Pastorale Giovanile

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    A che punto siamo. I Salesiani ripensano la loro pastorale giovanile


     

    Intervista a d. Fabio Attard, Consigliere generale per la pastorale giovanile

    (NPG 2012-04-13) 


    Abbiamo pubblicato su NPG (aprile 2011) un’intervista al Consi­gliere generale dei Salesiani per la pastorale giovanile circa il piano di ripensamento della PG. Lo scopo era di verificarne l’adeguatezza in una condizione di mutati paradigmi culturali e per ravvivare il fecondo contatto con le sue fonti ispiratrici nella prassi (e riflessione) di don Bosco.

    È un processo che – richiesto dal Capitolo Generale 26 – coinvolge non solo i vertici della Con­gre­gazione (il Rettor Maggiore e il Dicastero della PG), o quelli più direttamente interessati (i vari centri di studio o i delegati della PG) ma tutte le ispettorie (provincie) e le opere, in vista di una riscrittura del quadro di riferimento organico: praticamente la ricomprensione oggi del sistema preventivo di don Bosco.
    In effetti, dopo un primo momento ad opera soprattutto dei centri di PG ed esperti che hanno presentato per così dire un quadro della situazione, i nodi e le sfide principali, ora è il momento delle comunità, cui è stato dato un libriccino (poche pagine) come strumento per la riflessione e per la revisione della loro prassi.
    Essendo la pastorale giovanile ciò che definisce l’identità e la missione della Congregazione Salesiana, pensiamo che la loro esperienza, le sfide affrontate, i nodi (e gli snodi) individuati possano essere di una certa utilità anche alle pastorali giovanili vissute nelle diocesi e da altre realtà ecclesiali, quando l’intenzione che le anima è l’evangelizzazione dei giovani attraverso la mediazione dell’educazione.
    Approfittiamo della cortesia del Consigliere generale d. Fabio Attard per proseguire il dialogo. 

    IL CAMMINO FATTO, LE SFIDE

    Domanda. Anzitutto un «riassunto» della puntata precedente. Può ridire il senso e lo scopo di tale ripensamento della PG salesiana che occuperà ben tre anni fino al prossimo Capitolo Generale? E in particolare, quali sono state le sfide individuate, le fragilità e debolezze (o incompiutezze, nelle parole del Rettor Maggiore) del «sistema educativo salesiano», i nuovi temi che balzano alla ribalta? In effetti, fa specie la parola «ripensamento della PG» proprio nei confronti di quella che agli occhi di tutti appare come una sapienza acquisita, una peculiarità specifica del mondo salesiano.

    Risposta. Prima di tutto un sincero grazie per questa seconda opportunità di condividere il cammino che stiamo percorrendo nella Congregazione salesiana. Se fosse un film, diremmo che questa intervista sia un sequel.
    La prima domanda è una specie di macrodomanda, che ne contiene tre altre.
    Parlo prima del riassunto del cammino fatto finora. Abbiamo iniziato con un gruppo di teologi e alcuni pastoralisti per cogliere meglio i termini del problema e progettare le varie fasi del ripensamento. Si è rivelata una felice scelta. Anche se non siamo ancora alla fine, ci rendiamo conto che il punto di partenza teologico ci ha aiutato ad interpretare tutto il cammino con lo sfondo dell’orizzonte del mistero di Dio, che si incarna nella persona di Cristo e continua ad operare attraverso la forza dello Spirito.
    All’interno di questa comprensione di fede, le varie dimensioni – come quella culturale, sociologica, filosofica, politica – sono incluse senza far perdere la bussola offertaci dalla parola di Dio, dalla riflessione del magistero della Chiesa e dal patrimonio carismatico. Man mano che andiamo avanti, si sente il bisogno non solo di rafforzare il divino, ma anche di non farci alienare da tutto ciò che, a sua volta, ha il potere di aiutarci ad essere pienamente umani, arrivando così alla meta di essere pienamente divini.
    Ecco allora, ci rendiamo conto che il processo iniziava da una riflessione a livello teologico che ci ha offerto degli indicatori molto utili per la seconda fase: quella di interpellare ogni comunità della congregazione, ogni ispettoria (provincia) sul suo modo di vivere e di proporre cammini di pastorale giovanile.
    Interessante come il passaggio dalla prima alla seconda rafforzava un atteggiamento di ascolto e di rispetto, da una parte alla lettura teologica, e dall’altra al ritmo e alle sfide che ogni comunità vive, con le sue difficoltà, ma anche con le sue opportunità. Sono rafforzati indicatori come l’urgenza di ravvivare la comprensione teologica della nostra missione, la chiamata a sintonizzarci con la cultura dei giovani come il locus theologicus, della nostra consacrazione e missione.
    Come sintesi del lavoro della prima fase, in questa seconda abbiamo offerto un piccolo strumento che faciliti il «dialogo» con e nella comunità. È un documento che chiede alla comunità di raccontare la sua storia, i momenti belli ma anche quelli difficili.
    Abbiamo chiesto ad ogni comunità di rispondere a tre domande:
    la prima sulla cultura giovanile: cioè quanto siamo attenti all’incontro con la cultura e il mondo dei giovani oggi. Ci chiediamo se siamo sensibili alle diverse forme in cui i giovani vivono la fede nei loro vari contesti educativi e sociali: non credenti, indifferenti, lontani, con fede tradizionale o in un cammino di fede compromessa. Cercando di entrare nella storia dei giovani, ci chiediamo se li stiamo guardando e contemplando con gli occhi di Gesù, se ci impegniamo a essere pastori con una comprensione intelligente del tempo presente: una comprensione che sappia affrontare le sfide dell’enorme cambio culturale;
    la seconda domanda tratta il tema dell’evangelizzazione attraverso l’educazione nella cultura del nostro tempo. Ci chiediamo se la nostra pastorale giovanile salesiana accompagni il giovane verso quella pienezza di vita che è in Gesù; se accompagna il giovane a vivere coerentemente la sua decisione di seguire Gesù, appoggiandosi a una spiritualità dalla quale apprende uno stile di vita e un impegno al servizio degli altri che lo renda felice. Chiedevamo se siamo noi stessi garanti di una spiritualità giovanile salesiana che mira all’esperienza di fede, all’educazione e al lavoro.
    Questo sollecita a verificare se accompagniamo i giovani in passi graduali di maturazione alla fede, assicurando una vera iniziazione nell’esperienza religiosa cristiana, dove la parola chiave è l’iniziazione, la mistagogia;
    – infine, la terza domanda tratta il tema di una pastorale giovanile integrale e coordinata. In un contesto dove i giovani si sentono nomadi, e non soltanto loro. Ci chiediamo cosa vuol dire che hanno il diritto di trovare proposte formative integrali nel nostro modello educativo-pastorale. Dall’altra parte, offrendo una pastorale organica, tutti ci sentiamo obbligati a verificare l’acquisita preparazione umana, cristiana e pedagogica, che ci aiuti a svolgere tale missione nella maggior pienezza possibile.

    Le «nostre» sfide

    Passo alla seconda parte della domanda. Durante questo processo credo che ci siano state molteplici sfide, di natura fondamentale e collegate tra di loro.
    Una è quella dell’urgenza di comprendere la pastorale partendo da una visione evangelica e sacramentale della nostra stessa donazione. Sembra una cosa da poco, ovvia perfino, ma mi convinco sempre di più che in un contesto post-moderno e post-secolarizzato, dove mancano i punti di riferimento sia religiosi che culturali, che prima servivano come base e punto di partenza, i giovani e gli adolescenti non riescono ad essere impressionati da niente e da nessuno. Solo le persone con una vita autentica, pastori audaci e guide oneste, hanno una immediata presa sul loro immaginario, personale e collettivo.
    Le grandi istituzioni (scuola, famiglia, comunità religiosa, Chiesa istituzionale) non hanno più presa su di loro, non ottengono rispetto solo per il fatto che rappresentano ‘qualcosa’. Invece chi vive ciò che dice, e si dona in una maniera autentica e sistematica, allora mostra che ha qualcosa da dire. Queste sono le persone che attraverso la loro trasparenza e autenticità entrano subito in sintonia con ciò che i giovani cercano oggi: adulti significativi che presentano valori vivi, soddisfano la sete e la fame del divino in maniera semplice, vera, diretta.
    Una seconda sfida (direi meglio fragilità) è il mancato impegno da parte dei pastori ed educatori di tenersi aggiornati sui vari fronti della missione. Sappiamo bene che l’evangelizzazione e l’educazione non si svolgono in uno spazio extra-terrestre, in una bolla d’aria. L’evange­liz­zazione e l’educazione avvengono dentro parametri culturali e religiosi ben precisi, con forti componenti filosofiche di riferimento.
    Chi di noi ha ricevuto la sua formazione trenta o vent’anni fa, ha conosciuto dei parametri culturali e religiosi che oggi non ci sono più. Ecco allora l’urgenza di un continuo aggiornamento, conoscenza e studio, prima di tutto della riflessione della Chiesa che in questo campo è molto ricca. Nei miei incontri con i delegati di pastorale giovanile a livello regionale, più volte chiedo se sono familiari con documenti come Evangelii nuntiandi, Catechesi Tradendae, Direttorio Generale per la Catechesi. Devo dire che le risposte non sono molto incoraggianti! Lo stesso bisogno ci si presenta per un aggiornamento di tipo sociologico e filosofico, culturale e umanistico.
    Nel mancato aggiornamento, rischiamo semplicemente di dare risposte vecchie a domande che non esistono più. Saremo noi stessi ermeticamente chiusi in un mondo parallelo, dove rischiamo solo di passare giudizi sui giovani, ma difficilmente a trasmettere testimonianze, a consegnare una visione entusiasmante della vita.
    All’intorno di queste due grandi sfide, per non chiamarle debolezze, esiste anche l’urgenza di una vita personale e comunitaria autenticamente fondata e arricchita da una esperienza spirituale. Qui non si tratta di gesti meccanici che la comunità è chiamata ad eseguire, ma piuttosto di gesti di libertà che si esprimono attraverso momenti di preghiera comunitaria, di ascolto comunitario, di confronto fraterno sereno e gioioso. Forse ci conviene fermarci un momento e scoprire quanto oggi sia di valore il discorso della comunità, della vita fraterna, in un ambiente sociale dove molto dei nostri adolescenti e giovani vivono in ambienti frammentati e anonimi. E allora la sfida è che le nostre comunità diventino realmente spazi di accoglienza, di ascolto e di proposta.

    Il «ripensamento» della PG

    Nella terza parte della domanda si fa accenno al ripensamento come se si trattasse di una negazione o allontanamento da quello che è chiamata ‘sapienza acquisita’. In qualche incontro è venuta a galla proprio questa domanda, quasi che ora volessimo far fuori tutto quello che abbiamo ereditato e ricominciare da zero. Se così fosse, sarebbe una follia totale! Chi crede che il tempo inizi ‘oggi’ ha perso il senso della storia: senza passato non c’è futuro!
    La nostra storia è una storia di salvezza dove in ogni momento e in ogni fase tutti cerchiamo cosa vuole lo Spirito da noi. La bellezza della Chiesa sta nella sua capacità di «trapassare» il suo ‘dire’ e il suo ‘vivere’ da una generazione all’altra – la tra-ditio è proprio questa. Ciò che capita a livello ecclesiale, capita in maniera microcosmica, nella nostra Congre­gazione. Noi siamo eredi di un sistema educativo, il Sistema Preventivo, che ha nel sua DNA la propensione al dialogo. Don Bosco che ha educato nel suo tempo, continua ad educare oggi nel nostro tempo. Lo stesso spirito salesiano che da lui abbiamo ereditato, continua anche oggi a animare una storia che continua.
    La grande riflessione della Congregazione in questi ultimi quarant’anni non è un ri-cominciare da capo, ma continuare a vivere con allegria e ottimismo quel dialogo continuo con i giovani che trova il suo paradigma in Valdocco, mentre porta l’icona sempre più viva e attuale, che è il volto di Don Bosco, icona permanente di Padre e Maestro della gioventù.
    Ri-pensare vuol dire proprio questo: pensiamo al come noi oggi siamo fedeli al paradigma evangelizzatore e all’icona del nostro Padre e Maestro. Se questa sfida di ri-pensare, contemplare l’oggi della storia, non lo facciamo, allora a quel punto renderemmo il paradigma come una racconto statico, un reparto da museo, e dell’icona del nostro Padre e Maestro faremmo solo un dipinto piatto, superato, scaduto.
    Ri-pensare è il modo per rafforzare i legami vitali che fin dall’inizio hanno fatto di Don Bosco e del suo sistema educativo una realtà che dialoga, coglie, interagisce, propone e proietta verso il futuro di giovani protagonisti. Il Sistema Preventivo, da questo punto di vista, nella post-modernità diventa un dono unico che riprende la visione ampia e grande della ragione che non ha paura di arrivare alla soglia del mistero divino in un ambiente di grande carità apostolica, e di amorevolezza.
    Spiegato così, il ripensamento diventa una opportunità che non possiamo perdere, perché solo così la ‘sapienza acquisita’ rimane quello che è sempre chiamata ad essere – sale della terra e luce del mondo.

    GERMI DI NOVITÀ

    D. Sono certamente stati individuati nello studio anche dei «germi» di novità nelle prassi di PG, intuizioni che meritano di essere indicate e riproposte, modalità in cui ci si è posti di fronte ai giovani in maniera creativa, percorsi di evangelizzazione riusciti o promettenti. Può indicarne alcuni?

    R. In effetti, frutto di processi come questi, vengono a galla elementi che devono essere sostenuti e rafforzati, ma anche altri sono diventati secondari o che persino sono scomparsi.
    La parola «germi» mi ha fatto venire in mente l’immagine di un albero in autunno che subisce la forza del vento che soffia. Le foglie solide resistono perché sono ben radicate nei rami, invece quelle deboli, scolorite, cadono. La stagione autunnale fa morire il vecchio, ma fa anche nascere il nuovo.
    Tra le realtà che necessitano una mirata attenzione c’è quella della conoscenza dell’identità dei giovani oggi. Il forte cambio culturale non è cosa da poco. Stiamo vivendo passaggi epocali che non possono lasciarci indifferenti. Se guardiamo allo sviluppo tecnologico, come anche ai grandi cambi politici, se diamo attenzione ai forti cambi di paradigma a livello filosofico e ai mutamenti sociali, dobbiamo chiederci come tutto questo sta effettuando i nostri giovani, i nostri ragazzi.
    Conoscere l’identità del giovane oggi non è più un lusso di pochi intellettuali, ma una urgenza di tutti coloro che con sincerità desiderano incarnarsi nel mondo educativo dei giovani. Ci stiamo rendendo sempre più conto che se non si ha questa conoscenza, come evangelizzatori e educatori costruiamo una proposta che non converge con il mondo dei giovani. Nel nostro caso, guardando a Don Bosco, cogliamo subito che il suo interesse pastorale era intimamente legato alla conoscenza e all’immedesimarsi nel mondo dei giovani a Torino, che era totalmente diverso da quel mondo giovanile che lui, a suo tempo, aveva conosciuto.
    Un secondo aspetto collegato è rivedere il significato di «bisogno del gruppo» nella post-modernità.
    Da anni si insiste sui cammini dei gruppi e tutti condividono questa convinzione di ordine metodologico. Però ci accorgiamo che per i giovani l’appartenenza ad un gruppo non offre solo spazio e sicurezza, ma soprattutto identità. Il gruppo non è solo rifugio, ma visione, luogo nel quale i giovani stabiliscono un’identità.
    In questo senso, perché la proposta pastorale sia valida in se stessa, oltre ad avere bisogno di spazio umano e persone autentiche, è importante che sia anche una proposta con processi di personalizzazione, proposta che offre cammini che rafforzano l’identità. Possiamo dire che in una società che non offre più punti di riferimenti fissi e convincenti, il gruppo offre identità attraverso l’appartenenza.

    La «profezia» di educatori testimoni

    Un secondo grappolo promettente di germi riguarda gli evangelizzatori ed educatori. Ho già affermato che – in assenza di un discorso oggettivo attorno a valori o visione della vita – si arriva al cuore del giovane non dall’alto, in maniera verticale, ma attraverso la forza della testimonianza, il segno della profezia.
    Lo sentiamo dire da più parti, che senza una comunità credibile (che cioè testimonia con i fatti ciò che predica e proclama con le parole) ogni proposta pastorale risulta vuota, perfino banale. In un mondo pieno di artificiosità, in un contesto dove il potere politico ed economico ha perso ogni traccia di etica, incontrare adulti significativi è diventata una impresa assai difficile. Ad una generazione giovanile alla quale è stato solo tolto non solo il futuro, ma anche la capacità di sognare nel presente, dagli adulti non si aspetta niente.
    E noi come evangelizzatori e educatori siamo in questa situazione. Anche noi gente banale e artificiosa, senza nulla da dire?! L’autenticità che si aspetta da noi è quella del profeta che parla nel nome di Dio perché lo ha conosciuto, incontrato, si è intrattenuto con Lui. Siamo chiamati ad essere evangelizzatori perché nel profondo del nostro cuore abbiamo viva la buona notizia – evangelion.
    Credo che in questi due grappoli di germi possiamo leggere un invito pressante: siamo chiamati ad essere, alla stesso tempo, fortemente radicati nella storia e saldamente ancorati nel Vangelo. Mi viene in mente il libro di don Pietro Broccardo su Don Bosco – profondamente uomo, profondamente santo!
    Un terzo gruppo di germi che ci chiede più attenzione è di costruire e offrire una chiara proposta spirituale. Non potendo dare per scontata la formazione religiosa dei nostri ragazzi e dei nostri giovani, dobbiamo pensare la nostra pastorale come un cammino di scoperta. Un cammino all’interno della comunità credente che si sente interpellata a rispettare i ritmi delle persone, senza trascurare l’integrità dell’annuncio. Un punto, quest’ultimo, che abbiamo anche ribadito nell’ultimo nostro Capitolo Generale 26: l’evangelizzazione richiede di salvaguardare insieme l’integralità dell’annuncio e la gradualità della proposta. Don Bosco assunse questa doppia attenzione per poter proporre a tutti i giovani una profonda esperienza di Dio, tenendo conto della loro situazione concreta (n.25).
    In questo contesto dobbiamo aver quella saggezza di spaziare il vasto spettro del territorio pastorale: ai lontani e ai principianti di offrire il gusto della pienezza che trova l’apice nella persona di Gesù, fino ad aver il coraggio di esplorare, con coloro che sono disposti ad andare più avanti, cammini mistagogici che li accompagnano verso una forte esperienza di fede, un autentico incontro con Cristo.
    Don Braido, nella sua fondamentale opera Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, commenta l’atteggiamento di Don Bosco davanti ad una variegata folla di giovani che frequentavano Valdocco:

    «Don Bosco non era un massimalista, non faceva spreco della nomenclatura religiosa: radicalità, perfezione, santità. Realista apostolo dei giovani pericolanti e pericolosi, sapeva commisurare fini e percorsi educativi alle singole disponibilità al miglioramento... Nella media dei casi, invece, si sarebbero potute tentare scalate più ardite: verso una più affinata moralità e un essenziale senso religioso, con il costante impegno di vivere nello stato di grazia, diligentemente conservata o prontamente ricuperata, osando anche ascese coraggiose verso il monte delle beatitudini alle diverse quote, compresa la vetta» (vol 1, Cap XI: Un prete e un laico nuovi per tempi e problemi nuovi [1853-1862] p. 341).

    Credo che all’interno di una chiara proposta spirituale, vada rafforzata la convinzione che ai giovani sia anche offerta una chiara proposta di carità apostolica.
    Questo protagonismo accompagnato è una necessaria conseguenza di un cammino che partendo da una lettura della propria storia si apre a Dio per abbracciare la storia e i fratelli. Nella nostra tradizione salesiana, come d’altronde anche nelle varie proposte in atto nella Chiesa, i giovani che incontrano Cristo in una maniera personale e autentica passano quasi spontaneamente da una esperienza di discepolato ad una esperienza di apostolato. Alcune volte siamo noi, evangelizzatori e educatori, a dover stare attenti a non soffocare la capacità di cui sono portatori i giovani.
    Infine, un’ultima dimensione che va sempre più rafforzandosi è quella di una pastorale giovanile in équipe.
    La dimensione comunitaria, nel senso largo del termine, non è solo funzionale ai bisogni dei giovani che trovano nel gruppo appartenenza e identità. Lavorare in équipe è un «segno» che deve diventare ‘scuola’. La testimonianza di un gruppo di persone che, mentre fanno la proposta pastorale, già la vivono, porta con sé una grande valenza profetica. Nella stessa dinamica dell’équipe si trova in maniera molto chiara ciò che si vuole comunicare.
    Una vera comunità che propone cammini giovanili, già «proclama» prima che «proporre», essendo essa stessa un segno che favorisce cammini e offre spazi di crescita attraverso la sua testimonianza profetica. Per essere più preciso, faccio riferimento di nuovo all’esperienza di Valdocco per noi Salesiani: Valdocco è il paradigma carismatico di una comunità evangelizzatrice e educatrice che ha saputo generare un clima di famiglia, offrire una proposta pastorale integrale, e sostenere un sano protagonismo giovanile che ha fatto nascere non solo la Congregazione Salesiana ma tutta la Famiglia Salesiana.
    Ecco, credo che in questo processo cresce la convinzione che questi vari germi possano assicurare un solido futuro della pastorale giovanile.

    ATTIVARE PROCESSI NELLE REALTÀ LOCALI

    D. L’indicazione data è di attivare dei processi (per il ripensamento della PG), più che riproporre formule tradizionali. Cosa pensa che occorra fare nelle realtà locali di fronte a questo invito?

    R. Ecco il cuore dell’operato pastorale. Se da una parte si vede che – singolarmente ma anche come gruppo – gli operatori pastorali sono realmente interessati a fare bene e offrire buone proposte, ciò da solo non basta perché tali proposte entrino in sintonia con il mondo giovanile, e ancor meno a «fare consegna» della buona notizia in maniera che questa possa entrare in sintonia con loro. Qui non si tratta di fare appello alla buona volontà dei singoli e del gruppo, ma di ben altro.
    Quando oggi parliamo di un cambio di paradigma, stiamo dicendo una cosa semplice e difficile allo stesso tempo. È facile intendere che molte cose che si facevano prima non si può più continuare a farle. Però risulta difficile individuare la strada esigita dal cambiamento. Alcuni si sentono incapaci di adottare nuove metodologie («Non abbiamo più la duttilità mentale…»), altri trovano difficoltà a fare le cose diversamente da quello che hanno sempre fatto («abbiamo sempre fatto così e ha sempre funzionato…»), e così via.
    È interessante come il nostro compianto Rettor Maggiore d. Egidio Viganò, proprio nella sua ultima lettera del 1995, Come rileggere oggi il carisma del Fondatore, presentava tale sfida come centrale. Cito la sua riflessione, anche se un po’ lunga, perché credo che sia valida ancora per noi oggi:
    La concretezza metodologica in vista di una azione apostolica aggiornata e più incisiva ha fatto emergere in primo piano l’indispensabilità di un impegno di formazione permanente per tutti i confratelli: assumere con chiarezza la rilettura fondazionale e stimolare ogni comunità a una capacità di progettazione concreta per la nuova evangelizzazione… il segreto di tale esercizio è la competenza nell’animazione… Non è un lavoro semplice né a breve scadenza, ma è assolutamente indispensabile; senza di esso la rilettura fondazionale finisce in biblioteca. Così si è constatato che in un’ora di profondi cambiamenti il concetto di «formazione» ha il suo significato fondamentale e prioritario («princeps analogatum») nella formazione permanente, che ogni casa religiosa autentica diviene centro di formazione e che la formazione iniziale va rivolta verso quella permanente per preparare i formandi ad essere soggetti capaci e impegnati nell’affrontare le svariate e incalzanti sfide del divenire culturale ed ecclesiale… Insieme alla fedeltà nello spirito viene stimolata la creatività nella missione con sensibilità verso la pluriformità delle situazioni e spingendo il governo a strutturarsi e a muoversi in vista di un «pluralismo nell’unità» e di un’«unità nel pluralismo».
    Abbiamo qui la risposta alla domanda.
    Occorre che le nostre Comunità Educative Pastorali (CEP) locali rimangano comunità con un atteggiamento di grande apertura e accoglienza, che abbiano un cuore che sappia amare a farsi amare, che siano comunità intelligenti, cioè capaci di fare una lettura in profondità, attenta alla propria realtà e all’anelito nascosto nel cuore dei giovani che sono chiamate a servire.
    In questo atteggiamento di formazione permanente, funzionano comunità che sappiano vivere il «sentire cum Ecclesia», reciprocamente nutrendosi di e nutrendo la vita della Chiesa.
    In questo senso credo che la mancata lettura o assenza dello studio del magistero della Chiesa sia una lacuna attorno alla quale bisogna lavorare molto e a lungo termine.
    Concretamente vedo parecchie realtà locali che si mettono in sintonia con questo bisogno, proponendo, in maniera sistematica, corsi di formazione, giornate di studio e gruppi di lavoro: è questo un campo nel quale occorre accompagnare e incoraggiare tali processi e proposte.

    D. Nella lettera di accompagnamento del Rettor Maggiore vengono presentate le coordinate per il lavoro (e per inquadrare il senso della PG): consapevolezza di un contesto mutato, memoria delle fonti carismatiche (il «Da mihi animas»), l’obiettivo (un impegno più esplicito per l’evangelizzazione), il metodo e lo stile (un corretto rapporto tra evangelizzazione e educazione). Vuole commentare?

    R. La lettera presenta i tratti che – nel loro insieme – assicurano una integrale e coordinata azione pastorale.
    Vorrei chiarire facendo riferimento alle impostazione metodologiche di documenti come Evangelii nuntiandi, Catechesi tradendae, e specialmente gli ultimi Lineamenta per la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana.
    Esiste una metodologia che da una parte insiste nel dare attenzione alle mutate condizioni sociali e culturali, mai da sottovalutare, dall’altra enfatizza tre punti focali: il contenuto della fede, i mezzi adatti e le persone che assumano questo compito in maniera profetica.
    Il ripensamento della pastorale giovanile salesiana si presenta in piena sintonia con il cammino della chiesa, sia per il metodo e, ancor di più, per il contenuto.
    Una attenzione tutta particolare al rapporto tra evangelizzazione e educazione per noi, come Salesiani, si impone in maniera particolarmente urgente. Anche noi rischiamo, o forse in alcuni casi abbiamo già rischiato, di creare scissione, rottura tra evangelizzazione e educazione. Ciò che per Paolo VI era il rischio di una rottura tra vangelo e cultura, noi lo corriamo nella stessa maniera e con le stesse conseguenze tragiche nella dialettica tra evangelizzazione e educazione.
    Le parole di Paolo VI circa questo rischio si applicano anche a noi:

    «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la Buona Novella non è proclamata» (EN 20).

    DI FRONTE ALLE RESISTENZE

    D. Se l’obiettivo è l’evangelizzazione dei giovani, non pensa che ci potrebbero essere «resistenze» o incomprensioni in ambienti come scuole e cfp, o in contesti interculturali e interreligiosi – o di grande povertà di domanda religiosa esplicita – dove forse l’evangelizzazione (l’annuncio, il percorso di fede, l’appartenenza ecclesiale, la testimonianza di vita…) non può essere così esplicita e dichiarata?

    R. Occorre collocare nel modo corretto queste preoccupazioni, e cioè nell’insieme del mandato missionario di Gesù.
    Ci sono due livelli distinti ma non separati. Da una parte il mandato missionario ci appartiene come comunità. Ogni persona che segue Gesù si sente chiamata (kle-tos) ad annunciare la buona notizia che ha ricevuto. Dal verbo stesso «chiamare» (kaleo-) deriva la parola (ekkle-sia), chiesa, l’assemblea convocata, l’assemblea dei chiamati e degli eletti. In tale contesto evangelico e ecclesiologico, la chiamata a proclamare la buona notizia ci appartiene profondamente. È un elemento che non possiamo trattare come optional. Il grido di Paolo nella 1 Cor 9, 16 – guai a me se non predicassi il vangelo – non è un elemento marginale.
    Convinti di questa fondamentale chiamata, sostenuti da questa solida convinzione, passiamo al secondo livello: guardiamo attorno a noi e ascoltiamo la sete dei giovani. Il modo con il quale rispondiamo alla loro sete, le modalità graduali con le quali riusciamo a consegnare loro la buona notizia, non può indebolire questa fondamentale fede in Gesù che ci manda come apostoli.
    Per cui nella quotidianità delle variegate situazioni pastorali, ci troviamo a fare quelle scelte prudenziali che esprimono come vogliamo arrivare a vivere la nostra chiamata di evangelizzatori e educatori con i nostri giovani.
    Diverso sarà ovviamente il modello di chi lavora in ambienti musulmani, dove la testimonianza silenziosa, gioiosa e convinta, trasmette nel silenzio molto più di quanto possano trasmettere le parole. Ancora differente sarà la metodologia pastorale di coloro che operano in ambienti multi-religiosi, dove la scelta dei percorsi tiene conto di tutti coloro che sono presenti nelle nostre opere. Qui, la variegata attenzione ci fa proporre cammini fondati su una sana visione antropologica che rimane sempre aperta al trascendente. Come diversa sarà la proposta pastorale a coloro che sono disponibili ad un cammino più impegnativo, un cammino mistagogico.
    In tutte queste situazioni la proposta pastorale è sempre attenta alla storia delle persone, alla gradualità dei processi, sempre illuminata dal mandato missionario di Gesù.
    D. Egidio Viganò, a proposito di questa delicata sfida, nella lettera sopra citata propone due elementi ancora attuali.
    Il primo è che il compito che ci spetta non è facile, e non possiamo trattarlo con superficialità: «si era convinti dell’urgenza di saper incarnare, con duttile metodologia, l’identità comune nelle differenze delle culture locali. È, questo, un compito arduo: richiede la chiarezza dell’identità nella formazione, e una vera sensibilità e intelligenza di discernimento per le differenze culturali.»
    Secondo, non basta soltanto la buona volontà. Se non stiamo attenti, la sola buona volontà rischia di tradursi in un buonismo pastorale, senza contenuto e di conseguenza senza futuro.
    Indispensabile pertanto l’urgenza di assicurare

    «sempre una seria riflessione teologica, perché è appunto nell’ambito di un certo entusiasmo cosiddetto ‘pastorale’ che si corre anche il pericolo di imboccare strade non giuste, svincolandosi a poco a poco dall’autenticità del carisma».

    Chiariti questi elementi, possiamo affrontare le difficoltà della varie situazioni cercando sempre di proporre quanto la storia dei nostri giovani ci permette, quanto il loro cuore è pronto ad assorbire.

    Anche il ricupero dalle «ferite»

    Cito una esperienza fatta visitando alcune opere salesiane in America Latina. In particolare in una di esse i Salesiani stanno facendo un lavoro straordinario con giovani che hanno vissute una drammatica esperienza di guerriglia. Essi hanno conosciuto odio, violenza, conflitto armato e chissà quant’altro. A questi giovani i Salesiani stanno offrendo la buona notizia dando loro una casa segnata dall’amore e dal rispetto di adulti autentici; una opportunità di un futuro segnato da valori evangelici come la carità, la compassione, e un percorso educativo integrale. Io stesso ho ascoltato le loro storie, e si avverte che hanno sete di pace, di solidarietà, di un amore adulto che non li usi e non li tradisca. In un contesto di processi graduali, arrivare all’incontro con Gesù costituisce una metà a cui essi hanno diritto. Nostro compito è favorire questo incontro, gioioso e felice, superando le varie paure, se non addirittura pregiudizi ideologici.
    In questa situazione, con questi giovani, questa è la vera grande profezia. Ma senza una attenta lettura delle loro ferite, senza l’intelligente disponibilità di un educatore che è portatore della buona notizia, non si fa un vero cammino integrale, umano e spirituale.
    Infine, credo che le difficoltà che a volte insorgono, per rallentare o sminuire il bisogno di un esplicito annunzio dell’evangelo, possono essere un paravento che nasconde sia una mancata preparazione teologica e carismatica, che una superficiale e timida lettura della realtà e della vita dei nostri giovani.
    Una espressione di Paolo VI mi sembra tirare le fila del nostro discorso: essa è una sfida che tocca il cuore della nostra interiorità e richiama l’urgenza della nostra autenticità:

    «Si ripete spesso, oggi, che il nostro secolo ha sete di autenticità. Soprattutto a proposito dei giovani, si afferma che hanno orrore del fittizio, del falso, e ricercano sopra ogni cosa la verità e la trasparenza. Questi «segni dei tempi» dovrebbero trovarci all’erta. Tacitamente o con alte grida, ma sempre con forza, ci domandano: Credete veramente a quello che annunziate? Vivete quello che credete? Predicate veramente quello che vivete? La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l'efficacia profonda della predicazione. Per questo motivo, eccoci responsabili, fino ad un certo punto, della riuscita del Vangelo che proclamiamo» (EN 76).


     


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