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    Incontro con il Cristo e ortoprassi cristiana



    Giorgio Gozzelino

    (NPG 1977-1-39)


    La prassi cristiana si distingue da ogni altra e si specifica per significati e contenuti propri in forza del suo riferimento al Cristo. Se così non fosse, non si chiamerebbe cristiana, ma avrebbe qualche altro nome. I suoi caratteri non possono essere intesi se non come conseguenza diretta dell'incontro con Gesù di Nazareth. Dunque lo studio della prassi cristiana rimanda necessaria mente alla analisi di tale incontro. Essa deve essere posta a fondamento di qualunque discorso sull'agire cristiano.

    LA TESTIMONIANZA PRIVILEGIATA DEI PRIMI DISCEPOLI

    Trattandosi di un fatto permanente, la riflessione sull'incontro con il Cristo può essere fatta a partire dagli incontri del passato come da quelli di oggi; può avere cioè molti punti di questa testimonianza rifacendoci ai testi del NT partenza. Non tutti però posseggono la stessa importanza e normatività. Si ritrova qui, dal punto di vista della esperienza dei Cristo, il giuoco del rapporto delle scritture con il seguito della tradizione della Chiesa della quale esse sono l'avvio. Per quanto tale seguito sia legittimo ed indispensabile, l'avvio resta la norma normante e non normata che precomanda tutto il resto. Nel nostro caso, ciò significa che l'esperienza privilegiata del significato e della autenticità di un vero incontro con Gesù è, resta, e resterà sempre quella apostolica. Il migliore punto di partenza di una considerazione adeguata dell'incontro cristiano si trova nella testimonianza dei primi discepoli.

    I CARATTERI DEL VERO INCONTRO CON GESÙ

    Prestiamo attenzione dunque ai contenuti di nella loro globalità e ad alcuni passi più direttamente attinenti al tema: e non tarderemo a trovare alcune direttive molto interessanti.

    La progressività

    L'incontro apostolico con il Cristo non assume mai le fattezze di un evento che si compie di colpo al primo approccio ma di un fatto che inaugura una storia e si sviluppa in modo progressivo.
    C'è sempre un avvio, un seguito ed un epilogo. Conosciamo tutti la problematica dibattuta nella celebre querelle sul Gesù della storia ed il Cristo della fede. Questa disputa, per poco che voglia dire, certifica una volta per tutte la differenza di comprensione del Cristo realizzata dai discepoli prima e dopo la sua morte e risurrezione. L'incontro con Gesù, inaugurato dalla comunione di vita con la sua missione di itinerante, si totalizza soltanto con la Pasqua: solo allora i discepoli aprono definitivamente gli occhi su di lui. Ebbene, così avviene pure per ogni cristiano: la scoperta di Gesù - o, come oggi si usa dire, l'esperienza di disclosure del cristianesimo[1] - è ancora sempre da fare, e va fatta alla luce del mistero pasquale. Come ha scritto Tertulliano: fiunt, non nascuntur christiani; non si nasce cristiani, bisogna diventarlo. Questo, tra l'altro, ci assicura che è giusto continuare a riflettere, come stiamo facendo noi, sul tema dell'incontro con il Cristo.

    Un incontro vivo

    L'incontro apostolico con Gesù costituisce prima di tutto ed immediatamente un incontro con un annuncio di vita che cambia la vita; un incontro con un messaggio che introduce una prassi nuova e rivoluzionaria; un incontro vivo con la proclamazione del regno di Dio.

    a) Per quanto la nostra attenzione si concentri - e giustamente - sulla figura di Gesù, non va mai dimenticato, pena la riduzione della sua reale fisionomia, che nella sua predicazione Gesù di Nazareth non ha propriamente annunciato se stesso ma invece quella realtà complessa che i sinottici chiamano il regno di Dio o dei cieli. Come scrive egregiamente E. Schillebeeckx: «Punto focale del messaggio di Gesù è un eu-aggelion, cioè, in contrasto con Giovanni il Battista, una lieta notizia da parte di Dio: "il regno di Dio è vicino". In non meno di cinque complessi tradizionali lo ritroviamo letteralmente: nella tradizione della comunità Q, nella tra dizione di Mc, nella fonte propria di Mt, nella fonte propria di Lc, e nella tradizione di Gv, e inoltre nella letteratura epistolare neotestamentaria. Il messaggio centrale di Gesù è il regno di Dio, con l'accento sia sul venire che sulla vicinanza. In altri termini, «attesa finale» qui attesa della imminente sovranità di Dio E per Gesù ciò significa la vicinanza dell'incondizionata volontà di salvezza di Dio, di misericordia e grazia che vengono incontro all'uomo e in esse altresì l'opposizione a tutte le forme di male: sofferenza e peccato»[2].
    Detto in altri termini, più semplici e diretti. Per che cosa si impegnò Gesù? Che cosa volle veramente?... Gesù non annuncia se stesso. Non sta in primo piano. Non viene a dire: «Io sono il Figlio di Dio, credete in me». Non si comporta come quei predicatori ambulanti e sedicenti uomini di Dio, ancora noti a Celso, che s: presentavano con un presuntuoso preambolo:
    «Io sono Dio o il Figlio di Dio o lo Spirito Santo. Sono venuto perché la fine del mondo ì alle porte... Beato chi adesso mi adora!». A contrario: la persona di Gesù retrocede dietro la causa che egli sostiene. E qual è questa causai Con una sola frase si potrebbe rispondere: h causa di Gesù è la causa di Dio nel mondo.. Regno di Dio. È il concetto designato dalla parola che sta al centro del suo annuncio.[3] Certo, un poco per volta si chiarisce l'unità in dissolubile di Gesù con il regno; del messaggere con il messaggio; e la figura di Gesù acquista un rilievo crescente. Gli evangelisti ne sono orma perfettamente consci. Il vangelo di Marco, ad esempio, si apre con le parole: «inizio del vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1,1), nelle quali i genitivo è assieme soggettivo ed oggettivo: il lieto annuncio proclamato da Gesù riguarda Gesù stesso.[4] Questo processo di chiarificazione si totalizza con Giovanni nel quale avviene l'identificazione tra Gesù e la parola di Dio interno al regno, tra contenente e contenuto, tra Cristo ed il Logos, e perciò si esplicita ciò che viene annunciato virtualmente da tutto il NT.[5] Tuttavia, i due termini restano distinti. Il regno e Gesù sono una cosa sola, indissociabile; però il regno è il regno di Dio, che è altro da Gesù. Gesù è verità e vita, certo, ossia appunto parte essenziale del regno: ma come via, ossia come rimando ad un altro da sé più definitivo di lui. Un altro che è il Padre, lo Jahvè dell'AT.

    b) Il regno che Gesù proclama consiste fondamentalmente in una prassi. Più precisamente, in una prassi di Dio da cui consegue una corrispondente prassi dell'uomo, entrambe incarnate in lui.
    Riascoltiamo le parole decisive con le quali Marco riassume i contenuti della predicazione di Gesù:
    «Gesù venne nella Galilea e predicava l'evangelo di Dio dicendo: il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,14-15).
    Agli uomini è chiesto di convertirsi; è chiesta la metanoia, che è un mutamento radicale della consapevolezza e della condotta comuni. È così che si crede al vangelo. E si tratta appunto di credere al vangelo: si tratta cioè di una prassi che deriva da una iniziativa di Dio. Il regno di Dio è la voglia di Dio - giunta al suo ultimo stadio - di dare all'uomo la pienezza di quanto l'uomo aspetta dalla vita: la felicità, la gioia, la beatitudine perfetta.[6] Questo stadio si chiama Gesù. Perciò Gesù è la prassi di Dio fatta carne che chiede e consente alla carne di farsi prassi di Dio. In altri termini, l'incontro con Gesù si giuoca sulla prassi; anzi, su quella prassi.

    c) Questo significa che l'incontro apostolico con Gesù non è stato lo sterile entusiasmo di un gruppo di ammiratori che applaudono il loro idolo da lontano; né si è risolto in un consenso accademico di idee e di giudizi; ma è consistito nella assunzione senza riserve, e quindi nel coinvolgimento totale, del suo progetto. Tale fu quell'incontro: tale deve essere ogni incontro autentico con il Cristo.
    Non che i discepoli mancassero di entusiasmo. Come fa capire Gesù stesso nella disputa sul digiuno (Mc 2,18-22), è certo che i discepoli già ben prima della pasqua erano affascinati da lui.
    Se si è talmente affascinati da qualcuno, nella sua presenza viva non ci si mette a digiunare
    piangenti ed a comportarsi da asceti. Colpisce il fatto che in questa pericope sul digiuno non si dica nemmeno che Gesù stesso non digiuna: si tratta di un rimprovero fatto ai discepoli (v. 18). Gesù difende il comportamento loro e la giustifica dicendo: che volete, sentono la salvezza e la felicità![7]
    Che poi con la risurrezione, il loro entusiasmo, spezzato dalla croce, si sia ricostituito, maturando in una consapevolezza profonda ed invincibile, lo dimostrano il constituirsi stesso della Chiesa, la sua predicazione, il sorgere della letteratura neotestamentaria: in una parola, l'originarsi del cristianesimo. Senza entusiasmo, è indiscutibile, non ci sarebbe nulla: è per questo che molti cristiani di oggi, di cristiano, appunto, non hanno più niente. Ma i discepoli sanno che si tratta non di entusiasmo di sentimento, sterile e non coinvolto, ma dell'entusiasmo della sequela, del discepolo, della imitazione. Perciò annunciano con forza:
    «Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).
    «Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato.» (1 Gv 2,6). E sottolineano concordemente, nei racconti delle apparizioni, che il loro carattere primario sta nell'invio e nel conferimento di una missione:[8] la missione di testimoniare il regno incarnato nella ortoprassi di Gesù mediante il suo prolungamento nella loro ortoprassi concreta.

    L'ORTODOSSIA DELLA PRASSI DEL REGNO

    Non si incontra veramente Gesù, dunque, se non rinnegando la propria prassi consueta, per prendere la prassi di Gesù, cioè la croce, e seguirlo (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23).
    E si tratta precisamente di assumere non una prassi qualunque ma la sua.

    Il Regno ha contenuti propri

    Il regno di Dio ha dei contenuti specifici propri. Non consiste in un invito anodino ed indifferenziato alla azione, bensì nella indicazione di un preciso itinerario di avvicinamento a Dio che ha una sua concreta topografia, con strade giuste e vie sbagliate, direzioni corrette e scelte errate, reali scorciatoie o lunghi e viziosi giri a vuoto. Questo implica che il regno di Dio costituisca una ortoprassi che si regola su di una precisa e rigorosa ortodossia.
    A sentire certi cristiani di oggi, che si auto- definiscono profeti con una facilità assolutamente al di sotto di ogni sospetto, nel cristianesimo la prassi sarebbe tutto: la fede si ridurrebbe alla spinta ad agire in favore dell'uomo, il resto proverrebbe interamente dalle ideologie (marxista o capitalista che siano) e dalle scienze umane. Il cristiano assomiglierebbe ad un sacco destinato solo a riempirsi. Che cosa sia o debba essere il contenuto non importerebbe, o perlomeno non verrebbe deciso dalla fede. Essa infatti fornirebbe solo il contenente.
    Va detto con forza che questa concezione della prassi del regno contraddice i dati espliciti della predicazione del regno: secondo la quale la salvezza sta nel camminare non in una qualsiasi direzione, ma in quella del Cristo, standogli dietro. Se per ideologia si intende una interpretazione globale dell'uomo e del mondo che suggerisce linee generali di azione, il regno di Dio ed il cristianesimo, pur essendo ben più che questo, sono e saranno sempre anche delle ideologie. Certo, le applicazioni concrete nel settore dello sviluppo profano vengono unicamente dalle scienze umane e positive: ma non esiste soltanto lo sviluppo profano; né si danno unicamente delle applicazioni concrete, le quali infatti suppongono principii generali di orientamento multidirezionali. A monte di ogni agire umano, e dunque anche dell'agire del regno, sta un progetto che possiede contenuti propri.

    La signoria di Dio

    Ora, il primo e più importante tra questi contenuti del regno è la causa di Dio.
    L'abbiamo già sentito dalle parole di H. Küng e ne citiamo altre che sviluppano lo stesso pensiero:
    «È di moda oggi mettere in risalto che a Gesù sta totalmente ed assolutamente a cuore l'uomo. Ed è una verità indiscutibile. Ma a Gesù sta totalmente ed assolutamente a cuore l'uomo perché innanzitutto gli sta totalmente e assolutamente a cuore Dio... Per Gesù l'amore è essenzialmente amore di Dio e nello stesso tempo dell'uomo... Amore di Dio e amore dell'uomo non sono tuttavia per Gesù la stessa cosa, in quanto, naturalmente, Dio e uomo non sono per lui la stessa cosa. A fare le spese di una umanizzazione di Dio e di una divinizzazione dell'uomo non è mai Dio ma l'uomo. Dio resta Dio. Dio resta l'unico Signore del mondo e dell'uomo... È indubbio che per Gesù, proprio nell'interesse dell'uomo, Dio detiene il primato assoluto».[9] La prassi del regno è autentica solo se pone Dio - e, si badi, il Dio vero, quale si è rivelato nel volto di Cristo - come sorgente e come fine od intento di ogni sua manifestazione. Senza questa ortodossia, essa sfigura se stessa. Perciò è incompatibile con ogni forma di ateismo; e non si regge senza i criteri di discernimento del vero volto di Dio posti in funzione dal Cristo: che sono le scritture e la tradizione viva della Chiesa.

    La salvezza dell'uomo

    Nella causa di Dio però l'intento è la salvezza dell'uomo. Dio infatti è il Dio degli uomini, il loro salvatore. Di conseguenza, il credere nel regno e partecipare ai suoi compiti va inteso, come mettono in risalto gli studi più recenti, come un accedere alla certezza della salvezza finale promessa per il futuro, malgrado e contro ogni apparente smentita proveniente dalla esperienza del mondo e da quella sociale e politica;[10] come un continuare a vivere la verità, l'amore, il perdono, la non violenza, la bontà, in un mondo di odio, malgrado la ricorrente e crescente tentazione di inutilità e fallimento che accompagnano da sempre questi atteggiamenti cristiani. I quali sono, per l'appunto, atteggiamenti cristiani. Sono cioè contenuti propri della vera azione cristiana: ortodossia dell'ortoprassi salvifica del regno.

    Quale salvezza?

    Si deve peraltro tener presente lo spessore della salvezza umana voluta dalla causa di Dio. Se Gesù ha sconcertato profondamente le autorità religiose e politiche del suo tempo, e se la fede continua a creare uomini talmente originali da costituire - per dirla con i padri della Chiesa antica - una specie di tertium genus, un mondo a sé, tra romani e barbari, è anche perché l'uno e l'altra raggiungono l'uomo ad un livello paradossale: quello che essendo il più profondo e definitivo, riesce a risultare diverso ed indipendente dal livello della soluzione dei problemi immediati dell'uomo, ed assieme intimo, influente e decisivo su di esso più di qualunque altra cosa. L'intento proprio del regno, e perciò dell'agire specificamente cristiano, è la instaurazione della comunione più piena - ossia filiale - con Dio: è un intento, cioè, direttamente religioso e non già profano. Con esso Dio soddisfa, come si è detto, l'aspirazione finale dell'uomo: l'instaurazione di un mondo più forte di ogni male, più forte perfino della morte. Grazie ad esso, l'utopia - o realtà senza luogo - diventa finalmente topia, acquista un luogo.[11] Ma pur prendendo dell'uomo soltanto la testa - e cioè la sua dimensione definitiva - il regno innalza e promuove tutto il resto, tronco, braccia e gambe - ossia pure la sua dimensione provvisoria. Dal riferimento diretto alla costruzione della città celeste trascendente si allarga ad un riferimento indiretto alla costruzione della città terrestre immanente. In tal modo abbraccia, in una unità che non spezza né uniformizza, che non divide né confonde, il cielo e la terra, l'oggi ed il domani, l'eterno ed il temporaneo, il definitivo ed il provvisorio: in una parola il riferimento religioso e quello profano.
    Ripensiamo, per documentare queste importantissime osservazioni che troncano alla radice ogni tentativo di contrapposizione schizofrenica nella fede della dimensione verticale a quella orizzontale, a due punti particolari della esperienza apostolica: il significato dei miracoli di Gesù; e la dialettica del presente e del futuro nella predicazione del regno.
    Per il primo riportiamo un buon testo di J. Blank che scrive:
    «I miracoli riferiti di Gesù non vogliono essere altro che illustrazioni significative, concrete e tipiche, della salvezza predicata da Gesù. Essi ci insegnano che, secondo Gesù e la Chiesa primitiva, la salvezza non fu intesa solamente come salvezza dell'anima ma come salvezza di tutto l'uomo. Dio vuole anche la salvezza corporale dell'uomo, vuole tutta la sua salute, il suo bene completo, e lo vuole decisamente in tutte le dimensioni umane... Con le sue azioni significative, Gesù non ha tolto tutto il male che vi è nel mondo. Ma egli ha chiaramente mostrato una direzione, quella della fede nella salvezza».[12]
    Quanto alla seconda, ricordiamo come la proclamazione del regno di Dio superi sia l'apocalittica, preoccupata solo di cose future ed incurante del presente, sia l'escatologismo esasperato reclinato sul solo presente, senza uno sguardo a ciò che deve ancora venire. Alla prima essa dice: il futuro non può essere isolato a spese del presente; non c'è solo attesa ma già disposizione attiva al trascendente che è in atto ora; non si deve andare dal presente al futuro, bensì dal futuro al presente per sfruttare il presente sulla misura del futuro; il regno è possesso escatologico, è caparra; esso parla del «dopo» per illuminare sull'«adesso». Al secondo soggiunge: il presente non può essere reso asettico a spese del futuro; perché non c'è solo l'adesso, ma nell'adesso nasce l'oltre adesso, il futuro. Il regno annunciato da Gesù come vicino è promessa prolettica, anticipazione parziale di una totalità a venire che esso inaugura nel più fitto oscuramento. Come prolessi, il regno valuta immensamente il presente. Come promessa lo dischiude sul futuro. Essendo entrambe le cose, armonizza entrambe le direzioni.

    La specificità dell'agire cristiano

    L'analisi dell'incontro con il Cristo sperimentato dai primi discepoli ci conduce così ad alcune conclusioni molto preziose. Cominciamo col metterne in rilievo due che si riferiscono a problemi oggi assai sentiti e dibattuti: la realtà di una autentica specificità dell'agire cristiano; e la circolarità della fede come ortodossia e come ortoprassi.

    Motivazioni o contenuti?

    L'agire cristiano possiede una propria specificità. Lo attestano, come abbiamo visto, le scritture; e non si dà autore cristiano che, in assoluto, ne dubiti.
    Però: si tratta di una specificità limitata alle motivazioni, o si estende anche ai contenuti? Qui le opinioni si dividono nettamente e costituiscono la questione, oggi molto dibattuta, della «specificità della morale cristiana». Riformulata in termini di raffronto con le etiche non cristiane, la domanda suona così: la morale cristiana possiede dei contenuti propri rispetto alla morale umana naturale, oppure usufruisce soltanto di motivazioni ed intenzioni ulteriori e distinte? Se accettiamo la discussa terminologia di J. Fuchs,[13] che distingue tra l'elemento morale trascendentale - il piano delle motivazioni ed intenzioni - e l'elemento morale categoriale - il piano dei valori concreti e delle particolari norme morali - avremo una terza enunciazione: che cosa possiede di specificamente cristiano la morale cristiana? soltanto il trascendentale od anche, in parte od in tutto, il categoriale?
    Desumiamo la nostra risposta, che è anche quella di numerosi autori,[14] dalla precedente analisi dei caratteri dell'incontro cristiano apostolico, dandole risalto precisamente in quanto parte integrante del nostro discorso sulla orto- prassi. Il regno di Dio non ha solo intenzioni e motivazioni proprie ma anche contenuti specifici originali. Dunque la morale cristiana è cristiana non solo sul piano del trascendentale ma anche su quello categoriale. Tale originalità non è assoluta: in verità, il mondo introdotto dal regno non è tanto un altro mondo, distinto dal nostro, quanto piuttosto il nostro mondo diventato altro. Quindi la morale cristiana assume tutto ciò che la morale naturale possiede di autenticamente umano. Ma assieme la purifica e la supera. Stabilisce con essa cioè un rapporto simile a quello che lega il NT all'AT. Come il primo non si riduce al secondo e lo supera per contenuti propri ulteriori ai suoi, così la morale cristiana trascende la morale naturale sia per intenzioni che per contenuti. Come però il NT non potrebbe essere se stesso senza l'AT, e perciò rimanda incessantemente ad esso, così la morale cristiana si integra costantemente all'etica naturale e chiarisce se stessa rifacendosi ad essa. Sicché lo statuto della vita dei cristiani risulta di tale fattura che, come si legge nella splendida lettera di Diogneto, del principio del III sec., per essi «ogni terra straniera è una patria, ed ogni patria una terra straniera».[15]

    La specificità cristiana

    Quali siano in concreto gli apporti specifici della morale cristiana non è facile a dirsi, tanto più che si tratta, come si è detto, di materia tuttora vivamente dibattuta. Ricordiamo tre dati primari la cui specificità cristiana ben difficilmente potrà essere contestata.
    - L'amore che costituisce la vera causa di Dio e salva l'uomo non è un amore qualunque, ma l'amore gratuito: cioè l'amore - ripudio dell'egoismo e dedizione al prossimo - che chiede la risposta altrui e però non si condiziona o si proporziona ad essa; e stabilisce con ciò una apertura di intensità unica in direzione dell'illimitato e dello sconfinato. Dice egregiamente il Küng:
    «La superiorità di Gesù non si evidenzia nella singola proposizione, là dove sussiste la possibilità di frequenti paralleli, ma in quello che è un insieme davvero inconfondibile. Il programma "Amate i vostri nemici" appartiene a Gesù e caratterizza quel suo amore del prossimo che realmente a questo punto non conosce più limiti».[16]
    - L'amore gratuito non è un valore qualunque, bensì il valore assoluto, identico alla natura intima e più profonda di Dio. Di conseguenza non può essere inventato o prodotto dall'uomo ma soltanto ricevuto; e ricevuto dalle mani di chi possiede la pienezza della divinità, Gesù, vero figlio unigenito del Padre.
    - L'amore umano gratuito rappresenta, in quanto riproduzione realizzata, per dono di grazia, della identità stessa di Dio, non una riuscita umana qualsiasi ma assolutamente la più grande possibile, superiore ad ogni speranza, aspirazione, possibilità e persino immaginazione, naturali: ossia una riuscita soprannaturale.
    Sintetizzando i tre aspetti in una unica formula diremo: lo specifico della prassi cristiana sta nell'amore gratuito, cristiano e soprannaturale.

    LA DIALETTICA DELLA ORTODOSSIA E DELLA ORTOPRASSI

    Oggi, anche per l'influsso crescente della ideologia marxista, si discute molto sulla centralità della prassi nella esistenza cristiana e sul suo rapporto con la retta dottrina. Alcuni accentuano a tal punto la sua importanza da considerarla quasi come l'unica componente della identità cristiana. E svalutano pesantemente, di converso, la dottrina: incoraggiati in ciò dalla tendenza dominante nella mentalità pragmatica del mondo secolare. Altri si accontentano di difendere una sua prevalenza sulla teoria, sia dal punto di vista della genesi della verità che da quello della sua verifica. Altri ancora sostengono invece una priorità della dottrina.[17]
    La nostra analisi dell'incontro dei primi discepoli con il Cristo ci consente, pur nella sua schematicità, di intravedere come questa questione rasenti il ciglio rovinoso del fosso degli pseudoproblemi. La dottrina senza l'azione non può essere cristiana perché il contenuto del cristianesimo è il regno, ossia non una teoria nuova ma un mondo diverso costruito dall'uomo e donato da Dio. L'azione senza dottrina non può essere cristiana perché quando una azione non è consapevole di sé, delle proprie giustificazioni e delle proprie mete, non riesce neppure ad essere umana; e poi perché il regno non consiste, come si è detto, nell'avvento di una prassi qualsiasi ma di un agire dai contorni taglienti, precisi e specifici. La dottrina cristiana non sussiste dunque senza la vita. La vita cristiana senza dottrina non è più umana né cristiana. Non ci pare ragionevole dire che l'una sia più importante dell'altra o viceversa, perché la dicitura in causa tende a conferire alla componente alla quale si applica uno statuto di autonomia asettica. Neppure parleremo di priorità genetica della prima o della seconda, in quanto ciò sembra separare quello che, pur nella distinzione, va mantenuto fermamente unito. In realtà non esiste che una cosa, l'esistenza cristiana: la quale è prassi consapevole e consapevolezza di prassi, assieme contemporaneamente ed indissolubilmente.

    L'INCONTRO CON IL CRISTO E LA CHIESA

    Nel nostro discorso abbiamo parlato finora del soggetto dell'incontro con Gesù senza chiarire da vicino quale sia la sua vera identità. Qualche lettore potrà forse pensare allora che il soggetto sia solamente il singolo credente e niente altro. E invece il rimando al NT e le conseguenze che ne sono derivate, mostrano che il vero attore della esperienza di disvelamento di Gesù, ben più e ben prima che nel singolo, va individuato nella comunità credente: fatta, certo, di singoli credenti, ma di singoli che arrivano all'incontro soltanto in e grazie alla loro appartenenza alla totalità. Non esiste vero incontro con Gesù che non sia, cioè, incontro con la Chiesa, quale sua mediazione e quale suo esito. L'ortoprassi cristiana autentica si qualifica necessariamente come ortoprassi ecclesiale.
    Ripensiamo per un istante alla dialettica della dottrina con la prassi che abbiamo appena illustrata. Se i due elementi sono indispensabili, e se è indispensabile che siano sempre interni l'uno all'altro, il movimento dalla prassi alla dottrina non può disgiungersi mai da un contemporaneo movimento dalla dottrina alla prassi; e viceversa. Dottrina e prassi stanno assieme come la verticale della contemplazione e l'orizzontale della azione, che si congiungono a croce: l'integrità della vita cristiana, e dunque la sua verità, si trovano sempre nel cuore di una croce. Ma in quale soggetto, per quanto dotato e capace, può compiersi il miracolo di un incastro come questo che esige la contemporaneità dei due movimenti? Non può essere l'individuo ma solo la comunità: nella quale infatti alcuni hanno il carisma del primo elemento, altri quello del secondo; sicché entrambi sono presenti. Nella comunione reciproca dei credenti, fatta di confronto, di verifica, di umiltà, di gratitudine, l'unità conficca faticosamente il legno della ortodossia su quello della ortoprassi, il legno della ortoprassi su quello della ortodossia: e la verità dell'una e dell'altra viene finalmente raggiunta.
    La nostra scelta di partenza è stata quella di un riferimento alla esperienza dei primi discepoli giudicata privilegiata e migliore di ogni altra. È importante rendersi conto che questo riferimento sarebbe stato necessario anche qualora gli avessimo preferito un qualunque altro punto di partenza, ad esempio l'esperienza di un Francesco di Assisi, o del concilio Vaticano II. Con la risurrezione infatti, Gesù ha cessato di appartenere alla storia ed è entrato definitivamente nella metastoria. E per quanto questo congedo ed ingresso non siano premesse di distanza dalla storia bensì al contrario condizioni di una possibilità senza confini di agire in essa, egli ormai vive nel mondo senza più essere del mondo; mentre noi, viceversa, siamo e restiamo interamente del mondo e nella storia e non possiamo incontrare nessuno se non nella realtà di queste coordinate. Allora, come imbatterci veramente in Gesù, o, perlomeno, come verificare la fondatezza o meno dei nostri supposti incontri con lui, se non rifacendoci a quel primo segmento della sua esistenza nella quale egli fu integralmente storia? E come rifarci ad esso, se non mediante i «testimoni», la chiesa primitiva e la sua esperienza, espressa nelle scritture e nella tradizione vivente: esperienza che si perpetua, sempre a partire da quel primo momento, come e perché la presenza storica di Gesù si perpetua nella sua signoria metastorica di risuscitato? Non esiste altro luogo cosciente ed esplicito dell'incontro attuale con il Cristo, e quindi della ortoprassi da esso generato, che la Chiesa confessante. Non è possibile dire sì alla prassi di Cristo senza dire sì all'annuncio ed alla verifica della Chiesa.
    Né, del resto, si dà, in un vero incontro con il Signore, un esito che sia più fondamentale del costituirsi della Chiesa. Oggi non è raro trovare autori, anche cattolici, che risfoderano con compiacenza la pungente battuta di A. Loisy: «Gesù ha annunciato il regno di Dio, ed è venuta la Chiesa», per proclamare una profonda dissociazione tra regno e Chiesa, che emargina la Chiesa e la nega come esito dell'opera di Gesù. Certo, il rapporto tra i due non è davvero quello di una identità, e neppure quello di una continuità senza un immenso salto qualitativo.[18] Ma se il regno è vicino e già presente in Gesù, non potrà essere distante od assente nei discepoli: i quali infatti sono discepoli proprio in quanto recepiscono il mistero che Gesù annuncia ed inaugura. Ed i discepoli di Gesù sono precisamente la Chiesa, comunità di quelli che lo seguono e credono nel suo nome. Ancora una volta, e da un diverso punto di vista, l'adesione a Gesù ci rimanda alla Chiesa: la prassi cristiana cioè, si riconosce prassi vissuta nella Chiesa e dalla Chiesa che genera la Chiesa.

    L'INCONTRO CON IL CRISTO E LA CROCE

    Nello svolgersi delle nostre riflessioni è tornata più volte una parola amara, che il mondo esorcizza sempre più volentieri: la parola croce. Non poteva succedere altrimenti: dal momento che, come ha recentemente ricordato con singolare efficacia un teologo protestante, i cristiani sono i seguaci di un Dio crocifisso.[19] La croce è una dimensione dell'agire cristiano di tale portata e significanza che non potremmo concludere senza consacrarle un momento di attenzione particolare.
    La predicazione del regno di Dio è come una parola d'onore data da Dio alla cancellazione di tutto il male del mondo ed alla introduzione dell'uomo in una vita veramente degna di lui e di uomini che siano e si professino figli suoi. Il suo centro consiste nell'annuncio di una risurrezione universale, ossia di una vittoria definitiva della vita sulla morte. Tale predicazione perciò viene detta vangelo, buona novella di gioia e di felicità.
    Ma il regno è regno di Dio. La causa è causa di Dio. La forza traente della storia come storia della salvezza proviene da Dio. Il regno cioè si fonda e stabilisce innanzitutto e primariamente sul mistero trascendente, inscrutabile e vertiginoso di Dio stesso: sulla sua immensa diversità ed alterità; sulla sua santità, intesa in senso biblico, dunque sulla autenticità del suo essere, di fronte all'uomo ed al mondo, il tutto davanti al quasi nulla, che è qualcosa solo grazie a lui. E questo comporta inevitabilmente ed insuperabilmente:
    - che il regno si regoli su di una logica che all'uomo non totalmente familiarizzato con Dio apparirà strana, incomprensibile, quanto meno irreale, quando non ambigua e pericolosa: la logica del perdono incessante e dell'amore senza condizioni;
    - che il regno proceda costantemente con un andamento strano ed irritante: che sia cioè opera anche dell'uomo e dipendente da lui, e tuttavia non verificabile od estrapolabile, come qualunque altra realtà umana, dal fluire degli eventi; giacché l'energia motrice che la garantisce è per sua essenza metastorica ed inverificabile, perlomeno nel modo delle energie umane;
    - che il regno si imbatta infallibilmente in esiti stravaganti e paradossali, più atti a servire da controtestimonianza che da prova: in esiti apparentemente sempre di sconfitta, come la morte di Gesù sul Golgota sotto i colpi delle autorità romane e giudaiche; o come l'eclissi del cristianesimo sul calvario della civiltà occidentale, sotto la sferza dei maestri del dubbio e della critica di Feuerbach alla religione. Da qualunque parte lo si guardi, il regno dice novità, futuro, inedito, sorpresa, diversità: dunque croce, la croce appunto dell'inaspettato e dello sconcertante. I giudei non l'hanno sopportata precisamente perché non hanno voluto rinunciare alla rassicurante familiarità di ciò che attendevano.
    Quando viene il regno di Dio, secondo la concezione giudaica tutto il mondo deve cambiare, lo si deve poter constatare anche esteriormente. Ma la risposta delle parabole è diversa: no, non è affatto così! La venuta del regno di Dio ha ben altro inizio.[20]
    I cristiani sono quelli che, al contrario, la accettano. Perciò sono posti inesorabilmente sotto il segno di una croce: anzi, proprio di questa croce. Come ha scritto acutamente D. Bonhoeffer: «La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma il dolore che dipende dal fatto di essere cristiani».[21]
    Il regno inoltre consiste in una prassi:
    - la quale riproduce e prolunga la prassi stessa di un Dio che si disvela come onnipotenza di amore, ossia come potere di donarsi tutto;
    - la quale pone la parola di Dio al di sopra della legge del denaro e del pane per farla regola assoluta di vita;
    - la quale è cattolica, ossia si apre a tutti accettando tutti come sono, senza riserve mentali e con la sola volontà di promuovere ciò che in essi è autentico, nella sua diversità spesso pungente, e nel rischio permanente, fin troppo reale, di una continua incomprensione.
    Cose tutte che costringono chi le pratica a crocifiggere se stesso ed a lasciarsi crocifiggere dagli altri.
    L'ortoprassi cristiana, dunque, deve riconoscere di essere strutturata sul doppio ritmo del mistero pasquale. C'è un tempo per morire ed un tempo per vivere, ha scritto il Qoélet. Il tempo attuale è il tempo della morte. Ma la morte afferrata dalla potenza divina della prassi cristiana viene superata a tal punto da diventare essa stessa sorgente di vita perenne.

    NOTE

    [1] E. SCHILLEBEECKX, Gesù la storia di un vivente, Brescia, Queriniana, 1976, passim.
    [2] Ibid., p. 138.
    [3] H. KÜNG, Essere cristiani, Milano, Mondadori, 1971 p. 234.
    [4] E. SCHILLEBEECKX, o.c., pp. 104-106.
    [5] CH. DUQUOC, Cristologia, saggio teologico, Brescia, Queriniana, 1972, pp. 265-266.
    [6] J. BLANK, Gesù di Nazareth, storia e significato, Brescia, Morcelliana, 1974, p. 44.
    [7] E. SCHILLEBEECKX, o.c, p. 205.
    [8] X. LEON-DUFOUR, Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Roma, ed. Paoline, 1973, p. 366.
    [9] H. KÜNG, o.c., pp. 234.281.
    [10] J. BLANK, o.c., pp. 103-104.105.107.
    [11] L. BOFF, Gesù Cristo liberatore, Assisi, Cittadella ed., 1973, pp. 57.133.
    [12] J. BLANK, o.c., p. 75.
    [13] J. FUCHS, Esiste una morale cristiana?, Roma-Brescia, Helder-Morcelliana, 1970, pp. 13-14.
    [14] Cf in particolare D. TETTAMANZI, Temi di morale fondamentale, Milano, ed. OR, 1975, pp. 86-179.
    [15] A Diogneto V, I ss., in I Padri Apostolici (Corona Patrum Salesiana, vol. XIV), Torino, SEI, 1942, pp. 312-314.
    [16] H. KÜNG, o.c., p. 285.
    [17] Per una buona panoramica di insieme cf E. CAMBON, L'ortoprassi. Documentazione e prospettive, Roma, Città Nuova ed., 1974.
    [18] H. KÜNG, Chiesa, Brescia, Queriniana, 1972, pp. 91-95.
    [19] J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso, Brescia, Queriniana, 1973.
    [20] J. BLANK, o.c., p. 47.
    [21] D. BONHOEFFER, Sequela, Brescia, Queriniana, 1973, p. 70.


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