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    La doppia fedeltà, a Dio e all'uomo, nella evangelizzazione



    Guido Gatti

    (NPG 1976-07/09-72)

    Ci sono dei discorsi in cui gli equivoci stanno di casa, quasi spontaneamente: le parole che vengono pronunciate hanno uno stesso suono, ma esprimono contenuti molto diversi. E così l'incomprensione si acuisce, proprio perché il terreno su cui avviene il confronto (e lo scontro) è apparentemente comune.
    In campo di pastorale giovanile, uno dei discorsi più equivoci è dato dal «metodo antropologico». Per molti operatori, che non hanno aggiornato la teologia appresa sui banchi di scuola, l'antropologia si riferisce unicamente all'uomo e ai problemi umani e riveste un carattere di tendenziale contrapposizione a tutto ciò che è relativo al trascendente e quindi alla rivelazione. Per essi, parlare di «metodo antropologico» nell'evangelizzazione, è un controsenso palese, che svuota radicalmente la specificità dell'annuncio cristiano.
    Questo equivoco è consolidato dall'operato di alcuni educatori che si sono arresi totalmente ai fenomeni del secolarismo, e hanno ridotto la pastorale ad una semplice prassi umanizzante, priva di ogni apertura esplicita al trascendente. Le conseguenze pratiche di queste due opposte mentalità, sono di quotidiana costatazione.
    Per molti, l'educazione alla fede percorre solo la strada del soggettivo, delle risposte spicciole alle domande esistenziali, della ricerca in assoluto. E così ogni gruppo ha la sua immagine di Cristo, di Chiesa, la sua sintesi di fede e la sua morale.
    Altri invece rifiutano ogni colloquio con il quotidiano dei giovani e fanno un discorso su Dio lontano da ogni spessore di concretezza: parlano del dio dei filosofi, non del Dio di Gesù Cristo.
    Ci si combatte (benevolmente) a suon di elenchi di rischi e di tendenze devianti come se bastasse esorcizzare quelli che incombono sull'avversario pastorale, per risolvere i propri.
    Un corretto progetto di evangelizzazione deve fare i conti con un corretto progetto teologico, che fondi il significato, i limiti, le funzioni della «svolta antropologica».
    Ne abbiamo parlato molte volte sulla Rivista. In questo lucido articolo, l'autore offre una sintesi dei tanti discorsi disseminati, in questi anni, sulle pagine di Note di pastorale giovanile.

    IL METODO ANTROPOLOGICO NELL'EVANGELIZZAZIONE E NELLA CATECHESI

    Una delle acquisizioni più significative della contemporanea pedagogia della fede è certamente la formulazione riflessa e lo studio del c.d. «metodo antropologico»; un metodo di evangelizzazione e di catechesi che, partendo dall'uomo e imponendosi di restare assolutamente fedele all'uomo, si propone di legare l'annuncio del messaggio alle esperienze concrete dell'uomo «fenomenico», ai suoi drammi e alle sue conquiste, alle sue certezze e ai suoi interrogativi, così che il vangelo risulti davvero per ognuno «una apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni» (RdC 52).
    Il documento delle CEI sul rinnovamento della catechesi ha dato a questo principio una certa consacrazione ufficiale di largo rilievo e risonanza; ma il metodo antropologico è da sempre il principio fondamentale della pedagogia di Dio: è stato il metodo della predicazione di Gesù e degli apostoli, il metodo di tutta la rivelazione, attuata da Dio nella storia dell'uomo e attraverso gli eventi e le esperienze di questa storia. Attuare il metodo antropologico significa sostituire a un tipo di evangelizzazione e di scuola di fede, che sa già tutto e si preoccupa solo delle tecniche per poter travasare contenuti prefabbricati, un tipo di annuncio che va umilmente alla ricerca della verità insieme con gli educandi, e che la trova nascosta dentro la loro vita, come nel suo luogo più autentico e concreto.
    Questo comporta da parte dell'educatore la condivisione delle esperienze dell'educando, per aiutarlo a leggervi prima di tutto il loro spessore naturale di riuscita umana, di bontà creaturale, il loro margine di fallimento, la pesantezza del peccato, gli interrogativi irrisolti, per poi poter cogliere, dentro e al di là di questo spessore umano, il significato e l'appello divino, che si presuppongono in intima consonanza e continuità (potentia oboedientialis) con questo spessore umano.
    Non si tratta di un espediente didattico ma di un profondo viraggio di prospettive che non può giustificarsi solo con motivazioni di ordine psicopedagogico o culturale, ma trova ragioni nella natura stessa del mistero che deve annunciare: un mistero di incarnazione.
    Il documento citato dopo aver detto che «chiunque voglia fare all'uomo di oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio», precisa che questa è «esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della rivelazione è infatti il Dio con noi, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita» (n. 77).
    «Dio stesso quando si rivela personalmente lo fa servendosi delle categorie dell'uomo... Per questo non è ardito affermare che bisogna conoscere l'uomo per conoscere Dio» (n. 122).

    IL METODO ANTROPOLOGICO NELLA MATURAZIONE DELLA FEDE

    La fedeltà all'uomo e alle sue esperienze storiche non è soltanto il metodo pedagogico della catechesi e della evangelizzazione; esso è anche legge di ogni crescita nella fede, intuizione preziosa di un più generale modo di percorrere anche personalmente ed ecclesialmente l'itinerario della vita in Cristo e nello Spirito.
    Non interessa solo l'educatore o il catecheta, ma ogni credente che consideri la sua fede una realtà viva, da portare gradualmente a maturità e compimento.
    La fede è iniziativa divina ma insieme esperienza umana integrale. Non si attua che nel quotidiano, all'interno delle esperienze ordinarie della vita che essa illumina, trasforma, rende significative. Non c'è settore della vita umana, evento, dramma, aspirazione, realizzazione o scacco che le sia estraneo, che si giochi fuori del suo ambito.
    Come l'evangelizzazione, l'educazione della fede, la pastorale, la stessa riflessione teologica, così l'approfondimento personale della fede, la sua progressiva maturazione non possono procedere che lungo i binari di questo continuo incontro tra l'iniziativa divina e la storia concreta dell'uomo, che Dio assume e salva nella sua concretezza esistenziale.
    È un itinerario che non può essere definito in astratto, al di fuori dell'unicità delle situazioni concrete di ogni singola persona umana.
    È la situazione nella sua irripetibile singolarità a sollevare interrogativi, ad aprire prospettive nuove, a stimolare all'approfondimento e all'autenticazione della fede.
    È forse su questa linea che può essere compreso quello che c'è di valido nell'istanza, così viva in certe correnti di teologia contemporanea, di sottoporre l'ortodossia puramente teoretica della fede al vaglio o alla verifica dell'ortoprassi: la verità delle parole e delle riflessioni umane sulla fede non si può giudicare prescindendo dalla loro capacità di interpretare e illuminare il quotidiano, di suscitare una corrente di azione, capace di agire nella storia e di salvarla.

    OBIEZIONI E PERICOLI

    Non è chi non veda i vantaggi di una simile impostazione che, ricollegando, all'interno dell'esperienza di fede, il pensiero alla vita, vuole realizzare quella profonda unità della coscienza cristiana, quella coerente e feconda integrazione tra la fede e l'esistenza che il documento sul rinnovamento della catechesi indica come una delle connotazioni di una fede matura, meta finale di ogni educazione della fede e di ogni preoccupazione pastorale.
    Non si può d'altra parte negare che questa impostazione offre il fianco a obiezioni serie e può comportare effettivamente pericoli per l'autenticità dell'esperienza di fede.

    Difficoltà

    Una prima obiezione viene dal carattere imprevedibile e sorprendente della Parola di Dio, che lungi dall'adeguarsi agli schemi e dal rispondere alle attese della sapienza umana si pone spesso di fronte ai nostri progetti e alla nostra storia in atteggiamento di contraddizione e di giudizio; la stoltezza della croce sovverte le vedute di certa miope sapienza umana. Si crede davvero solo nella misura in cui ci si abbandona ciecamente all'azione incomprensibile dello Spirito, rinunciando a mettere le mani su Dio, a imprigionare il suo messaggio nei nostri schemi, a figurarci una salvezza su misura dei nostri desideri. E c'è effettivamente il pericolo che il metodo antropologico sia inteso e attuato in modo da piegare il vangelo ai nostri progetti, facendone una consacrazione del nostro buon senso e delle nostre vedute, vanificando il «ma io vi dico» di Cristo che incombe sempre sulla nostra vita.
    Sarebbe uno sfuggire all'atteggiamento di ascolto e di disponibilità, componenti essenziali della fede, per ripiegare su una creatività arbitraria ed allucinatoria che ridurrebbe il Dio assolutamente altro ad un idolo prodotto dai nostri bisogni e dalle nostre esperienze.
    Una seconda obiezione viene dal fatto che la fede è accoglimento di una Parola normativa, di un deposito affidato alla Chiesa, perché lo custodisca lungo i secoli e fedelmente lo trasmetta a tutte le generazioni, come testimonianza incorrotta di Cristo, sempre quello, ieri, oggi e nei secoli (Eb 13,8).
    Ora una scuola di fede che si limita a percorrere l'itinerario degli interrogativi emergenti dalle esperienze concrete dell'uomo corre il rischio di escludere dalla catechesi punti cruciali del «depositum fidei», assolutamente essenziali alla sua completezza e alla significatività del messaggio.
    Sono rischi non puramente immaginari: ne abbiamo tutti sotto gli occhi la prova in persone, gruppi, movimenti di pensiero o di vita cristiana che si sono forgiati una loro fede, su misura degli stereotipi culturali del momento, una fede in cui non è più facile riconoscere quella della Chiesa. Questo fa emergere in molti il sospetto che il metodo antropologico non sia in realtà che il cedimento a una cattiva moda culturale, ispirata all'efficientismo tecnologico e al positivismo della nostra civiltà, col suo illusorio senso di concretezza che la porta a eludere tutti i problemi di fondo della vita.
    Questo spiega anche, se non proprio giustifica, certe diffidenze e resistenze che il metodo antropologico suscita presso tanti operatori pastorali, indubbiamente bene intenzionati ed onestamente preoccupati dell'integrità dell'apprendimento delle verità di fede e dell'autenticità dell'esperienza cristiana.

    Quale risposta?

    Si sarebbe tentati di rispondere a queste preoccupazioni negando gli stessi presupposti delle obiezioni. Non temendo ad esempio, di affermare «in toto» il carattere creativo della fede. Dio non si rivelerebbe se non facendosi trovare dalla ricerca umana, che egli stesso ispira e orienta dal di dentro della storia con la guida invisibile del suo Spirito. Oppure si potrebbe negare che abbiano valore normativo assoluto per la fede la sistemazione e l'ordine gerarchico tradizionale delle verità contenute nel «depositum fidei». Essenziali sarebbero di volta in volta e per i singoli credenti solo quelle verità che concretamente rispondono ai loro interrogativi e risolvono i loro problemi.
    C'è probabilmente più di un'anima di verità anche in queste risposte, ma il loro carattere unilaterale distorce e mutila questa verità.
    L'esperienza di fede si esprime certo con un suo carattere di creatività, ma solo in risposta a una chiamata che, se raggiunge l'uomo nella unicità del suo irripetibile qui e ora, lo fa sempre e solo attraverso la mediazione di una Parola normativa, che domanda prima di tutto riconoscimento e sottomissione (il carattere obbedienziale della fede). Certo non tutte le verità di fede hanno la stessa importanza, ma sono tutte regola di fede. L'ordine del loro soggettivo disvelamento al singolo può essere il più diverso, a seconda dei suoi interrogativi esistenziali e della sua concreta storia di vita; ma alla fine esse devono ricomporsi in un ordine oggettivo, in una organizzazione fondata sulla parola di Dio che le ha rivelate, sulla storia della tradizione ecclesiale che le ha elaborate e sul presente di questa incessante rielaborazione ecclesiale.

    UN APPROFONDIMENTO DOVEROSO

    Credo che la migliore difesa del metodo antropologico non consista tanto nel chiudere gli occhi davanti a questi pericoli o nel respingere in blocco la fondatezza di queste obiezioni, quanto nel riprendere a fondo tutto il discorso, per studiare meglio la vera natura e i meccanismi concreti di questo metodo, per vedere a quali condizioni e in quale misura esso serva davvero la causa dell'evangelizzazione e della maturazione della fede, e come i pericoli che esso comporta possano essere concretamente superati.
    Bisogna intanto cominciare col dire che, solo se interrogate a fondo, scandagliate in tutto il loro spessore umano, le esperienze concrete della vita introducono davvero il discorso della fede e lo introducono nella sua autenticità e totalità. Se ci si ferma alla superficie dei fatti e dei problemi, si resta prigionieri dell'aspetto tecnico delle realtà umane, del loro significato penultimo, oppure si fa al massimo del cattivo moralismo, ma non si fanno emergere gli interrogativi cui è risposta l'annuncio della fede.
    Bisogna scavare fino al fondo delle cose. Prendiamo ad esempio il problema dell'aborto: se ne può parlare in tono apologetico, solo per presentare o difendere gli imperativi morali imposti o difesi dalla fede e dalla Chiesa. Il prevedibile dissenso di chi non crede o di chi non ha ancora percorso tutto l'itinerario della fede e quindi, non si lascia convincere dagli argomenti di ragione addotti, né accetta in proposito l'insegnamento autorevole della gerarchia, provocherà facilmente diatribe inconcludenti che restano a monte del vero problema di fede. Si scivolerà in una casistica magari interessante ma sterile agli effetti della evangelizzazione del nucleo centrale del messaggio di fede, che pure qui è in questione.
    Solo se scandagliato fino in fondo, senza la preoccupazione di strappare a ogni costo un intempestivo assenso alle posizioni morali della Chiesa, il problema dell'aborto evolverà a problema sul carattere dipendente, condizionato, creaturale della vita umana e quindi a problema sul senso della vita, cioè a vero problema di fede. E questo vale di ogni problema. Ogni problema che scaturisce dalla vita è del resto solo la parte emergente di una specie di piramide rovesciata di interrogativi, che si richiamano a vicenda e culminano sempre in una domanda di fondo, che è domanda di senso e di senso ultimo della vita.
    Quando si dice che l'annuncio di fede deve essere risposta alle domande che nascono dall'esperienza, non si intende evidentemente parlare delle «domandine» di curiosità che galleggiano alla superficie di questa piramide rovesciata. Normalmente si partirà da queste ma solo per agganciarsi all'implicazione essenziale, al radicamento profondo che le lega ad altre domande, giù giù fino ad arrivare alle domande che sono già quasi esplicitamente domande su Dio, domande sul significato ultimo delle cose, domande aperte sul trascendente. Compito dell'evangelizzatore e della comunità di fede in generale è di favorire questo andare a fondo nel gorgo delle domande, fino a condurre a quelle la cui risposta è lo stesso annuncio centrale del vangelo. Solo allora sarà possibile risalire lungo il flusso degli interrogativi e dare ad essi risposte coerenti con le affermazioni fondamentali della fede. Poiché anche le verità di fede si implicano a vicenda e sono organicamente collegate, costituiscono una struttura dotata di una interna gerarchia. Afferrarne saldamente una, viverne anche un solo blocco è già essere alla ricerca di tutte, è già implicitamente avere abbracciato tutto l'organismo vivo di cui queste verità sono parte; e ciò tanto più quanto più esse sono in posizione fondante rispetto alle altre.

    LA DOCILITÀ DELLA FEDE

    Quando poi dall'itinerario per giungere alla fede (in risposta all'evangelizzazione) passiamo all'itinerario percorso dal credente per giungere alla maturità della fede (problema tipico della pastorale), è chiaro che dobbiamo presupporre già posta nell'educando, almeno in forma iniziale, l'adesione fondamentale alle verità centrali della fede.
    È proprio a questa scelta iniziale che ci si appella per educare (e-ducere) tutte le virtualità di crescita che essa include. Ma se questa scelta è vera, è sempre prima di tutto scelta di una persona, è adesione incondizionata a Cristo, incontro persona a persona con lui. Ora l'adesione a una persona, anche se solo iniziale, purché autentica, ha un suo interno dinamismo di crescita, che porta gradualmente a conoscere sempre meglio e ad accettare la persona per quello che essa è in se stessa, nella sua diversità; consapevoli che il suo segreto resterà un mistero insondabile, sempre da scoprire e da venerare.
    La persona è un assoluto; aprirsi ad essa è rispettarne l'alterità. Non si strumentalizza una persona, non la si rifà a propria immagine; si sta davanti a lei con la disponibilità totale dell'amore.
    L'amore vero (e la fede è sempre anche amore, «per caritatem operatur») è sempre anche conoscenza: esso ri-conosce nella verità, non ri-costruisce allucinatoriamente, non pretende di disporre, ma si fa disponibile.
    La fede è questo tipo di incontro e di apertura, avviata a questa incondizionata accettazione della parola di Cristo, a questa disponibilità assoluta alla sua azione: il credente è «docibilis a Deo».
    La fede matura si esprime nel «parla Signore che il tuo servo ti ascolta» del giovane Samuele. Essa non si arrogherebbe mai il compito di mettere le sue parole sulla bocca di Dio. Essa non ha altre parole che quelle di Dio.
    Sono queste parole che essa viene scoprendo dappertutto: nel vangelo scritto e in quello dell'esperienza quotidiana letta alla luce di Dio, diventata trasparenza del vangelo. Le esperienze di vita sono tappe di un riconoscimento progressivo; Dio e l'uomo percorrono insieme questo itinerario; è una esperienza tutta di Dio e tutta dell'uomo. Arrivati a questo punto di maturazione della fede, il metodo più antropologico è proprio il metodo kerigmatico, cioè il metodo dell'annuncio puro e nudo, starei per dire brutale, lontano da ogni preoccupazione di gradualità e di aderenza alla storia personale del soggetto; e questo perché la storia personale del soggetto è già tutta inserita nelle spire del messaggio, tutta costruita in base alla sua efficacia trasformatrice. La parola di Dio nella sua imprevedibilità, nella sua assoluta «diversità», proprio in quanto non manipolabile ed ultimativo giudizio sull'uomo e sui suoi progetti umani, è in questo caso la risposta più giusta e più adeguata alle esperienze concrete del soggetto e ai suoi interrogativi esistenziali, già profondamente modellati dalla fede.

    OGGETTIVITÀ DELLA TESTIMONIANZA E CONDISCENDENZA DELL'ANNUNCIO

    Naturalmente questa è una tappa avanzata della maturazione della fede. La grazia di Dio fa bruciare a volte tutte le tappe alle anime privilegiate; ma normalmente, prima di giungere a questa disponibilità, il credente medio avanza solo a strattoni e a sbalzi, tra mille renitenze; insegue la verità per la via lunga dei suoi interrogativi esistenziali. Certo verrebbe la tentazione di costringerlo a prendere la scorciatoia, nella illusione di fargli un favore. In realtà si resterebbe estranei alla sua storia e ai suoi problemi e non si influirebbe molto su di lui, anzi forse si metterebbe in atto un processo di rigetto.
    Certo nella Chiesa deve restare sempre viva la testimonianza totale del vangelo nella sua angolosa durezza, deve restare sempre sufficientemente promulgata e proclamata la verità non manipolata del messaggio di salvezza della fede.
    Questa testimonianza resta viva nell'insegnamento ufficiale del magistero, nella proclamazione liturgica della Parola di Dio, in certi settori della teologia (quelli che in una giusta divisione di compiti sono più preoccupati della oggettiva fedeltà al messaggio e alla storia della sua tradizione che non dell'adeguamento al presente e della sua traduzione nelle categorie del pensiero contemporaneo).
    A questa testimonianza è chiamato a dare il suo contributo anche l'educatore di fede e l'operatore pastorale. Nel suo sforzo di essere fedele all'uomo, egli non dovrà mai eludere gli aspetti meno attuali e meno immediatamente comprensibili e accettabili della parola.
    Soprattutto dovrà presentare attuata nella sua vita questa struttura oggettiva ed integrale della verità della fede, nella sua durezza non addomesticata. La sua esistenza dovrà essere il suo Denzinger, il suo simbolo vivente di lede.
    Ma la testimonianza è una cosa, la scuola concreta di fede ai singoli è un'altra. La testimonianza totale e non addomesticata può essere fatta valere come quadro di riferimento, come fonte di inquietudine e stimolo alla ricerca ulteriore. L'uso del metodo antropologico sganciato da questo stimolo, da questo quadro di riferimento non riuscirà a evitare i pericoli visti sopra. Ma la pastorale e l'educazione della fede devono restare attente all'itinerario concreto della persona oltre che a questo quadro di riferimento; devono sapersi imporre la paziente gradualità e la condiscendenza della pedagogia di Dio. Camminare insieme con l'uomo in questo tortuoso itinerario è in realtà camminare insieme con Dio. A determinare questo itinerario e la sua misteriosa tortuosità sono eventi ed esperienze che Dio prepara e in cui Dio agisce. La disponibilità radicale che apre al kerigma nella sua dura alterità (l'alterità del «totalmente altro») nella sua angolosa durezza è in fondo sempre solo la «gratia victrix» che nessun artificio umano può surrogare. Attendere riverenti e imploranti questa grazia nel mezzo del nostro oscuro lavoro di presenza fraterna, di pedagogia della condiscendenza e della condivisione, di ricerca comune (dopotutto possediamo forse noi in modo definitivo e irreformabile il monopolio della oggettiva organizzazione e formulazione delle verità della fede? siamo già noi aperti davvero alla sua conturbante alterità, anche rispetto ai nostri schemi?) è fedeltà all'uomo ma insieme anche fedeltà a Dio.


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