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    La chiesa ha qualcosa da dire ai giovani d'oggi?



    Georges Carpentier

    (NPG 1971-08/09-40)

    Se si vuole insegnare l'inglese a John, bisogna prima conoscere John.
    È una perdita di tempo individuare il campo della fede e quello della scienza, se non si conoscono a fondo i giovani ai quali la si vuole presentare.
    Non solo gli «adolescenti eterni» descritti in ogni manuale di psicologia, ma quelli di oggi, attratti dalla politica e smarriti nei cambiamenti di un mondo senza strutture, e tuttavia pronti a rimettere tutto in discussione.
    Di fronte a questi giovani assetati di libertà, di sviluppo e di comunicazione, come parlare di Dio, di Cristo, della Chiesa? G. Carpentier ci indica come potrà essere la catechesi degli adolescenti degli anni settanta.

    La maggioranza dei giovani si accosta alla fede e al mondo in generale, in maniera profondamente diversa dalla maggior parte degli adulti. Questa differenza di interpretazioni è senza dubbio la causa principale della difficoltà di dialogo tra giovani e adulti. La frattura fra genitori e figli ha la sua radice in questa divergenza di concezioni, prima che in una frattura affettiva, anche se l'affettività vi gioca sicuramente un ruolo.
    «I miei genitori ed io non andiamo d'accordo su nessun problema» affermano dei giovani che sembrano avere per i loro familiari un vero affetto. Questo fenomeno di frattura mentale, senza che si verifichi una rottura dei legami affettivi, manifesta nei giovani la nascita di una nuova èra. Essi sono i primogeniti di una civiltà che cerca ancora di definirsi. Attraverso le loro aspirazioni, i loro rifiuti, la loro goffaggine, nasce un mondo nuovo che si nutre dell'antico, pur condannandolo a morte.
    Di fronte a questo fenomeno, molti educatori hanno paura. Altri mancano troppo spesso di immaginazione. Di colpo, il dinamismo creatore dei giovani è bloccato dalla pesantezza e dalla sterilità di un mondo cosiddetto adulto. Due forze, chiamate a unirsi per costruire un mondo nuovo, in tutti i campi - educazione, cultura, famiglia, relazioni sociali, tempo libero, politica, religione - si distruggono a vicenda, con danno di tutti. In un articolo su «Témoignage chrétien», G. Montaron invita a comprendere ciò che, secondo lui, gli uomini politici sembrano rifiutare.
    «Gli studenti, con la loro febbre e la loro violenza, sono dei testimoni, appassionati e anarchici, di una profonda crisi di civiltà. Nei loro disordini essi profetizzano l'avvenire (...).
    Chi dunque saprà leggere i segni dei tempi, discernere gli elementi positivi annunciati da una gioventù inquieta, chi dirà a questo popolo che è ora di svegliarsi, di sorgere in piedi, se vuole costruire l'avvenire?
    ... Forse, i cristiani, che dovrebbero essere abituati a vivere con i profeti, sono al posto più adatto per far sgorgare la vita e la speranza dalla contestazione e dalle convulsioni di questo mondo».
    Certamente, ma a condizione di cogliere ciò che caratterizza l'evoluzione attuale e di trarne le conclusioni. Siccome ciò che oggi è richiesto per l'educazione in generale è richiesto anche per l'educazione della fede, noi ci sforzeremo di analizzare alcuni aspetti di questa visione nuova della fede per trarne alcune conseguenze pedagogiche.

    UN NUOVO MODO DI CONCEPIRE LA FEDE

    Una esigenza di libertà

    Tre sono le componenti fondamentali della nuova mentalità: l'esigenza di libertà, il desiderio di realizzazione e la sete dell'«altro». Ma la più importante sembra essere l'esigenza di libertà. «Io non credo alla felicità, credo alla libertà. E sarò felice quando avrò la libertà che mi permetterà di ricercare la gioia». Questa frase di una studentessa caratterizza le frontiere del mondo moderno. La sete di autonomia dei nostri contemporanei, l'esigenza di libertà, sono più fondamentali del desiderio di felicità. Per capire la situazione odierna, non bisogna fermarsi all'aspetto di capricciosità sviluppato in superficie della società dei consumi. Anche il problema «facoltatività» non rappresenta che un sottoprodotto di quella materia prima che è la libertà.
    Oggi, una situazione di non-libertà è rifiutata a priori come indegna, non meritevole nemmeno di essere presa in considerazione. La libertà è diventata un criterio assoluto, non come condizione sufficiente ma come la condizione previa.
    Questa esigenza radicale conduce allo sterile rifiuto e alla violenza quando la società degli adulti non è capace di dare una risposta concreta. In una umanità secolarizzata, la fede deve essere e deve apparire frutto di una adesione libera e personale. Ecco quindi che l'eredità religiosa si erge come un ostacolo difficile da superare per la maggioranza dei giovani, poiché sembra contraria ad una giusta autonomia della persona.
    «La secolarizzazione - scrive Newbigin - concede agli uomini la libertà di dubitare, di fare delle esperienze e di prendere decisioni indipendenti. Essa suppone nell'individuo la capacità di prendere delle iniziative, che sarebbero inutili nelle società "sacrali" tradizionali. È un appello a una maggior libertà personale e alle responsabilità portate da questa libertà».
    Perché la fede abbia qualche probabilità di essere accolta dalle generazioni future, dovrà dunque presentarsi come un'impresa di uomini liberi. Ora, l'iter attuale dell'iniziazione cristiana dei bambini causa in molti adolescenti un'impressione sfavorevole. Essi si domandano se la Chiesa crede a ciò che fa, quando restringe ciò che è essenziale dell'educazione della fede e della iniziazione sacramentale all'arco compreso fra gli otto e i dodici anni.
    Certo, è facile rispondere che essi devono continuare la formazione durante tutto il periodo evolutivo, e che l'infanzia è solo una tappa. Ciò non impedisce che la pratica attuale, specialmente il battesimo dei neonati, meriti una seria riflessione perché possa essere resa intelligibile ai nostri contemporanei.

    Preparare l'avvenire

    Le riflessioni che il pastore protestante Von Allmen scriveva nel 1967 su «La Maison-Dieu», sono di uso comune tra i giovani. Egli temeva che il battesimo dei neonati «generalizzato, incontrollato», finisse «per svalutare il battesimo in se stesso».
    «Lo si impartisce - scriveva - o abbassandolo a un livello tale che difficilmente lo si riesce a distinguere da un atto magico, o considerandolo una azione monca, che esige un complemento come la Confermazione, o ancora amministrandolo come una formalità tradizionale, che appare tranquillamente trascurabile in un periodo di profonde trasformazioni».
    Van Lier rivolge agli insegnanti un consiglio che potrebbe essere stimolante per i responsabili della formazione religiosa:
    «L'insegnamento deve cessare di essere il rifugio delle nostre paure, del nostro disimpegno, delle nostre ritirate, dei nostri rancori di ogni genere, e si apra una buona volta verso il futuro» (Les humanités du XX siecle, p. 93).
    «Preparare al futuro» è lo spiraglio che permette alla libertà di assumere la responsabilità del proprio destino, e alla fede di inventare una risposta a Dio. Con il rifiuto di una religione troppo esclusivamente sociologica, rinasce la grande avventura della fede.
    In un certo senso, la nostra epoca rivive la leggenda del Grande Inquisitore. Genitori ed educatori difficilmente accettano che i giovani che hanno sotto la loro responsabilità possano rifiutarsi di credere. In teoria, ammettono che la fede è un atto libero, ma sembra loro inammissibile che i figli o gli allievi corrano il rischio dell'ateismo. Come Ivan, essi rimprovererebbero volentieri a Cristo di aver sopravvalutato l'uomo: «Se tu l'avessi stimato di meno, avresti esigito meno da lui».

    Il desiderio di realizzazione

    Il desiderio di realizzazione, insito nella mentalità moderna, è profondo e complesso come l'esigenza di libertà. Quando alcuni adulti affermano che i loro giovani sono «materialisti», essi spesso ignorano che uno dei più grossi rimproveri che i giovani rivolgono loro è di essere «degli sporchi materialisti» che temono più di ogni altra cosa uno sconvolgimento del loro comfort materiale e morale.
    Questa divergenza sul significato di una parola rivela perfettamente la trasformazione subita dalla scala dei valori. Non solo le parole non hanno più lo stesso significato, ma anche i valori non sono più gli stessi.
    Nella sua «Lettre ouverte à Dieu», R. Escarpit esprime con un po' di humour la conversione a cui è chiamata la Chiesa in questo campo. Secondo lui, bisogna abbandonare il concetto di un Dio «ortopedico» che arriva sulla «corsia di emergenza» per soccorrere l'umanità che si va estinguendo, come la concezione «anestetica», che aiutava a morire.
    «È nella gioia che mi mancate - scriveva a Dio -. È nella gioia che improvvisamente mi piomba addosso l'impressione di un cielo vuoto.
    La vostra religione parla infinitamente meno della gioia che della sofferenza, ed è una cosa comprensibile».
    Fino alla scomparsa dell'era industriale, gli uomini vedevano che il reale limitava l'espressione spontanea della vita. Come spiega Fourastié, il problema era di mantenersi in vita: di qui la necessità dello sforzo e la valorizzazione del lavoro e del sacrificio. In questo universo, abitato dal timore di ciò che mancava, il soprannaturale dominava il naturale nella maggioranza degli individui. Non c'è quindi da stupirsi che la religione parlasse più facilmente della sofferenza da accettare e dell'aldilà da meritare che non della felicità umana e del valore di questo mondo, che non era che un luogo di passaggio, tipo «valle di lacrime».
    I tempi sono molto cambiati. Non è che la felicità abbia sconfitto la miseria, ma è per l'esigenza di felicità che si avverte, almeno nelle società postindustriali In quel mondo, i giovani sono abituati ad una certa opulenza. E anche quando non si è ancora arrivati a questi livelli, la gente sa che è diventato possibile risolvere i problemi della produzione, in modo che gli interrogativi non sono più «come riuscire a produrre», ma «per chi» e «per che cosa produrre». E interrogativi del genere sono non a livello di questioni metafisiche, ma come problemi pratici, psicologici e politici.

    Il reale è divenuto il luogo dell'esistenza

    Non c'è da stupirsi allora che i valori della morale tradizionale - sacrificio, dovere, principi, competizione, merito - abbiano meno mordente sui nostri contemporanei. La loro energia non cerca più di sfuggire questo reale difficile e misterioso, rifugiandosi nel soprannaturale, ma vorrebbe dominarlo sempre più in vista di ampliare le possibilità di realizzazione individuale e di favorire lo sviluppo di tutti i popoli. In questa prospettiva, Martin Luther King, che lottava effettivamente per l'uguaglianza razziale, sarà più ascoltato che i rappresentanti ufficiali della Chiesa. Il reale è divenuto il luogo dell'esistenza, l'oggetto delle preoccupazioni. Il presente ha più valore delle assicurazioni sull'aldilà.
    Tutte le inchieste fatte dopo il 1968 mostrano che le preoccupazioni dominanti dei giovani riguardano le condizioni concrete della loro esistenza, e cioè la loro felicità immediata. La professione, gli esami, l'orientamento, l'avvenire, l'alloggio, gli amici ne sono gli elementi primordiali. Secondo un'inchiesta, «la preoccupazione maggiore dei giovani di provincia è di riuscire nella vita» (Le Monde, 30 dicembre 1969). Per il 51,2% degli studenti e il 40,1% dei giovani operai, il problema più grosso che si pone è quello del loro avvenire, vicino o lontano. L'inchiesta effettuata dal giornale La Croix aveva dimostrato fino a che punto la preoccupazione per l'avvenire professionale tormentasse studenti e operai. L'Express, in un'inchiesta del 12 febbraio 1969, aveva domandato ai giovani: «Che cos'è importante per essere felici, oggi?»: il 98% aveva risposto: una professione piacevole; il 96%: una bella casa; 1'87% avere degli amici.
    In un ambiente rurale, un'inchiesta faceva ugualmente figurare la riuscita scolastica, l'orientamento e il mestiere ai primissimi posti. Lo scopo della vita, la cultura generale, la fede, erano appena accennate. Quanto alla professione, la maggioranza desiderava anzitutto che fosse di proprio gusto, permettesse di vivere con una certa agiatezza e favorisse la riuscita personale. Quest'ultimo punto era messo in risalto soprattutto dalle ragazze.

    Soluzioni concrete a problemi pratici

    Queste cifre rivelano nei giovani inquietudine per l'avvenire e insoddisfazione per la situazione attuale della società, che non risponde subito ai loro bisogni. Ma manifestano anche che essi vogliono delle soluzioni concrete per dei problemi pratici. Come dimostra Cox, in un mondo secolarizzato i problemi da risolvere sono essenzialmente politici.
    Il mondo giovanile, soprattutto dopo i 15 anni, è un mondo secolarizzato, per cui l'idealismo degli uomini di chiesa, il loro modo di studiare la realtà, il loro linguaggio religioso, testimoniano un'era involuta, una mentalità «prescientifica», come dicono gli adolescenti. Certo, ci sono dei giovani che evadono da questo mondo dai contorni reali: l'apatia, il suicidio, la droga e anche alcune comunità religiose disimpegnate hanno potuto presentarsi loro come dei rifugi. L'impazienza nel volere dei cambiamenti e la lucida visione della situazione sociale e internazionale, fanno nascere in alcuni lo scoraggiamento.
    Se si vuole che la fede non diventi un'evasione, dovrà nascere e prendere consistenza in questi contesti realistici. Di fronte alle difficoltà, non mancherà la tentazione di evadere in un cristianesimo disincarnato, o di chiamare cristianesimo ciò che è semplicemente umano. In questo caso però le scienze umane avrebbero ben presto modo di denunciare le false piste. La secolarizzazione segna chiaramente il salto che c'è tra l'uomo e Dio. In un mondo secolarizzato, un incontro tra il mondo e Dio è possibile solo se Dio si manifesta radicalmente «altro» rispetto all'uomo. Così che il facile orizzontalismo è condannato, a beneficio di una autentica Incarnazione, cioè di una solidarietà totale di Dio con l'umanità, senza confusione né separazione.
    Ma, prima di riuscire a trovare la forma nuova, adatta alla società postindustriale, la Chiesa vivrà senza dubbio un lungo periodo di gestazione. Il volto nuovo del Regno non sarà scolpito da decreti o da affermazioni teologiche, ma nascerà da un incontro ancora inedito tra l'uomo della società tecnologica e Dio.

    Fede e impegno politico

    L'incontro tra l'uomo della società post-industriale e Dio si preannuncia difficile. Alcuni teologi e alcuni laici impegnati sostengono che potrà nascere solo con la mediazione della «politica». Hanno ragione? Hanno torto? Certo, conviene essere prudenti, per non ricadere nella confusione fra temporale e spirituale. Ma non siamo troppo precipitosi a respingere l'appello di coloro che esplorano le nuove frontiere dell'umano. Essi forse percepiscono un aspetto ancora sconosciuto della realtà, anche se lo traducono con troppa imperfezione. Le certezze di ieri impediscono qualche volta di riconoscere la verità di oggi. Per non aver ascoltato i profeti, la Chiesa ha visto il progresso umano che si costruiva senza di essa o contro di essa. Non si tratta, allo stato attuale delle cose, di approvare tutte le ipotesi dei ricercatori e dei pionieri, ma di essere attenti alle esigenze nuove che essi intuiscono.
    Se diamo retta ad un pensatore del calibro di Harvey Cox, la dimensione politica, nell'avvenire, rivestirà un ruolo importante non solo nella vita del cristiano ma anche in quella delle Chiese. Egli lo sottolinea ancora nel libro Non lasciatelo al serpente (ediz. Queriniana, 1969), in cui invita i credenti ad assumersi le loro responsabilità di uomini liberi, senza «lasciare al serpente» il compito di decidere per essi.
    «La Chiesa del futuro avrà certamente un'importante dimensione politica. Noi stiamo scoprendo che il rinnovamento della Chiesa avviene solo quando essa riassume l'apostolato politico. Se guardiamo (...) i preti operai in Francia, o i rivoluzionari cattolici romani in America Latina, dovunque troviamo nuova vita nella Chiesa, troviamo impegno politico. I futuri storici della Chiesa noteranno certamente che le più importanti figure religiose della nostra era, i santi del ventesimo secolo, hanno raggiunto la loro santità principalmente nell'obbedienza al dovere politico.
    Nei prossimi mesi e anni sarà impossibile separare l'obbedienza al dovere politico da una nuova forma di apostolato cristiano.
    Il nostro principale problema nella chiesa sarà quello di come impegnarsi politicamente senza essere arroganti crociati. (...) Noi dobbiamo essere in pari tempo espliciti ed umili nella nostra obbedienza politica» (p. 161).
    Questo legame tra apostolato e dovere politico non è più ormai un problema puramente teorico. Nell'ultimo consiglio nazionale, la JEC l'ha abbordato molto esplicitamente nell'esposizione delle linee programmatiche:
    «Siccome la politica è il luogo in cui gli uomini determinano più nettamente le finalità della loro vita sociale, ci sembra che, lungi dall'essere l'occasione per un'altra forma di oppressione, è una nuova possibilità di libertà che è data attualmente agli studenti, il poter esprimere ciò che vogliono fare della loro vita. Il fondamento dell'azione e dell'analisi politica non si colloca, secondo noi, nella gestione della realtà così come è, dello status quo sociale, ma nella lotta incessante contro tutto ciò che impedisce all'uomo di prendere le redini della propria vita. La politica è innanzitutto lotta contro la morte, e tutte quelle forme di rassegnazione che tendono a giustificare, servendosi del "realismo", l'ingiustizia, lo sfruttamento, gli attentati alla libertà».[1]
    Del resto, è scontato che sono gli studenti a spingere le chiese e i partiti politici a interessarsi dei problemi nuovi posti dallo sviluppo, perché l'Università è, senza dubbio, uno dei luoghi in cui si costruisce la civiltà nascente. Ma c'è ancora molto da sperimentare e da approfondire perché queste «utopie» necessarie lievitino la Chiesa senza snaturarla.

    I giovani rifiutano l'idea di una salvezza?

    Analizzando l'inchiesta de L'Express (febbraio-marzo 1969), Francoise Giroud scrive:
    «La gioventù va sempre più persuadendosi che si trova sulla terra per essere felice e non per guadagnarsi la salvezza».
    Ecco alcune risposte alla domanda:
    «Che cos'è che va male in Francia?»:
    - le possibilità offerte ai giovani: 85%
    - il sistema economico: 72%
    - la politica: 58%
    - il regime: 54%
    - la prosperità del paese: 49%
    Non sarebbe giusto allora dedurre da questi dati che la gioventù è sempre più persuasa che la sua salvezza è fatta innanzitutto della felicità sulla terra, e che sono molti a pensare che, per arrivarci, c'è parecchio da cambiare nella società? Forse, i più consapevoli non sono lungi dal pensare che il cambiamento deve essere totale.
    A questo proposito, si tocca il punto più profondo dell'attuale crisi dell'educazione: esso consiste nel fatto che si tratta di una crisi di civiltà e lo riconoscono anche gli uomini politici più conservatori. E allora, che cosa può insegnare una società che è contestata nelle sue finalità come nelle realizzazioni, se non la rivoluzione?
    Colette Boillon illustrava questo stato di cose con una citazione di Péguy:
    «Quando una società non può insegnare, non è che manchi accidentalmente di un apparato o di un'industria... È che non può "insegnarsi"; è che ha vergogna, ha paura di farsi oggetto del suo insegnamento... una società che non si insegna è una società che non si ama, che non si stima: e questo è precisamente il caso della società moderna».
    E Colette Boillon aggiungeva:
    «Se la nostra società non ha un piano educativo, non è logica conseguenza del fatto che non ha piani del tutto? Quello che bisogna fare è dare un senso al presente, a quello che ognuno vive ogni giorno. Una educazione vera porta all'integrazione nella società. Ma perché ci si integri veramente, bisogna che questa società abbia un senso» (La Croix, 19 febbraio 1970).
    Io aggiungerei: «e che questo significato sia accettato». Ora, noi viviamo in un periodo di rigetto. Forse, si tratta non tanto di dare un'anima alla società che conosciamo, quanto piuttosto di costruire una società che possa avere un'anima.

    Una salvezza che supera la politica

    In questa situazione di contestazione, una fede che si presentasse come principio di integrazione nella società stabilita o come evasione dal reale, sarebbe generalmente rimessa in discussione dai giovani e respinta da quelli più impegnati. Per conservare una forza d'urto sufficiente, il vangelo deve raggiungere gli uomini a livello del progetto che essi pretendono di elaborare per la società. Agli occhi dei nostri contemporanei, la fede merita considerazione nella misura in cui è a servizio dell'uomo. Senza negare la possibilità eccezionale che questa esigenza rappresenta per un'autentica incarnazione, si tratterà di non ridurre il Regno al divenire terrestre dell'umanità, e di non confondere la comunione nel Cristo con una semplice comunità ideologica. Se ciò si verificasse, i cristiani non porterebbero al mondo ciò che solo il vangelo è capace di comunicargli, la Salvezza di Gesù Cristo.
    Del pari, una educazione alla fede che non fosse altro che conoscenza disincarnata, pratiche religiose senza legami con la vita collettiva, codice di santificazione individuale, sarebbe senza futuro, perché non avrebbe incidenza sulla storia umana da trasformare. E chi si sentirebbe di rimpiangerla? La Chiesa non può predicare l'amore universale e assoluto senza volere dai suoi fedeli che essi lavorino per far nascere un mondo radicalmente diverso. Se mi si permette un paragone ardito, direi che una Chiesa a base di preservativi è illogica rispetto al messaggio che genera e quindi il ventesimo secolo non ne prova interesse.
    «La Chiesa non può più accontentarsi di predicare il "giusto mezzo"... Il cristiano deve consacrare al programma politico il migliore dei suoi sforzi» diceva J. Boissonnat durante un incontro del «Mouvement des Cadres Chrétiens» (Le Monde, 18 ottobre 1969).

    La sete degli altri

    In margine alla società adulta, più o meno in rottura con la famiglia, i giovani cercano di ritrovarsi fra loro e aspirano a vivere in armonia col gruppo. L'affermazione del bisogno di essere insieme, di comprendersi, di discutere, questo bisogno dell'«altro», lo si avverte ovunque.
    Nelle inchieste, oltre il 90% degli adolescenti affermano che preferiscono ritrovarsi tra di loro. Alcune risposte bastano a spiegare i motivi del loro desiderio:
    «Noi abbiamo problemi comuni, le stesse idee, le stesse gioie, le stesse aspirazioni. Ci capiamo meglio».
    «Fra noi giovani ci sentiamo a nostro agio, possiamo discutere».
    «Non si può vivere soli; si sente il bisogno di incontrare altri giovani, di operare insieme».
    Così, la loro esigenza di libertà, il desiderio di realizzazione e l'ansia di riforme, essi li riflettono e cominciano a metterli in pratica in questo mondo dei giovani che coesiste di fianco a quello degli adulti. Ma, come dice il proverbio, «tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare»: il desiderio di trovarsi insieme non significa la riuscita dell'incontro. Ci vuole altro! Basta essere animatori di un gruppo di giovani per scoprire la difficoltà del conoscersi per dialogare. La volontà di non rompere l'unità del gruppo, la paura di isolarsi, neutralizzano lo scambio. Di qui le disillusioni a proposito di se stessi e degli altri, a misura che gli anni passano.
    Se, nel 1969, 10.000 giovani francesi si sono drogati, e 5.000 studenti delle medie superiori hanno tentato di suicidarsi, il fallimento dell'incontro ha il suo peso. Perché è un fatto che l'insoddisfazione provata non si dice sempre. Allora, ognuno trascina la sua solitudine sotto un apparente cameratismo.
    Certo, la droga e il suicidio interessano solo una piccola minoranza, ma spesso sono segni dell'importanza che i giovani danno all'accordo con il loro mondo e ai legami molto stretti con un piccolo gruppo, dove ci si senta perfettamente affini.
    «Io ho paura, dice Michel (16 anni), ogni volta che i compagni mi sfuggono, e che mi si prospetta la possibilità che il clima attuale di simpatia che ho attorno possa rovinarsi, deteriorarsi e divenire tempestoso».

    Una predisposizione alla dimensione comunitaria del cristianesimo

    Nell'accostarsi alla fede, come nell'avvicinarsi al mondo, questo universo giovanile assume il ruolo di punto di riferimento. Meno la personalità del giovane è salda, più questa griglia di interpretazione tende a divenire assoluta.
    Ma per la maggior parte questo fenomeno si presenta così: i giovani hanno l'impressione che per la maggioranza dei coetanei, la fede sia una cosa sorpassata, la pratica sia ridicola. «Coloro che non hanno fede sono sempre più numerosi, e noi, di fronte a loro, passiamo per originali, per individui che perdono tempo», dicevano un gruppo di giovani di AC. Aver fede vuol dire per essi correre il rischio di estraniarsi dall'universo dei giovani, in cui aspirano a realizzarsi. La separazione non può che essere fonte di insicurezza.
    Il rischio della spersonalizzazione non deve nascondere il fatto che nella mentalità attuale c'è una predisposizione alla dimensione comunitaria del cristianesimo. L'incontro con una comunità autentica diviene condizione essenziale perché i giovani accolgano la fede e la vivano. Per usare le loro parole, è per essi un «bisogno».
    Per esempio, Ghislaine:
    «La comunità risponde a un mio bisogno, quello di realizzare la mia fede: la vita interiore nasce grazie a un lavoro esteriore».
    In modo brutale, Bernard esprime la stessa richiesta:
    «Io aderivo di più alla Chiesa, prima di scoprire il Dio-Amore: quando credevo al Dio-giustiziere che mi avevano insegnato. Ora che credo al Dio-Amore, io credo alla comunità, ma non più alla Chiesa».
    E non si pensi che queste dichiarazioni siano delle boutades. Esse annunciano la fine di una civiltà che parlava di Dio basandosi sul timore o sul sacro, e presentando la Chiesa come Istituzione. Ormai, Dio deve essere percepito come Amore e la Chiesa come «comunità», pena il rifiuto.
    In questo clima, niente può avere più effetto della testimonianza di fede offerta da uno dei membri del gruppo, o da un rappresentante del mondo dei giovani. Dopo lo stupore, segue facilmente la simpatia: e non è raro uno scambio serio.
    L'influsso vicendevole dei giovani non deve far pensare ad un ritorno del «militantismo» e della politica dei «conquistatori». Il cammino è tutt'altro. Si iscrive in un movimento di simpatia e di partecipazione senza secondi fini di conquista e nemmeno di influenza. Il bisogno dell'altro si vive in un'esigenza di libertà che cerca la realizzazione della persona.

    La prova della sperimentazione

    Seguendo la linea della sottomissione al reale e del desiderio di realizzazione, i giovani sono più sensibili all'esperienza che alle affermazioni dottrinali. Il dogmatismo non soddisfa più. Verrà ritenuto vero ciò che avrà provato il suo valore coi fatti.
    Parlando della sua fede, un giovane diceva:
    «La mia fede io non posso incontrarla che quando mi pongo di fronte a me stesso. È questa esperienza fondamentale, cioè l'impotenza a capire me stesso, che mi ha spinto a domandarmi se per caso non esisteva un Salvatore. È l'esperienza della morte a me stesso. È allora che la Rivelazione della Parola di Dio mi ha incontrato, è la mia esperienza, è tutto: quella degli altri è solo un punto d'aiuto».
    L'insegnamento della Chiesa subisce, come tutto il resto, la prova della sperimentazione.
    Questo è tanto vero che, se l'autorità ecclesiastica imponesse delle regole o sostenesse delle affermazioni che sembrassero contrarie alla scienza o anche solo all'esperienza quotidiana, molti giovani che pure si dicono cristiani non se ne sentirebbero obbligati. Anche una presentazione troppo ideale dell'amore evangelico o della gioia cristiana, fa sorridere e allontana dalla fede.
    Siamo ormai entrati in una civiltà tecnica che passa al vaglio dell'esperienza concreta le grandi affermazioni.
    Per forza di cose, la Chiesa sta operando una riconversione salutare. Respinta come istituzione, riscopre la comunità. Rifiutata come eredità culturale, si ritrova missionaria. Contestata nei riti, rinasce nel cuore della vita.
    In questo movimento in cui la Chiesa è spinta a ridiventare se stessa, è naturale che la pedagogia della fede sia chiamata a compiere la stessa rivoluzione.

    UNA NUOVA PEDAGOGIA DELLA FEDE

    Il tempo della pazienza

    Un tempo, cattolici e protestanti cercavano di rubarsi i fedeli gli uni agli altri. Questa pastorale che somigliava troppo a una gara di pesca è finita. Oggi, i cristiani sperano che l'unità si realizzi a livello delle varie confessioni, e che non sia un compromesso con la verità, ma un approfondimento di essa per poter oltrepassare i limiti di ogni gruppo.
    Fatte le debite proporzioni, io penso che un fenomeno simile si verificherà nell'incontro tra le nuove generazioni e la Chiesa. Infatti, non basta riuscire a integrare qua e là qualche giovane nelle attuali istituzioni ecclesiali, soprattutto se per questo essi dovessero estraniarsi dal mondo nuovo. Ma bisogna operare per far sì che la futura civiltà, in ciò che avrà di specifico, incontri il vangelo. È nella misura in cui l'umanità di domani realizzerà questo incontro a livello dei suoi gangli vitali che la fede diverrà concepibile e anche desiderabile alle generazioni future, senza che i credenti debbano rinnegare le ricchezze, le aspirazioni e i modi espressivi della loro epoca.
    L'atteggiamento apostolico non consiste mai nel ritirare dal mondo degli individui per riempire un'istituzione prestabilita, che vivrebbe ai margini di questo mondo pur nutrendosi del suo essere. Il problema è aiutare l'umanità, lungo tutto il corso della storia e addirittura nella trama di essa, a divenire «Chiesa», come Dio glielo propone. Rassegnarsi pessimisticamente che questo Regno diventi una setta per alcuni predestinati non è nella logica del cristianesimo.

    Vivere la vita degli uomini

    In un mondo secolarizzato, l'evangelizzazione reclama più che in qualsiasi epoca precedente che i cristiani partecipino alla vita degli uomini e che siano con essa totalmente solidali. Solo allora potranno, nel cuore stesso di questa solidarietà, essere testimoni dell'Amore che viene da Dio. Perché questa solidarietà sia operante, è importante che possa avere un aggancio là dove gli uomini esprimono le loro aspirazioni nuove e decidono il loro avvenire: la politica, l'educazione, la ricerca scientifica, la filosofia, l'arte, i grandi fenomeni giovanili tipo hippies o pop music... Gli educatori avrebbero tutto l'interesse a prestare più attenzione a ciò che cantano i poeti. Per fare un solo esempio, ricordiamo che la canzone di Bod Dylan «Perché il mondo e i tempi cambiano!» godeva del favore dei giovani francesi già parecchi anni prima del maggio 1968. È un vero peccato che gli adulti non abbiano meditato prima delle parole come queste:
    «Voi, padri e madri di tutti i paesi, non criticate più, perché non avete capito: i vostri figli non sono più sotto la vostra autorità, sulle vostre vecchie strade il selciato è sconnesso, camminate su quelle nuove o restatevene nascosti, perché il mondo e i tempi cambiano!».
    Costringendo i cristiani alla solidarietà e alla testimonianza, le circostanze portano la Chiesa a riscoprire la pedagogia della Incarnazione. «La Chiesa non deve adottare la politica della porta chiusa», ma deve imitare il Cristo che ha partecipato alla nostra umanità perché noi potessimo partecipare della sua divinità, come ricordava mons. Guano presentando la «Gaudium et Spes» ai Padri conciliari.

    Gli educatori devono essere pazienti

    Il rispetto per il cammino di una generazione apre agli educatori della fede il tempo della pazienza. Poiché la conversione personale dei giovani si iscrive, in buona parte, all'interno del movimento di conversione della civiltà post-industriale, l'attività apostolica è paragonabile più alla semina che alla mietitura.
    Laici impegnati, preti e catechisti scoprono i meriti dell'incrollabile pazienza di Dio per cui mille anni sono come un giorno, senza che ci sia un'ora inutile. La prova riesce penosa per delle persone che vivono in un momento in cui trionfano dappertutto la rapidità e l'efficienza. E intanto l'organizzazione ben strutturata e la rigida legislazione dei secoli della cristianità lascia sempre più posto all'iniziativa personale e alla legge interiore.
    In questa situazione, gli educatori degli adolescenti assomigliano un po' a un modulo lunare. Essi corrono parecchi rischi: il ritorno all'antica sicurezza dopo un debole decollo verso i giovani, senza allunaggio; la fuga senza ritorno dall'universo tradizionale, non andando però da nessuna parte, come una specie di satellite artificiale; allunare senza riserva di ossigeno. L'arte consiste nel riuscire a partecipare veramente alla vita dei giovani rimanendo sempre se stessi, anzi, crescendo in autenticità.

    Educatori ben consci di se stessi

    Gli adulti non sono immuni dalla crisi generale. Per la funzione che devono svolgere, gli educatori - specialmente se sacerdoti e religiosi - sono forse coloro che ne risentono più intensamente.
    Quasi tutti gli educatori della fede devono riconvertirsi non solo nel metodo ma soprattutto nel profondo dell'essere, per non restare schiavi di schemi sorpassati e non legare il vangelo a forme religiose ormai scadute. Ma, pur effettuando questa conversione personale, essi rivestono per i giovani quel ruolo di animatori adulti che è indispensabile all'evangelizzazione degli adolescenti.
    Così l'adulto deve assumere un atteggiamento distaccato verso la sua crisi interiore, se non vuole farla pesare sulle spalle dei giovani, accentuando così la crisi di una giovinezza in ricerca con quella di un adulto alla deriva. Il lavoro di gruppo non deve in nessun caso far subire agli adolescenti lo «strip-tease» spirituale e morale degli educatori. Una cosa è l'atteggiamento di disponibilità, un'altra è l'inconsistenza; una cosa è la franchezza, un'altra la sfacciataggine; una cosa è l'animazione di gruppi di adolescenti nel quadro della formazione religiosa, un'altra è partecipare a un lavoro di gruppo fra adulti senza esserne animatore.

    Dalla consapevolezza di vivere alla fede cosciente

    L'adolescente, mentre si trova coinvolto nel movimento di conversione della civiltà nascente e vi è radicato, vive un momento analogo di conversione personale. Il desiderio di autonomia che lo invade poco a poco, dalla pubertà alla maturità, identifica la sua storia con quella della civiltà scientifica e tecnica. Come questa, egli rivendica il diritto alla responsabilità e alla realizzazione.
    Questa affinità rende gli adolescenti più sensibili degli adulti alle nuove aspirazioni che trasformano la mentalità dei nostri contemporanei. Non è che chi ha più di trent'anni non partecipi al cambiamento che rimprovera ai più giovani. Basta notare l'influsso dell'automobile e della televisione sulla loro generazione. Ma, in forza dei loro legami con la civiltà precedente, gli adulti adottano la nuova mentalità sempre confrontandola all'antica. I giovani invece sono immersi in quella nuova, senza riferimenti interiori al passato.
    I gruppi giovanili, microcosmi della rivoluzione totale, annunciano l'avvenire meglio dei filosofi e dei teologi. Per questo, è possibile prevedere che le nuove espressioni ecclesiali - comunità cristiane, tipi di apostolato, vocazioni, ministero sacerdotale, vita religiosa... - nasceranno da questi gruppi nella misura in cui la fede, in loro e per mezzo loro, avrà agito nella società post-industriale. In questa rinascita spirituale, la creazione di nuovi linguaggi di fede rivestirà un ruolo fondamentale nel permettere ai credenti di situare la loro fede a livello dei problemi posti dalle scienze umane: problemi che raggiungono ugualmente il grande pubblico attraverso la volgarizzazione effettuata dai mass-media. Ma, perché un giorno appaiano queste nuove espressioni di vita cristiana, bisogna lasciare all'lncarnazione il tempo di portare a termine la sua opera.

    Il cammino della fede

    La pazienza è esigente a livello degli individui come a quello delle generazioni. Nessuno conosce esattamente i limiti di questo lavorio di nascita, quando si tratta della fede. L'iniziativa divina e la libertà umana trasbordano ogni analisi, per quanto penetrante.
    Gli adolescenti e i giovani sperimentano oggi una lenta maturazione psicologica e spirituale. Quasi tutti coloro che durante l'infanzia hanno ricevuto una formazione religiosa, durante la pubertà iniziano un periodo di rigetto. Essi rivendicano la libertà di fronte alla religione della famiglia. Al cospetto di questa reazione, alcuni educatori non colgono con sufficiente chiarezza il valore di questa scoperta esistenziale della libertà per la maturazione di un adolescente.
    Il passaggio dal desiderio di libertà alla conquista dell'autonomia personale, che i giovani devono realizzare tra i 15 anni e la maturità, è essenziale per permettere all'essere umano di avere in seguito una fede adulta: in altre parole, è un fenomeno «normale». La necessità di poter vivere questa tappa specifica senza che il risultato sia garantito in anticipo, porterà senza dubbio a mettere a punto un ritmo più coerente dell'educazione alla fede dalla prima infanzia all'età giovanile.
    Facciamo un esempio solo: la sacramentalizzazione. La pastorale attuale è troppo simile a una pedagogia di «ricupero», in cui l'educatore si consola del fatto che i bambini capiscano poco del sacramento nel momento in cui lo ricevono, nella speranza che essi «ricupereranno» più tardi. Agire in questo modo non è fare troppo affidamento sull'eccezione, a detrimento di quella che è la normale esperienza? È difficile rendersi conto della ragionevolezza di ciò che si fa. Un difetto di questo genere sarebbe gravido di conseguenze, in un'epoca critica come la nostra; e non solo per i giovani, ma anche per quei sacerdoti e quei catechisti che vogliono comprendere i fondamenti di ciò che insegnano e praticano.

    Rispetto del carattere personale

    L'esigenza di una giusta autonomia non significa per nulla impossibilità di credere, ma rispetto del carattere personale, per cui la fede è vista prima di tutto come ricerca faticosa e sincera, piuttosto che come possesso facile e definitivo.
    A partire dai 13 anni, comincerà per la maggioranza degli adolescenti una lenta interrogazione sulla loro propria esistenza e sul mondo che li circonda Si crea in essi una distanza di fronte al mondo esterno e a loro stessi, aprendo la porta a una riflessione più o meno profonda a seconda degli individui.
    La sete di vivere intensamente, spinge molti giovani a porsi degli interrogativi sul «come vivere»: all'interno di questi, ha molta probabilità di emergere una domanda sul «perché vivere».
    A condizione che si rispetti il loro cammino e che essi possano riflettere in un gruppo, alcuni desiderano o almeno accettano di intraprendere una ricerca che non escluda l'elemento di fede.
    La dinamica di gruppo si rivela lo strumento privilegiato per quest'opera, a condizione che non sia una fuga dal reale «politico» verso il puro psicologismo o l'intellettualismo disimpegnato. In questi casi, la dinamica di gruppo non sarebbe che un espediente per far finire la noia dei ricchi e la rivolta dei poveri.

    Bisogna avviarsi verso un sinergismo delle funzioni ecclesiali?

    Van Lier descrive un fenomeno che potrebbe essere assunto come parabola di ciò che succede nell'educazione della fede.
    «La struttura di un aereo deve rispondere almeno a tre esigenze: essere dotata di una certa rigidità, offrire una conveniente superficie di sostentamento, fendere l'aria facilmente. Gli apparecchi di inizio secolo prevedevano a questo scopo una carcassa che garantisse la rigidità, e un rivestimento, per la superficie di sostentamento; ma questa distinzione carcassa-rivestimento imponeva un peso e una forma spigolosa poco compatibili con la penetrabilità nell'atmosfera. Negli aerei di oggi, il rivestimento è fatto in modo da essere il più possibile autoportante... in misura tale che può diminuire il lavoro della carcassa e talvolta anche sopprimerla. Nello stesso tempo, migliora la sua superficie di sostentamento, e facilita la penetrazione nell'aria, perché le forme autoportanti, aerodinamiche, sono ideali per questo. Siamo dunque qui in presenza di tre funzioni, di cui una - il rivestimento - comprende anche buona parte delle altre - sostentamento e avanzamento. Bisogna anche precisare che, compiendole quasi da sola, e dunque sopprimendo in larga misura gli antagonismi che non mancano mai di nascere tra organi distinti, essa li perfeziona».
    Ciò che capitava nelle costruzioni aeronautiche, la Chiesa lo praticava nella formazione religiosa dei fedeli. Ogni funzione era affidata a un diverso organismo, che raramente coordinava le sue funzioni con quelle degli altri. La funzione dottrinale spettava alla catechesi, la funzione liturgica alla parrocchia e la funzione apostolica all'Azione Cattolica. La mancanza di coordinamento provocava spesso una dispersione di energia.
    Prendiamo solo il caso della liturgia: quanti adolescenti hanno abbandonato ogni pratica sacramentale, per non averla vissuta in stretto legame con ciò che scoprivano nella catechesi o in un gruppo!
    Nel corso di questi ultimi anni, le esigenze dei giovani hanno fatto crollare le impalcature. Trovatisi a terra, gli uomini hanno riscoperto il legame intrinseco che esiste tra esperienza umana, accoglimento della Parola di Dio, liturgia e dinamismo apostolico.
    Non si tratta di augurarsi per la pastorale una uniformità semplicista o una unificazione totalitaria. Il problema non è questo. Quello che importa, è comprendere che c'è non solo una logica nel cammino della fede che va assolutamente rispettata, ma anche una coerenza interna tra gli elementi che costituiscono la pedagogia della fede che bisogna mettere in gioco. Il coordinamento delle funzioni esercitate dalla Chiesa non è richiesto per la pace interiore ma perché il sinergismo di tutte perfeziona l'azione di ognuna e dà con ciò una certa completezza al lavoro della Chiesa.

    CONCLUSIONE

    Di fronte all'ampiezza del cambiamento, alcuni non si sentono più tranquilli: temono per l'avvenire religioso dell'umanità, e perfino per il suo avvenire umano. «L'umanità in pericolo di progresso», scrive Francois de Closet. È evidente che gli uomini dovranno risolvere problemi enormi negli anni futuri, perché la terra resti abitabile. Ma non bisogna confondere la caduta di una civiltà e anche di un impero con la fine del Regno, come fanno i profeti di sventura stigmatizzati da Giovanni XXIII. Se approfitta dell'occasione di rinnovarsi che le è offerta, la Chiesa forse permetterà all'umanità di avviare un movimento di rinascita spirituale senza precedenti. All'uomo, liberato grazie alla macchina che dovrà dominare, si spalancherà l'universo culturale e spirituale.
    Questo non è il tempo di restaurare le facciate, ma di costruire ex novo, per permettere allo Spirito di manifestarsi.

    [1] Anche l'A.C.I., nel documento conclusivo della prima assemblea nazionale, ha ripreso lo stesso tema, anche se in termini più vasti: «La ricchezza profonda di tale scelta impegna l'A.C.I. ad uno sforzo di chiarificazione del suo significato. Da tale sforzo emerge una prima direzione fondamentale, volta a superare ogni dualismo tra scelta religiosa ed impegno nella storia. L'aver infatti oggi intuito che la nostra attenzione deve essere rivolta all'uomo in quanto tale e che non esiste vita di fede disincarnata dalla esistenza di ogni giorno, ci fa consapevoli che è necessario porre al centro della catechesi e dell'annuncio la persona di Cristo come «il Dio con noi e per noi», che, assumendo fino in fondo la nostra esistenza, la conduce a salvezza.
    I problemi e le sfide che la vita e la storia presentano ricevono così luce nuova dalla Parola e, al tempo stesso, ne consentono una interpretazione più autentica e ricca.
    La Parola di Dio appare così, proprio in quanto capace di creare uomini nuovi, portatrice di una profonda carica di trasformazione della vita e della storia pur nell'impossibilità di offrire soluzioni temporali definitive o garantite anticipatamente. La coerente testimonianza di vita, che rende più credibile il messaggio di salvezza, appare pertanto essenziale all'esperienza religiosa e richiede un atteggiamento di assidua ricerca, per rimanere fedeli alla Parola e attenti alle esigenze concrete dell'uomo e particolarmente alle situazioni di sfruttamento e di oppressione in cui ancora egli si trova. In tali situazioni l'A.C. è impegnata ad una presenza attenta e critica, proprio in nome della pienezza e della credibilità dell'annuncio, e tesa verso quella profonda trasformazione del mondo che la santità dei cristiani sempre produce».


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