i giovani sono assetati di vita, di vita piena, della «vita stessa nella sua vastità e bellezza».

    Il desiderio della vita più grande

    Esprimendosi in questo modo il papa si riallaccia all’esperienza umana più radicale e più universale, quella dell’antitesi vita-morte. Una esperienza che, come è facile constatare, comporta due facce complementari.
    La prima è quella del desiderio di vivere, e di vivere in pienezza, che si porta dentro ogni essere umano, e che costituisce il più profondo e radicale tra gli innumerevoli desideri che egli esperimenta. Ogni desiderio umano, infatti, individuale o collettivo che sia, è una concretizzazione del desiderio di vivere, e di vivere senza ritagli, in pienezza di qualità e di durata. Ad appagarlo vanno indirizzati in definitiva tutti gli sforzi umani, ad ogni livello. Ed è pure esso il motore che muove ogni dinamismo umano, singolo o collettivo. L’essere umano potrebbe venir definito, da questo punto di vista, come un essere radicalmente affamato di vita piena.
    Ma, accanto a questa prima faccia ce n’è un altra di portata non meno universale né meno radicale, l’esperienza della morte. Morte intesa come tutto ciò che in qualunque modo contraddice il desiderio di vivere in pienezza o si oppone ad esso, ciò che non gli permette di esprimersi o di manifestarsi adeguatamente, che lo soffoca, lo ostacola o lo devia.
    Questa seconda componente trova la sua massima e più palpabile espressione nella morte corporale, in cui l’uomo vede venir meno ogni possibilità di soddisfare il più radicale dei suoi desideri. Ma oltre a tale fatto-limite, ci sono innumerevoli altre sue manifestazioni: la fame non saziata, la malattia corporale o psichica, l’insicurezza psicologica, l’angoscia, la solitudine profonda, l’incapacità di mantenere rapporti interpersonali, la mancanza dei beni elementari della vita, l’emarginazione imposta per motivi razziali o religiosi, la schiavitù psicologica o sociologica, la perdita del senso o del gusto della vita, lo sfruttamento subìto, la preclusione all’auto-determinazione, ecc. In una parola, ogni forma di menomazione umana.
    Questa duplice esperienza radicale comporta, quindi, un toccare con mano l’antitesi vita-morte, cioè del loro coesistere eliminandosi a vicenda: dove è presente la vita e in quanto essa è presente, viene eliminata o soppressa la morte e viceversa. Tale antitesi è una realtà concreta ultima, che acquista concretezza prossima in innumerevoli contrapposizioni: sazietà-fame, salute-malattia, sicurezza-insicurezza, serenità-angoscia, comunione-solitudine, gioia-tristezza, senso-nonsenso della vita, benessere-povertà, partecipazione-emarginazione, pace-guerra, libertà-schiavitù ...
    C’è un altro dato di portata universale: in seno a questa antitesi concreta, una e molteplice: ogni essere umano è sempre alla ricerca, in maniera conscia o inconscia, di una vita-senza-morte. Ricerca che si manifesta in svariate forme positive, ma anche in forme negative, come ad esempio nella paura della morte. Questa, che in realtà non è altro che l’altra faccia del desiderio della vita, costituisce la radice ultima di ogni paura umana. Anche in forza di essa vengono messi in movimento i dinamismi dell’uomo, individuali e collettivi. Non ultimo quello dell’aggressività.
    Se si vuole poi dire in che cosa consista concretamente quella vita-senza-morte così universalmente e radicalmente ricercata dagli uomini, si è costretti a confessare che non lo si sa con precisione. Appunto perché è immerso nell’antitesi vita-morte, l’essere umano non può avere l’esperienza di una vita-senza-morte. La sua è sempre un’esperienza di una vita-con-morte, vissuta sotto il segno allo stesso tempo del desiderio della vita piena e delle mille presenze della morte. Vita-senza-morte è quindi un’espressione limite, senza riferimento nell’esperienza reale. Di essa se ne hanno soltanto dei barlumi nei momenti in cui si sperimenta una situazione in qualche misura di pienezza, di realizzazione, di felicità. Momenti d’altronde sempre minacciati di instabilità e fugacità: essi non sono la vita-senza-limiti di qualità e di durata alla quale aspira instancabilmente l’uomo.
    Quanto è stato detto vale per tutti gli uomini e donne indistintamente, ma particolarmente per i giovani, che per ovvi motivi, biologici e psicologici, sono ­– come rileva il papa – in una età «in cui si è alla ricerca della vita più grande». Forse perché più intensamente affamati della «vita stessa nella sua vastità e bellezza», sono anche più fortemente sensibili alla antitesi vita-morte, e la vorrebbero risolta dalla parte della vita.

    Un desiderio incontenibile di Dio

    Per collegare il desiderio della vita più grande con Dio, Benedetto XVI si rifà a una classica asserzione di S. Agostino all’inizio delle sue Confessioni: «Ci hai fatto verso di Te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposi in Te». È come un’eco di ciò che diceva il Salmista nell’A.Testamento: «O Dio, tu sei il mio Dio, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 62,2). Essere stati fatti «verso Dio» significa portarsi dentro, nel più profondo dell’essere, una invincibile tensione verso di Lui che richiede ineluttabilmente di essere soddisfatta.
    Poiché Dio è vita, più ancora poiché è, come dice spesso la Bibbia, «il Vivente», e quindi la Vita in pienezza, desiderare la vita più grande, come è proprio dei giovani, è desiderare Dio. Anche se non lo si sa. In realtà, quindi, ogni desiderio umano è in fondo desiderio di Dio, è sete di Dio. È vero che spesso sono oggetto di desiderio delle realtà che sembrano non avere niente a che fare con Dio, anzi, che alle volte sembrano essere perfino contrarie a Dio, ma ciò avviene solo perché il desiderio della vita più grande sbaglia nell’identificarla: prende per vita ciò che non è tale, e lo fa oggetto di appetenza. Ne resta sedotto e forse anche momentaneamente appagato, ma poi, come dice la Bibbia, si trova con «un pugno di mosche» tra le mani (Sap 15,10).
    I giovani, quindi, proprio perché sono assetati di vita sono assetati di Dio e lo cercano in mille modi diversi, anche quando ne sembrano totalmente indifferenti. Non sanno dare il nome giusto all’oggetto ultimo della loro ricerca, ma in realtà stanno facendo propria, con questo loro desiderare, la supplica del Salmo 27: «Il tuo volto, Signore, io cerco».

    Un Dio non a spese dell’uomo, ma per la pienezza dell’uomo

    Questo Dio che è oggetto del desiderio è il Dio con cui Gesù di Nazareth ha vissuto un rapporto di intensissima intimità filiale e che, contrariamente a ciò per cui l’hanno voluto eliminare i diversi ateismi figli dell’illuminismo, non è un Dio a spese dell’uomo, ma viceversa un Dio «amico della vita» di tutto il creato e in particolare dell’uomo (Sap 11,6).
    Certo, i cosiddetti «maestri del sospetto» hanno reagito con ragione alla proposta di un Dio che veniva spesso presentato nelle prediche, nei catechismi, nelle liturgia, come «l’assurdo nemico della vita dell’uomo» (Nietzsche). Essi, come ricorda il papa, hanno cercato di «eliminare Dio per far vivere l’uomo». Ma in realtà non hanno lottato contro Dio bensì contro una sua contraffazione, contro mulini a vento.
    Non è questo il Dio che annuncia l’autentica fede cristiana, quella che davvero si rifà a Gesù di Nazareth, il suo Iniziatore. Se lui, come attestano ad ogni passo i vangeli, ha dichiarato che la ragione ultima della sua attività era che gli uomini avessero «vita, e vita abbondante» (Gv 10,10), è perché viveva in rapporto con un Dio che chiamava suo Padre e di cui sapeva che la massima preoccupazione era proprio che l’uomo, ogni essere umano, potesse avere vita debordante. Lo fece capire particolarmente attraverso ciò che fece nel nome di questo suo Dio: guarì gli ammalati di ogni tipo di malattia, liberò uomini e donne da condizioni psichiche disumanizzanti, liberò gli esclusi dalla loro emarginazione… Veramente, leggendo i vangeli si ha l’impressione che dove lui passa la morte fugge impaurita. La massima espressione di tale fuga è la sua risurrezione, in cui avviene la vittoria piena e definitiva del Dio della vita sulla morte.
    Il Dio Vivente e Vivificatore, quindi, non ha bisogno dell’annullamento dell’uomo per affermare la sua potenza e la sua gloria, anzi è nella realizzazione piena dell’uomo che egli si compiace e gode. L’aveva ben compreso il grande vescovo martire del II-III secolo S. Ireneo di Lione, quando scriveva: «La gloria di Dio è l’uomo vivente».
    Di questo Dio hanno fame e sete i giovani, che lo cercano a volte come a tentoni, anche se non sempre indovinano la strada per trovarlo. Con Gesù, condotti dalla sua parola e dal suo esempio, essi possono camminare con sicurezza nella via che porta a Lui.


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