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    La «scommessa» sull’educazione: un modo di essere Chiesa



    In margine agli OP /2

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2011-02-22)


    È uscito da qualche mese il documento della Conferenza Episcopale Italiana «Educare alla vita buona del Vangelo», che propone gli «Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020». Preparato a lungo, attraverso una consultazione ecclesiale che ha coinvolto persone e organizzazioni. rappresenta un punto di riferimento prezioso per tutti coloro che, come ha fatto Pietro con lo zoppo che chiedeva l’elemosina alla Porta Bella del Tempio, vogliono proclamare forte che Gesù è l’unico nome in cui possiamo avere la vita, per permettere a tutti di entrare nel tempio «camminando e saltando per la gioia» (At 3,1-10).
    Il documento merita una riflessione attenta da tanti punti di prospettiva. Solo così possiamo coglierne la ricchezza e la funzione programmatica. Io tento una lettura dal punto di vista dei problemi e delle preoccupazioni che stanno a cuore al sottoscritto.

    UN MODO DI ESSERE CHIESA

    La Chiesa del Concilio vive la sua fedeltà al progetto che Gesù le ha affidato riconoscendo che «le gioie e le speranze, le tristezze e i dolori» di ogni persona sono dimensione irrinunciabile del suo essere e del suo ministero (Gaudium et spes 1).
    Questo atteggiamento è decisivo: rappresenta una delle svolte fondamentali del rinnovamento conciliare. Lo sappiamo e lo proclamiamo. Non sempre però riusciamo a tradurlo in prassi quotidiana.
    Le resistenze nascono spesso sulla difficoltà di interpretare adeguatamente queste speranze e il grido che sale dal quotidiano. Qualche volta ci dividiamo sulle risposte da offrire, anche a causa del gioco rigido tra domande e risposte. Per non cadere nella presunzione di offrire risposte a domande non esistenti, ci siamo, infatti, soffermati sulla interpretazione delle domande, sul ritmo con cui ci venivano lanciate e sulle modalità con cui dovevamo accoglierle e interpretarle. E così la forza provocante delle proposte si è smarrita nell’attesa e nella incertezza. L’abbiamo fatto per rispetto e per amore degli interlocutori, amplificando il rischio del silenzio e della attesa rassegnata di occasioni più favorevoli.
    Oggi qualcuno reagisce a questo modo di fare, rivisitando il vecchio modello delle proposte sicure. Ci siamo raffinati dal punto di vista comunicativo e così riusciamo a rendere interessanti anche le risposte che non corrispondono a nessuna attesa reale.
    L’alternativa non sta di certo nel realizzare una specie di divisione del lavoro, che fa spazio consensuale, a tutte le ipotesi, anche le più dissonanti, immaginando che nell’insieme le cose vadano così per il verso giusto. La soggettivizzazione incontrollata, che abbiamo imparato ad accettare come una condizione di sopravvivenza reciproca, attraversa anche il vissuto ecclesiale pratico.
    Ho ricordato questa premessa, di facile constatazione, per giustificare maggiormente l’apprezzamento di fondo sul documento, sul suo spirito e sulle responsabilità che esso lancia. Su questa frontiera il documento ci offre, infatti, una indicazione davvero preziosa, da meditare con attenzione. I nostri vescovi ci consegnano uno stile di constatare l’esistente, di coglierne le sfide e di progettare interventi di trasformazione, che ci riporta all’entusiasmo operativo della «Gaudium et spes». L’abbiamo sperimentato, dopo anni di polemiche, nell’evento della riconsegna del documento di base della catechesi «Il rinnovamento della catechesi». L’abbiamo verificato nell’occasione della promulgazione di altri documenti programmatici importanti. Lo constatiamo con gioia anche nella meditazione di «Educare alla vita buona del Vangelo».
    Possiamo discutere su qualcuna delle indicazioni pratiche, elencare le cose che ci sarebbe piaciuto ritrovare o le valutazioni che potevano eventualmente essere espresse in altro modo… Ma il modo di vivere l’esperienza ecclesiale per la vita e la speranza degli uomini e delle donne di questo nostro tempo, va realmente riconosciuto e accolto.
    Tre ragioni giustificano la mia constatazione e la rilanciano.

    La sfida: emergenza educativa

    Sulla bocca di tutti corrono i giudizi pesanti sulla situazione sociale e culturale che stiamo vivendo. Sarebbe stata fatica sprecata quella di ripetere lamentele, esagerando magari i toni per farsi applaudire dai nostalgici. Il documento ha scelto un’altra prospettiva.
    Il documento si guarda d’attorno; e non poteva fare altrimenti per attivare una riflessione seria di carattere pastorale. Ma lo fa chiedendo a tutti una forte capacità di «discernimento».
    L’invito al discernimento richiede l’attenzione disponibile alla realtà, per non smarrire nella sua analisi nessun frammento di essa. Sollecita però, con la stessa intensità, una disponibile collocazione personale sulla realtà. Non cerca il consenso, ascoltando solo coloro che ci danno ragione o giustificando le reazioni solo perché sono messe sotto giudizio le nostre scelte previe.
    Legge la realtà in quello sguardo penetrante che sa cogliere ciò che inquieta e ciò che spalanca verso il futuro, producendo sofferti germi di innovazione. Va alle cause e spalanca l’attenzione sui possibili esiti. Soprattutto coglie e valuta l’esistente a partire da un atto di fiducia sull’uomo, sulla storia, sul mistero di un progetto di speranza che è più forte delle delusioni e delle degenerazioni. Produce esiti di speranza anche quando deve constatare i segni di disperazione e si lascia inquietare dalla vita di ogni persona, come la cosa che conta di più.
    Lo dice molto bene l’affermazione che conclude la parte introduttiva:
    «Mentre, dunque, avvertiamo le difficoltà nel processo di trasmissione dei valori alle giovani generazioni e di formazione permanente degli adulti, conserviamo la speranza, sapendo di essere chiamati a sostenere un compito arduo ed entusiasmante: riconoscere nei segni dei tempi le tracce dell’azione dello Spirito, che apre orizzonti impensati, suggerisce e mette a disposizione strumenti nuovi per rilanciare con coraggio il servizio educativo» (5).
    In questa opera di discernimento viene lanciata la sfida: l’emergenza educativa. Una citazione aiuta a comprendere le ragioni di un apprezzamento molto positivo delle affermazioni del documento:
    Considerando le trasformazioni avvenute nella società, alcuni aspetti, rilevanti dal punto di vista antropologico, influiscono in modo particolare sul processo educativo: l’eclissi del senso di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo tra le generazioni, la separazione tra intelligenza e affettività. Si tratta di nodi critici che vanno compresi e affrontati senza paura, accettando la sfida di trasformarli in altrettante opportunità educative. Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza. Ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento su se stessi e il narcisismo, il desiderio insaziabile di possesso e di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività e dall’impegno di vita, l’ansia e la paura, l’incapacità di sperare, il diffondersi dell’infelicità e della depressione. Ciò si riflette anche nello smarrimento del significato autentico dell’educare e della sua insopprimibile necessità. Il mito dell’uomo «che si fa da sé» finisce con il separare la persona dalle proprie radici e dagli altri, rendendola alla fine poco amante anche di se stessa e della vita. […] Siamo così condotti alle radici dell’«emergenza educativa», il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un «io» completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa «io» nella relazione con il «tu» e con il «noi» (9).

    La rilettura ermeneutica dell’evento di Gesù

    Fa parte di un modo sapiente e credente di realizzare il discernimento l’affermazione coraggiosa del mistero grande in cui siamo immersi e il riconoscimento della sua presenza operosa nella realtà. Non serve a chiudere gli occhi e nemmeno abilita a giudizi implacabili, quasi fosse un termine di confronto che giustifica le valutazioni più impietose. Ci aiuta, al contrario, a chiamare per nome i problemi, quelli veri, misurando la distanza tra l’esistente e il progetto che condividiamo. E rincuora e rende operosa la nostra speranza: ci propone una prospettiva di futuro, capace di trasformare il presente, e ci rassicura sull’esito.
    Il documento si muove in questa logica, offrendoci il confronto con Gesù, il maestro, che ha insegnato a fatti e a parole uno stile di esistenza secondo il progetto di Dio.
    Di fronte ai nodi che oggi caratterizzano la sfida educativa, ci mettiamo ancora una volta alla scuola di Gesù. Lo facciamo con grande fiducia, sapendo che egli è il «Maestro buono» (Mc 10,17), che ha parlato e ha agito, mostrando nella vita il suo insegnamento. Nel gesto della lavanda dei piedi dei suoi discepoli, nell’ora in cui li amò sino alla fine, egli si presenta ancora come colui che ci educa con la sua stessa vita (cf Gv 13,14) (16).
    Il titolo che ho scelto per questo paragrafo vuole ricordare la constatazione. Aggiunge però una prospettiva che rende originale e propositivo il documento stesso.
    Rileggendo con attenzione il testo, oltre le righe citate, si avverte con gioia che la figura di Gesù prende la misura concreta dei problemi educativi e culturali che caratterizzano la nostra stagione. Lui, il volto di Dio nelle pieghe della storia di un popolo di duemila anni fa, ritorna vivo nel nostro contesto. Ha qualcosa da dirci, proprio mentre assume i nostri problemi, in una rinnovata incarnazione, per confortarci nel discernimento e per impegnarci nelle necessarie scelte trasformatrici.
    Rilevo questa modalità che mi ha particolarmente colpito, perché rappresenta un modo di essere la Chiesa dei discepoli di Gesù nelle pieghe della storia.
    In questi anni, affascinati dall’urgenza di caricarci veramente delle gioie e delle sofferenze di tutti, nel nome del Signore Gesù, abbiamo progressivamente abbandonato l’astrattezza di quel modo di fare… che accettava di cantare i canti del Signore anche in terra straniera. Qualche volta però la reazione ha prodotto eccessi e riduzioni, fino alla «lettura politica del Vangelo», con il rischio di trovarci rassicurati negli obiettivi e nei metodi, deducendo prassi e progetti proprio quando, al contrario, ce li dovevamo costruire nella fatica e nella solidarietà.
    Suggerisco di rileggere da quest’ottica il capitolo secondo del documento «Gesù, il Maestro». Un’attenzione speciale meritano i numeri 17 e 18, in cui viene indicato un itinerario evangelico di lettura della realtà e di azione trasformatrice. Le dimensioni fondamentali sono ricordate con decisione e con quella concretezza evocativa che ci chiama decisamente ad intervenire:
    La compassione: «Lo smarrimento della folla suscita in Gesù una ‘compassione’, che non è un’emozione superficiale, ma è lo stesso sentire con cui Dio, nella vicenda dell’esodo, ha ascoltato il gemito del suo popolo e se ne è preso cura con vigore e tenerezza. Il bisogno delle persone interpella costantemente Gesù, che risponde ogni volta manifestando l’amore compassionevole del Padre».
    L’insegnamento: «Potrebbe sorgere spontanea la domanda se non sarebbe stato più opportuno provvedere subito al nutrimento di tanta gente. Gesù, però, è cosciente di essere anzitutto il Maestro: per questo, con l’autorevolezza che viene dal Padre, comincia con l’indicare le vie della vita autentica. Egli rivela il mondo nuovo voluto da Dio e chiama a esserne parte, sollecitando ciascuno a cooperare alla sua edificazione nella pace. Il popolo che egli pasce è invitato ad ascoltare la sua parola, che conduce e fa riposare su pascoli erbosi (cf Sal 23,2). Gesù non smetterà di insegnare, parlando al cuore, neppure di fronte all’incomprensione della folla e dei suoi stessi discepoli».
    L’intervento trasformatore: «Il dono della parola si completa in quello del pane: ‘spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero’. L’ascolto della parola costituisce la premessa indispensabile della condivisione».
    La condivisione totale: «Nel gesto della moltiplicazione dei pani e dei pesci è condensata la vita intera di Gesù che si dona per amore, per dare pienezza di vita. Neppure il suo corpo ha tenuto per sé: ‘prendete’, ‘mangiate’. L’insegnamento del Maestro trova compimento nel dono della sua esistenza».

    La scommessa per la trasformazione: un modello di educazione

    La terza ragione parte da una lettura trasversale di tutto il documento, per coglierne la sua ragione d’essere e per rilanciarne la proposta.
    Come ho già ricordato, il documento fa propria la lettura preoccupata della realtà sociale e culturale attuale:
    «Come pastori della Chiesa il nostro pensiero va pure a tutte le altre resistenze, provocate dal peccato che distoglie e indebolisce la volontà dell’uomo e lo induce ad azioni malvagie. Cogliamo in tutta la loro gravità le parole del Papa, quando avverte che “oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini ‘senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita”» (5).
    Ai nostri Vescovi «sta a cuore la proposta esplicita e integrale della fede, posta al centro della missione che la Chiesa ha ricevuto dal Signore. Questa fede vogliamo annunciare, senza alcuna imposizione, testimoniando con gioia la bellezza del dono ricevuto, consapevoli che porta frutto solo quando è accolto nella libertà» (4). Non possono però ignorare tutto ciò che attraversa l’esistenza quotidiana e la inquieta come una minaccia per la vita stessa e la speranza. Lo affermano per fedeltà al Vangelo di Gesù di cui sono testimoni.
    Si impegnano quindi a ricercare, in una profonda solidarietà responsabile, come e dove intervenire per consolidare una qualità nuova di vita e una speranza affidabile.
    Gli interventi possibili sono molti. È facile elencare quali siano oggi questi problemi. Anche i rimedi sono sulla bocca di tutti: controlli più raffinati, la pretesa di avere il diritto al «primo colpo», rigidità delle leggi e chiarezza di intenti, riforme e recupero dell’autorevolezza, prospettive economiche e proposte religiose e culturali forti… Possiamo arrivare a trovarci d’accordo sul fatto che al centro dei problemi sta la vita (la sua qualità) e la speranza (la sua sicurezza in prospettiva di futuro). Con quali strumenti possiamo intervenire?
    Il documento, con coraggio e realismo, rilancia la scelta dell’educazione e la scommessa sulla sua efficacia trasformatrice. Si tratta di una indicazione coraggiosa e per molti versi innovativa: suggerisce una via alternativa, praticabile, capace di assicurare solidarietà reale. Il documento fa un’altra scelta, esprimendo la sua fiducia nei confronti della educazione. La fatica di educare è giustificata dalla scommessa che l’educazione è una forza di trasformazione formidabile, che attraversa, verifica, contesta e risolve tutti gli altri rimedi. Lo dichiara in modo deciso il documento: «Con umiltà e con vivo senso dei nostri limiti, ma pure con evangelica parresía e confidenza nel tesoro che il Signore ha posto nelle nostre mani, ci esortiamo a vicenda a metterci a servizio del Vangelo per l’educazione integrale di quanti vorranno accogliere il dono che abbiamo ricevuto e che offriamo a tutti» (6).
    Non è sufficiente parlare di educazione in modo generico. Lo fanno tanti, da prospettive e con preoccupazioni diverse. La nostra è una stagione in cui le espressioni troppo utilizzate sono facilmente minacciate di equivocità sostanziale.

    Cos’è educazione

    Il documento indica, in molti contesti, cosa intenda per educazione. Tocca al lettore appassionato la fatica di organizzare i preziosi frammenti per ritagliare una figura di educazione, concreta e verificabile. Aiuto questa ricerca con due citazioni.
    La prima viene dalla parte introduttiva del documento. Essa anticipa linee che ritorneranno poi nello scorrere delle pagine.
    «Educare comporta la preoccupazione che siano formate in ciascuno l’intelligenza, la volontà e la capacità di amare, perché ogni individuo abbia il coraggio di decisioni definitive» (5).
    La seconda è ripresa dal paragrafo 25, uno dei più belli e più originali. Il documento ritrova nel dialogo tra Gesù e i discepoli che Giovanni aveva orientato verso Gesù «alcuni tratti essenziali della relazione educativa tra Gesù e i suoi discepoli, fondata sull’atteggiamento di amore di Gesù e vissuta nella fedeltà di chi accetta di stare con lui (cf Mc 3,14) e di mettersi alla sua sequela».
    Lo riporto alla lettera:
    «‘Che cosa cercate?’ (1,38): suscitare e riconoscere un desiderio. La domanda di Gesù è una prima chiamata che incoraggia a interrogarsi sul significato autentico della propria ricerca. È la domanda che Gesù rivolge a chiunque desideri stabilire un rapporto con lui: è una ‘pro-vocazione’ a chiarire a se stessi cosa si stia cercando davvero nella vita, a discernere ciò di cui si sente la mancanza, a scoprire cosa stia realmente a cuore. Dalla domanda traspare l’atteggiamento educativo di Gesù: egli è il Maestro che fa appello alla libertà e a ciò che di più autentico abita nel cuore, facendone emergere il desiderio inespresso. In risposta, i due discepoli gli domandano a loro volta: ‘Maestro, dove dimori?’. Mostrano di essere affascinati dalla persona di Gesù, interessati a lui e alla bellezza della sua proposta di vita. Prende avvio, così, una relazione profonda e stabile con Gesù, racchiusa nel verbo ‘dimorare’.
    Venite e vedrete’ (1,39): il coraggio della proposta. Dopo una successione di domande, giunge la proposta. Gesù rivolge un invito esplicito (‘venite’), a cui associa una promessa (‘vedrete’). Ci mostra, così, che per stabilire un rapporto educativo occorre un incontro che susciti una relazione personale: non si tratta di trasmettere nozioni astratte, ma di offrire un’esperienza da condividere. I due discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo Rabbì, cioè maestro: è un chiaro segnale della loro intenzione di entrare in relazione con qualcuno che possa guidarli e faccia fiorire la vita.
    Rimasero con lui’ (1,39): accettare la sfida. Accettando l’invito di Gesù, i discepoli si mettono in gioco decidendo d’investire tutto se stessi nella sua proposta. Dall’esempio di Gesù apprendiamo che la relazione educativa esige pazienza, gradualità, reciprocità distesa nel tempo. Non è fatta di esperienze occasionali e di gratificazioni istantanee. Ha bisogno di stabilità, progettualità coraggiosa, impegno duraturo.
    Signore, da chi andremo?’ (6,68): perseverare nell’impresa. L’itinerario educativo dei discepoli di Gesù ci conduce a Cafarnao (cf 6,1-71). Dopo aver ascoltato le sue parole esigenti, molti si erano scoraggiati e non erano più disposti a seguirlo. Il loro abbandono suscita la reazione di Gesù, che pone ai Dodici una domanda sferzante: ‘Volete andarvene anche voi?’ (6, 67). I discepoli misurano così il prezzo della scelta. La relazione con Gesù non può continuare per inerzia. Ha, invece, bisogno di una rinnovata decisione, come dichiara pubblicamente Pietro: ‘Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio’ (6, 68-69). Egli solo ha parole che rendono la vita degna di essere vissuta.
    Signore, tu lavi i piedi a me?’ (13,6): accettare di essere amato. Nel Cenacolo, prima della festa di Pasqua, la relazione di Gesù con i discepoli vive un nuovo e decisivo passaggio quando questi apre il suo animo compiendo il gesto della lavanda dei piedi (cf 13,2-20). L’evangelista prepara il lettore al sorprendente racconto con un’espressione che ricapitola tutta la vita di Gesù: ‘Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine’ (13,1). La lavanda dei piedi è un gesto rivoluzionario che rovescia i rapporti abituali tra maestro e discepoli, tra padrone e servi. Il rifiuto di Pietro di farsi lavare i piedi lascia intuire l’incomprensione del discepolo davanti a un’iniziativa così sconvolgente e lontana dalle sue aspettative. Pietro fa fatica ad accettare di essere in debito: è arduo lasciarsi amare, credere in un Dio che si propone non come padrone, ma come servitore della vita. È difficile ricevere un dono con animo libero: nell’atto di essere «lavato» da Cristo, Pietro intuisce di dovergli tutto.
    Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri’ (13,34): vivere la relazione nell’amore. Prima di congedarsi dai suoi, Gesù consegna loro il suo testamento. Tra le sue parole spicca il comandamento dell’amore fraterno (cf 13,34-35; 15,9-11). L’amore è il compimento della relazione, il fine di tutto il cammino. Il rapporto tra maestro e discepolo non ha niente a che vedere con la dipendenza servile: si esprime nella libertà del dono. Tre sono le sue caratteristiche: l’estrema dedizione (‘Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici’: 15,13); la familiarità confidente (‘tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi’: 15,15); la scelta libera e gratuita (‘Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi’: 15,16). Il frutto di questa esperienza è la missione che Gesù affida ai suoi discepoli: ‘Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri’ (13,35; cf 15,12-17)».

    PROPOSTE CONCRETE

    Il documento ha un preciso obiettivo: impegnare tutta la comunità ecclesiale italiana al servizio della maturazione delle persone e del cambio sociale attraverso l’educazione.
    Non possiamo attenderci, né da questo né da altri documenti, quelle indicazioni operative che competono ad ogni singola istituzione: solo restituendo la titolarità ultima ai soggetti operanti sul territorio l’attenzione al reale viene rispettata e accolta come principio ermeneutico. Il documento propone però i punti di riferimento per una comunità ecclesiale che crede all’educazione come qualità della sua presenza trasformatrice nella vita e nella storia di tutti, attraverso il suggerimento di linee generali di azione, da comprendere, approfondire, realizzare.
    Questo è prezioso, soprattutto in una situazione segnata da pluralismo non piccolo anche su questa frontiera. Una presa di posizione concreta è urgente, per evitare che la ricchezza innegabile della diversità diventi genericità o contrapposizione.
    Tra le tante priorità suggerite dal documento sottolineo alcune di quelle che mi hanno trovato più sensibile. Ciascuno potrà ripetere per sé la stessa operazione. Troverà così tante indicazioni preziose da approfondire e rilanciare.

    Dalla parte dei giovani

    Meritano un’attenzione speciale i paragrafi che fanno riferimento ai giovani. Contengono preoccupazioni e suggerimenti molto caratteristici:
    «Ai giovani vogliamo dedicare un’attenzione particolare. Molti di loro manifestano un profondo disagio di fronte a una vita priva di valori e di ideali. Tutto diventa provvisorio e sempre revocabile. Ciò causa sofferenza interiore, solitudine, chiusura narcisistica oppure omologazione al gruppo, paura del futuro e può condurre a un esercizio sfrenato della libertà. A fronte di tali situazioni, è presente nei giovani una grande sete di significato, di verità e di amore. Da questa domanda, che talvolta rimane inespressa, può muovere il processo educativo. Nei modi e nei tempi opportuni, diversi e misteriosi per ciascuno, essi possono scoprire che solo Dio placa fino in fondo questa sete» (32).
    Non c’è solo questa affermazione di principio. Si va al concreto, in direzione di speranza. Sarebbe infatti davvero bello che tutti gli educatori e i pastori condividessero fattivamente una dichiarazione come quella che segue:
    «I giovani sono una risorsa preziosa per il rinnovamento della Chiesa e della società. Resi protagonisti del proprio cammino, orientati e guidati a un esercizio corresponsabile della libertà, possono davvero sospingere la storia verso un futuro di speranza» (32).
    Il documento coglie molto bene lo stato di disagio diffuso, invitando gli educatori a superare i giudizi affrettati e quelli eccessivamente legati ai fenomeni appariscenti. Vengono anche messi in risalto i segni positivi presenti in essi, quei segnali profondi che possono sfociare in negativo nei limiti denunciati e, come capita spesso, possono spalancare verso grandi manifestazioni di speranza.
    Interessante è anche la prospettiva con cui si parla dei giovani. Il richiamo è all’essere giovane in questo tempo, senza attardarsi in distinzioni che potrebbero inquinare un poco lo sguardo verso l’insieme. Compete poi ai singoli educatori e alle comunità educative la indispensabile opera di diversificazione e di selezione.

    Un’educazione «facendo fare esperienza»

    Il titolo del paragrafo sottolinea soprattutto la modalità in cui il documento suggerisce di realizzare i processi educativi. Con espressioni, utilizzate frequentemente nelle nostre riflessioni, rilancio una scelta molto presente nel documento: fare educazione, facendo fare esperienze concrete e capaci di incidere.
    Dice il documento:
    «Particolarmente importanti risultano per i giovani le esperienze di condivisione nei gruppi parrocchiali, nelle associazioni e nei movimenti, nel volontariato, nel servizio in ambito sociale e nei territori di missione. In esse imparano a stimarsi non solo per quello che fanno, ma soprattutto per quello che sono. Spesso tali esperienze si rivelano decisive per l’elaborazione del proprio orientamento vocazionale, così da poter rispondere con coraggio e fiducia alle chiamate esigenti dell’esistenza cristiana: il matrimonio e la famiglia, il sacerdozio ministeriale, le varie forme di consacrazione, la missione ad gentes, l’impegno nella professione, nella cultura e nella politica» (32).
    L’orientamento è motivato su una constatazione che fa eco alle scelte caratteristiche del Convegno ecclesiale di Verona:
    «L’opera educativa si gioca sempre all’interno delle relazioni fondamentali dell’esistenza; è efficace nella misura in cui incontra la persona, nell’insieme delle sue esperienze» (33).
    È facile constatare quanto sia preziosa l’indicazione. Suggerisce una scelta di campo che potrebbe davvero orientare l’invito a giocare le molte risorse di cui dispone ancora la comunità ecclesiale attuale in una direzione concreta, innovativa, incidente.
    Sulla urgenza dell’educazione, infatti, oggi l’accordo è ampio. Ci si divide però sui modelli di educazione. Qualche volta, lo scontro si fa acceso, proprio sulla urgenza condivisa di recuperare un impegno che sembra trascurato.
    Qualcuno crede decisamente alle proposte forti, sicure, impegnative. Vuole reagire ai lunghi giorni di silenzio, recuperando – aggiornato e raffinato – quel modo di fare che innegabilmente ha offerto risultati preziosi. La lettura attenta (e trasversale) del documento – forse per la sensibilità di chi scrive – sembra suggerire un altro percorso, proprio per assicurare quell’obiettivo che sta a cuore e che è fuori discussione. Possiamo consolidare la maturazione delle persone e assicurare la disponibilità a scelte coraggiose – sembra dire il documento – solo se offriamo a queste persone la possibilità di fare esperienze forti e significative (si veda la prima citazione riportata poco sopra) e se queste esperienze percorrono veramente le dimensioni centrali dell’esistenza (come ricorda la seconda citazione, riferendo il convegno di Verona).
    L’annotazione è specifica per i giovani. Ed è per questa ragione che la rilancio. Ci vuole poco però a condividere l’opportunità di allargare la prospettiva a tutte le fasce di età. Si tratta di una scelta teologica e antropologica e non solo metodologica: va sottolineato con forza, per non svuotarne la portata.
    Certamente, si ripropone l’interrogativo di base: cosa significa veramente «fare esperienza»? In una stagione di soggettivizzazione e di conseguente esperienzialismo diffuso, la domanda è tutt’altro che retorica.
    Il documento non dà una risposta esplicita. L’affida, credo, agli addetti ai lavori… nello spirito delle tante indicazioni operative che esso non manca di rilanciare. Per i lettori di «Note di pastorale giovanile» la risposta è facile… visto l’abbondante riflessione prodotta su questo tema. La richiamo, perché solo nella qualità matura del «fare esperienza» ritrova senso l’insistenza dell’educare «facendo fare esperienza».

    La scelta dell’educazione anche nei processi di educazione alla fede

    Anche su questo tema, tanto rilevante nella pastorale giovanile, il documento suggerisce riflessioni e rilancia preoccupazioni molto interessanti.
    Lo sottolineo perché non mancano i nostalgici che vorrebbero accelerare i ritmi per tornare a modalità propositive forti e sicure. Nello stesso tempo, il documento contesta con decisione non solo i ritmi propositivi eccessivamente lenti e rassegnati, ma anche prende posizione sulla necessità di portare sempre all’incontro personale con il Signore Gesù, esito conclusivo e non pattuibile di ogni buon processo educativo orientato alla maturazione piena della persona.
    La scelta di un rapporto speciale, di guadagno reciproco, tra l’opzione per l’educazione e l’educazione esplicita della fede e la sua celebrazione sacramentale, va compresa secondo due dimensioni complementari, molto presenti nel documento.

    L’educazione per aprire verso il mistero di Dio

    Prima di tutto viene affermato ripetutamente che una buona educazione è condizione indispensabile per ogni esperienza cristiana matura. Non solo l’intervento educativo può aprire all’incontro personale con Gesù il Signore, ma ne assicura, normalmente, la possibilità e la qualità.
    Non si tratta evidentemente di reintrodurre quei processi di strumentalizzazione che l’avventura conciliare ha ormai decisamente bandito dalla prassi pastorale. L’impegno è per l’educazione: «la vita buona del Vangelo» (come dice il titolo del documento e come mi riprometto di comprendere nelle conclusioni della mia riflessione). È chiara e coraggiosa la convinzione che compito irrinunciabile della comunità ecclesiale, in situazione di emergenza educativa, è la ricostruzione di un tessuto di comunicazione di senso e di speranza attraverso lo scambio educativo tra le generazioni.
    Nello stesso tempo però il documento fa risaltare ripetutamente che la pienezza di senso e il consolidamento di una speranza che sa guardare al futuro richiedono l’incontro personale e l’affidamento al mistero dell’esistenza e di Dio, in Gesù. È irrinunciabile la responsabilità di andare «oltre» l’educazione.
    Ma è possibile procedere oltre solo quando è stato consolidato sul piano della qualità della vita quella capacità di spalancare l’esistenza verso il mistero di un oltre che ha ormai un nome e una precisa e concreta realizzazione.
    La fiducia nell’educazione e l’invito ad assumerne tutta la responsabilità sono servizio all’umanità di ogni uomo e sono, nello stesso tempo e con la stessa intensità, condizione preziosa per un annuncio del Vangelo che sappia rispondere alle attese più autentiche e le sappia suscitare in ogni persona distratta e disincantata.
    Riporto qualche citazione a conforto di questa riflessione:
    «‘Anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile’». La sua sorgente è Cristo risuscitato da morte. Dalla fede in lui nasce una grande speranza per l’uomo, per la sua vita, per la sua capacità di amare. In questo noi individuiamo il contributo specifico che dalla visione cristiana giunge all’educazione, perché “dall’essere ‘di’ Gesù deriva il profilo di un cristiano capace di offrire speranza, teso a dare un di più di umanità alla storia e pronto a mettere con umiltà se stesso e i propri progetti sotto il giudizio di una verità e di una promessa che supera ogni attesa umana” (5)».
    […] «La proposta educativa della comunità cristiana, il cui obiettivo fondamentale è promuovere lo sviluppo della persona nella sua totalità, in quanto soggetto in relazione, secondo la grandezza della vocazione dell’uomo e la presenza in lui di un germe divino. ‘La vera formazione consiste nello sviluppo armonioso di tutte le capacità dell’uomo e della sua vocazione personale, in accordo ai principi fondamentali del Vangelo e in considerazione del suo fine ultimo, nonché del bene della collettività umana di cui l’uomo è membro e nella quale è chiamato a dare il suo apporto con cristiana responsabilità’ Così la persona diventa capace di cooperare al bene comune e di vivere quella fraternità universale che corrisponde alla sua vocazione. […] Impegnandosi nell’educazione, la Chiesa si pone in fecondo rapporto con la cultura e le scienze, suscitando responsabilità e passione e valorizzando tutto ciò che incontra di buono e di vero. La fede, infatti, è radice di pienezza umana, amica della libertà, dell’intelligenza e dell’amore. Caratterizzata dalla fiducia nella ragione, l’educazione cristiana contribuisce alla crescita del corpo sociale e si offre come patrimonio per tutti, finalizzato al perseguimento del bene comune. Le virtù umane e quelle cristiane, infatti, non appartengono ad ambiti separati. Gli atteggiamenti virtuosi della vita crescono insieme, contribuiscono a far maturare la persona e a svilupparne la libertà, determinano la sua capacità di abitare la terra, di lavorare, gioire e amare, ne assecondano l’anelito a raggiungere la somiglianza con il sommo bene, che è Dio Amore» (15).
    «Si mostra così la rilevanza antropologica dell’educazione cristiana e si favorisce una considerazione unitaria della persona nell’azione pastorale. Attraverso questa multiforme attenzione educativa, potrà “emergere soprattutto quel grande ‘sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo”. In questo modo, la comunità dei credenti testimonia l’amore profondo della Chiesa per l’uomo e per il suo futuro e l’atteggiamento di servizio che la anima» (33).

    L’educazione come verifica dell’azione pastorale

    A proposito del rapporto tra educazione e maturazione ecclesiale della fede, il documento insiste su un aspetto, centrale davvero.
    Nella scia di tutta la tradizione ecclesiale più attenta, il documento riconosce il «potenziale educativo straordinario» (39) dei gesti e degli eventi che fanno la prassi concreta esplicita della comunità ecclesiale. Sono raccolti attorno alla istituzione parrocchiale «vicina al vissuto delle persone e agli ambienti di vita, [che] rappresenta la comunità educante più completa in ordine alla fede». Interessante è l’elenco di questi eventi: «l’evangelizzazione e la catechesi, la liturgia e la preghiera, la vita di comunione nella carità» (39).
    Mi piace sottolineare anche una seconda indicazione, meno esplicita della precedente, che merita però un’attenzione speciale, proprio per la sua rilevanza nell’azione pastorale quotidiana. La colgo tra le righe di una affermazione solenne e impegnativa:
    «Solo una comunità accogliente e dialogante può trovare le vie per instaurare rapporti di amicizia e offrire risposte alla sete di Dio che è presente nel cuore di ogni uomo. Oggi si impone la ricerca di nuovi linguaggi, non autoreferenziali e arricchiti dalle acquisizioni di quanti operano nell’ambito della comunicazione, della cultura e dell’arte» (41).
    Riorganizzo la proposta in una prospettiva più generale.
    Il problema teorico da cui scaturisce quello pratico può essere espresso con un interrogativo: che rapporto esiste tra atto pastorale e atto educativo?
    Questi due atti possiedono una loro specificità, formale e sostanziale.
    L’educazione riguarda l’ambito della produzione e della comunicazione della cultura, attraverso l’esercizio progressivo di una razionalità critica, in vista della personale crescita in umanità. Ha come preoccupazione sostanziale e specifica la maturazione della persona nella società, attraverso la proposta di valori, il confronto con modelli e scelte di vita, la gestione equilibrata degli interessi personali e dei rapporti intersoggettivi.
    L’evangelizzazione invece ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, del Vangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza. La comunità ecclesiale assolve questo compito utilizzando una struttura comunicativa tutta speciale. La testimonianza della fede vissuta e confessata è l’unico strumento linguistico adatto per esprimere il mistero di Dio. Infatti, l’annuncio di salvezza si fa parola umana per essere parola per l’uomo (DV 13); essa però non è mai in grado di obiettivare l’evento misterioso di cui è manifestazione. Per questo nella parola umana l’evento è presente e assente nello stesso tempo, presente nella povertà del segno e assente perché la potenza dell’evento non è riducibile alla mediazione del suo segno.
    Sono diverse le strutture logiche e le procedure comunicative, ma sono innegabili i rapporti e le interferenze.
    È facile trovarsi d’accordo sulla necessità di rispettare la discontinuità tra i due momenti, proprio mentre viene affermata e riconosciuta una certa intensa continuità.
    Il documento non offre un approfondimento specifico al riguardo. Lo possiamo però fare noi, collocandoci idealmente tra le diverse riflessioni presenti oggi nella comunità ecclesiale. Ci è utile e urgente, per giustificare e qualificare un modo di fare che altrimenti resterebbe generico e poco motivato.
    Ci provo.
    La prospettiva di fondo resta sempre l’evento dell’Incarnazione. L’orizzonte è fornito da DV 13: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo».
    Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre «mistero» santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità di ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però «in parole umane»: assumono cioè una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle modalità educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico.
    Se il mistero ineffabile di Dio è incontrabile solo nel suo visibile (quel visibile che l’incarna, l’esprime, lo rende vicino e comunicabile), tutto ciò che permette al visibile di diventare più trasparente, rispetto al mistero che si porta dentro, favorisce l’accoglienza del mistero stesso. Si giunge perciò al «contenuto» solo passando attraverso il «segno»: il dialogo immediato e diretto di Dio che chiama alla salvezza è normalmente servito e condizionato dalle mediazioni pastorali in cui questo dialogo si esprime.
    Ho speso qualche parola in più, rilanciando riflessioni che il lettore della rivista ha già ripetutamente incontrato, perché sono convinto che su questa questione possiamo giocare (in positivo o in negativo) la nostra fiducia sulla educazione e sulla sua importanza anche nell’ambito della pastorale.
    La questione del linguaggio (tante volte ricordata: si veda il già citato n° 41), alla fine incrocia queste questioni fondamentali. Chi crede all’educazione, si preoccupa di produrre sistemi simbolici eloquenti nel concreto delle persone; attiva procedure che siano capaci di assicurare coinvolgimento; riconosce l’esigenza irrinunciabile della gradualità, progressività, adattamento e capacità di provocazione… in una parola assume le istanze più mature dei modelli educativi anche nell’ambito di quel mondo, non deducibile dai processi educativi stessi, che è l’esperienza di fede, la sua maturazione e la sua celebrazione.
    Considero tutto questo una delle provocazioni più urgenti che il documento ci consegna.

    Una chiamata a responsabilità in logica educativa

    I capitoli 4 e 5 del documento che stiamo analizzando, offrono un quadro molto stimolante di seria programmazione educativa.
    Come ho già ricordato, la discesa verso l’operatività quotidiana compete alle singole comunità ecclesiale. Il documento non intende sostituirsi a questa irrinunciabile fatica. Ci dà però i riferimenti orientativi e operativi per realizzarla bene.
    L’entusiasmo di chi si sente coinvolto e la faciloneria di chi parte troppo deciso, trovano in queste belle pagine un punto di verifica.
    La novità è costituita dall’elenco dei soggetti impegnati (parrocchia, famiglia, società, istituzioni scolastiche, strumenti e processi di comunicazione) e dall’invito a progettare nuovi «luoghi significativi» (reciprocità tra famiglia, comunità ecclesiale e società, promozione di nuove figure educative, la formazione teologica, la formazione permanente, l’attivazione di confronti sulle urgenze educative e sulla loro soluzione).
    Riporto alla lettera quello che si dice a proposito della vocazione educativa delle istituzioni religiose di speciale consacrazione:
    «Consideriamo urgente puntare nel corso del decennio su alcune priorità, al fine di dare impulso e forza al compito educativo delle nostre comunità.
    […]
    Il rilancio della vocazione educativa degli istituti di vita consacrata, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali. Si tratta di riproporre la tradizione educativa di realtà che hanno dato molto alla formazione di sacerdoti, religiosi e laici. Bisogna perciò che le parrocchie e gli altri soggetti ecclesiali sviluppino una pastorale integrata e missionaria, in particolare negli ambiti di frontiera dell’educazione» (55).
    Finalmente viene riconosciuto il grande servizio ecclesiale sul terreno dell’educazione svolto, nel corso dei secoli, dalle Congregazioni religiose dal carisma educativo.

    EDUCAZIONE «PER LA VITA BUONA»

    Il documento propone un titolo davvero felice. Colpisce e certamente produrrà risonanze.
    Il rischio, purtroppo facile, di lasciar scorrere l’indicazione o di ripeterla in modo superficiale, giustifica – almeno a me – l’opportunità di concludere questa riflessione, riprendendo, in modo esplicito, quello che il titolo potrebbe (o dovrebbe…) evocare.
    I nostri Vescovi impegnano tutta la comunità ecclesiale italiana, per il prossimo decennio, nell’educazione. Lo fanno dando un compito che, nella formulazione essenziale del titolo del documento, risuona come un imperativo: educare. In questo verbo sono chiamate a raccolta tutte le risorse (personali, istituzionali e strutturali) per l’educazione. Tutto il documento giustifica l’urgenza e qualifica la scelta.
    Con questo compito, si collocano nel cuore dei problemi che le persone, amanti della vita e del suo Signore, avvertono inderogabili oggi. Prendono posizione, interpretando le radici di questi problemi. Suggeriscono con forza (nella espressione sintetica del verbo all’infinito «educare») la via privilegiata di presenza e di trasformazione.
    Nella compagnia, oggi davvero molto allargata, sulla fiducia nei confronti dell’educazione, essi si ritagliano una specificità originale. Non allontana dalla compagnia, ma la qualifica e la concretizza, nella necessità di superare le convergenze rassegnate. Viene infatti indicato l’esito del processo: la vita buona del Vangelo.
    L’espressione è bella ed è molto concreta nella doppia risonanza, complementare e qualificante. L’educazione, scelta come risorsa privilegiata, è tutta orientata a costruire una «vita buona». Quello che sta a cuore è decisamente la restituzione ad ogni persona di una qualità «buona» di esistenza quotidiana. Non sta a cuore direttamente l’integrazione, più o meno rassegnata, nei quadri culturali e istituzionali esistenti. E nemmeno il consolidamento di quel senso di appartenenza, anche ecclesiale, che mille fattori stanno oggi mettendo in crisi. Si preoccupano di me, di te, di tutti, chiamati quasi per nome, per sostenere il nostro desiderio di senso e di speranza: di quella qualità di vita che sogniamo e la cui privazione sta conducendo troppe persone alla disperazione, al disincanto, alla rassegnazione consumistica.
    Affermare la ricerca di una «vita buona» è una grande esperienza di compagnia su quello che conta davvero. Sorge spontanea la domanda: quale vita è «buona» davvero?
    Il documento propone una risposta che non fa spazio ad incertezze e ad equivoci, anche se esige una ricerca tutta spalancata verso una concretezza maggiore: «secondo il Vangelo».
    Mi sembra interessante il metodo. Fa la differenza e propone un modello concreto di relazione educativa.
    Abbiamo l’abitudine di definire i termini ambigui prima di procedere. Ci piace dividere, per evitare equivoci. Non ci piacciono le ammucchiate rinunciatarie. Partiamo con l’elenco degli «avversari» per procedere con maggiore sicurezza e tranquillità.
    Il titolo del documento parte invece dalla compagnia: ai nostri vescovi sta a cuore la vita, qualcosa che davvero sta a cuore a tutti, prima di ogni differenza. Camminando assieme, avvertiamo però la necessità di chiarire, passo dopo passo, ogni scelta, per motivare la decisione di continuare il cammino in compagnia o di dividere progressivamente i percorsi. La compagnia fa chiarezza attorno al «Vangelo». Si afferma che la vita buona è quella che il Vangelo ci ispira e ci consegna. Sappiamo però bene che la fedeltà al Vangelo qualifica la compagnia perché ci consegna la verità dell’uomo e dei suoi progetti.
    Ho detto perché mi piace moltissimo il titolo scelto per il documento. Concludo con un compito: per me e per coloro che ne condividono l’urgenza.
    Affidare «la vita buona del Vangelo» come obiettivo ed esito del processo di educazione, richiede oggi una fatica ulteriore, non piccola: immaginare dimensioni e frammenti di questa «vita buona».
    La tradizione educativa religiosa sapeva molto bene quale vita era buona. Ha diffuso modelli e raccomandazioni a tutti i livelli. I santi, per esempio, sono i vissuti di questa vita buona.
    Oggi molto di questa ricchezza è entrata in crisi, attraversata inesorabilmente dai sospetti antropologici e teologici. Non basta di certo la «pars destruens». Ne abbiamo realizzata tanta, forse troppa… senza ricostruire adeguatamente nel confronto tra i modelli antropologici dominanti e le esigenze irrinunciabili del Vangelo.
    Ho l’impressione che il documento si sbilanci poco a questo proposito. Indica la meta ma dà pochi contributi per comprenderla sul filo della quotidianità e sulla misura delle diverse generazioni. Si veda, a questo proposito tutto il paragrafo 54, in cui, attraverso un richiamo esplicito al convegno ecclesiale di Verona, sono suggerite alcune dimensioni concrete di «vita buona». Da quelle indicazioni alla prassi quotidiana… di strada da percorrere ce n’è ancora molta. La dobbiamo fare assieme.
    Il documento… si fida di noi. Ci dà dei compiti. Tiriamoci su le maniche e cerchiamo di realizzarli. Assieme, in quel circolo interdisciplinare che è oggi condizione irrinunciabile per ottenere buoni risultati.


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