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    IL RINNOVAMENTO DELLA TEOLOGIA MORALE

    La teologia morale è forse la disciplina teologica che negli ultimi anni ha ricevuto la revisione, starei per dire la rivoluzione, più profonda. Non tanto nel senso che sono venute mutando alcune a sentenze» morali, ma soprattutto nel senso che si è revisionato il metodo con il quale elaborare questa disciplina: il rinnovamento più sostanziale, più che al mutamento di alcune opinioni ritenute nel passato, è dovuto a una reimpostazione di ordine metodologico.
    Questa reimpostazione ha soprattutto operato in due sensi:
    - Anzitutto lo sforzo che la teologia morale ha fatto per ritrovare le attitudini proprie della condotta morale cristiana e ritrovarle in un accostamento più attento e più fruttuoso alle grandi fonti del sapere morale cristiano (la parola di Dio, come è trasmessa e continuamente ripensata dalla tradizione cristiana). Così, i grandi temi della morale cristiana come morale della perfezione, come morale della configurazione a Gesù Cristo, come morale della docilità allo Spirito Santo, come morale della coscienza, come morale dell'attesa del compimento escatologico e quindi morale della speranza, come morale che ha la sua legge fondamentale nella carità infusa in noi dallo Spirito Santo, e così via: queste grandi idee sono state riscoperte ed esposte proprio in un più metodico accostamento alla Bibbia e alla secolare riflessione cristiana che ne è scaturita.
    - La seconda direzione, invece, del rinnovamento metodologico si è sviluppata nel senso di un accostamento più fecondo della morale cristiana con le varie espressioni della cultura del nostro tempo. Del resto, questo è un compito di sempre per la teologia: raccogliere la ricchezza della parola e confrontarla continuamente con la cultura del tempo in cui questo impegno teologico viene attuato. I punti più fecondi di incontro tra il pensiero morale cristiano e le varie espressioni della cultura moderna si sono avuti sul terreno della psicologia (particolarmente della psicologia del profondo), della sociologia, della antropologia del nostro tempo: in una parola, nel terreno delle cosiddette «scienze dell'uomo».
    È un rinnovamento ancora in corso, ma profondo, che ci consente di essere abbastanza fiduciosi sul destino di questa disciplina teologica, che era invece divenuta in certi ultimi periodi una semplice etica razionale o addirittura un'esercitazione casuistica. Di tutta questa revisione, ovviamente, anche il confessore deve tener conto: e benché oggi si insista per non concepire più la teologia morale come la «scienza dei confessori» (anzi, quel rinnovamento metodologico include una ferma critica a questa angusta concezione), tuttavia anche ai confessori questa nuova teologia morale ha molte cose da dire e molti atteggiamenti da suggerire per un efficace esercizio del loro ministero.

    ALCUNI SUGGERIMENTI PER LA FORMULAZIONE DEL GIUDIZIO ETICO

    Ci limiteremo qui a indicare alcune direttive generali che interessano l'elaborazione del giudizio etico quale il confessore è chiamato a fare e deve far fare al penitente. Se qualche esemplificazione sarà opportuna la desumeremo di preferenza dalla problematica morale giovanile.

    1. Il giudizio morale si elabora nella coscienza

    Sembra una affermazione ovvia, ma è un richiamo a un grande tema rivelato, riscoperto nelle riflessioni teologico-morali recenti: la morale cristiana è nel suo complesso un appello alla coscienza, che coinvolge continuamente la responsabilità del soggetto. Lo stesso termine di coscienza, del resto, è di conio cristiano (il corrispondente termine greco «sinèidesis» non ricorre che quattro volte sole nella cultura ellenistica precristiana, e invece appare trentun volte in S. Paolo); e pensiamo inoltre all'insistenza con cui Gesù ha posto nel «cuore» il centro della vita morale e la sede vera della nuova giustizia.
    Il confessore dovrà sempre badare a questo: che il giudizio morale sia veramente un giudizio di coscienza, che scaturisca da un convincimento interiore. Affiora qui l'esigenza della responsabilizzazione verso un cristianesimo non più di ordine sociologico, ma di convinzione: nasce di qui il rispetto della buona fede altrui e dei suoi diritti, il rispetto per il fratello che ha la coscienza debole (come direbbe S. Paolo): non sempre, del resto, è opportuno correggere la «buona fede» dei nostri cristiani, la quale potrebbe poi davvero rivelarsi come la «fede buona»; e si fonda su questo appello alla coscienza la possibilità dell'incontro sul piano operativo e della carità, nonostante le divergenze ideologiche (incontro i cui rischi sono superati quando i cristiani abbiano conseguito con maturità questa capacità di fedeltà alla loro coscienza).
    Il giudizio morale nasce dunque nella coscienza. È il singolare scaglionarsi di tribunali di cui ci informa la parola di Dio: c'è il «foro interno» della coscienza, quel tribunale interiore il cui verdetto verrà ripreso nel supremo tribunale di Cristo (Rom 2, 15-16); e c'è il tribunale della Penitenza, il cui giudizio sarà pure ratificato da Cristo nell'ultimo giorno (Giov 20, 23). Nessuna soluzione di continuità, idealmente, esiste: è la coscienza che fa scaturire il giudizio, al quale fa riferimento quello pronunciato dalla Chiesa e da Cristo.

    2. Il giudizio morale, elaborato dalla coscienza, deve riguardare gli abiti prima che gli atti, le scelte di fondo e permanenti prima e più che le singole azioni, la direzione più costante di vita prima e più che i distinti comportamenti

    Ci siamo limitati, spesso, a giudicare i singoli e distinti comportamenti senza collocarli nel contesto concreto di vita in cui si pongono e dall'opzione di fondo da cui scaturiscono e di cui sono conferma o smentita. Al contrario, ci viene una lezione dalle recenti ricerche sul tema della «opzione fondamentale»: atti materialmente identici possono avere significato e valenza etica diversa; ogni scelta deve essere inserita nel contesto morale generale, che deve essere il primo e più importante concetto della nostra valutazione.
    Senza dubbio, le riflessioni sulla opzione fondamentale non si limitano a questa considerazione. Sono riflessioni molto più ampie. In generale esse hanno cercato di capire a quale livello di profondità ontologica si colloca quella decisione essenziale della nostra vita, per la quale diciamo sì o no a Dio, mettiamo in gioco la nostra esistenza con una opzione veramente e unicamente grave. Tutte le altre scelte (che possiamo chiamare tematiche, categoriali, in quanto riguardano settori particolari della nostra vita) si riferiscono all'opzione fondamentale; nessuna di esse riesce a tradurre tutta la potenza di risoluzione vitale che ha quella decisione di fondo. Da questi studi, comunque, è emersa anche questa conclusione operativa che possiamo far nostra, nel ministero della confessione: non dobbiamo giudicare le singole scelte atomisticamente, isolandole dal contesto. È molto più importante l'atteggiamento di fondo della nostra esistenza, secondo che esso è un atteggiamento di crescita nell'amore di Dio e degli altri o se è un atteggiamento di chiusura e di egoismo. Le singole scelte prendono forma e contenuto morale da questi atteggiamenti di fondo.

    3. L'intenzione con cui si agisce appare in tal modo un costitutivo essenziale della moralità di una scelta concreta: è precisamente il fine che quasi sempre specifica il mezzo

    Noi ci siamo sentiti dire molto spesso che il fine non giustifica il mezzo. È vero. Ma si deve anche dire che proprio la finalità morale qualifica la scelta che si fa. La scelta di per sé, sotto un profilo obiettivo, rarissimamente ha un significato morale, se non perché le è dato dall'intenzionalità presente nell'azione. Si può dire che quasi sempre, e cioè tutte le volte che il mezzo non è la persona, è proprio il fine che specifica i mezzi. La discussione è stata fatta in questi ultimi anni riguardo a due serie di problemi: riguardo cioè al caso di trapianto e al caso della sterilizzazione.
    * Per i trapianti è chiaro che in essi vi è anche una mutilazione; e se si badasse a questo solo elemento, il trapianto difficilmente potrebbe apparire lecito (parliamo naturalmente del trapianto da vivo a vivo). Ma l'intenzione profonda per cui quella mutilazione è messa in atto le dà un significato morale totalmente diverso: essa appare allora un servizio del prossimo, un gesto di soccorso e come tale può essere legittimo tutte le volte che non comporti per il donatore una menomazione sostanziale della sua dignità di persona.
    Così per certi casi di sterilizzazione (l'uso della pillola, ad esempio, per prevenire le conseguenze di una violenza sessuale) la riflessione teologica cercò di giustificarne la legittimità (il che è stato riaffermato da insigni moralisti anche dopo la «Humanae Vitae») facendo leva sull'ingresso qualificante della intenzione con cui si agisce: è bensì vero che si verifica in questo caso un intervento di sterilizzazione (temporanea), ma ciò avviene nella volontà profonda di un bene personale, l'immunità dalla gravidanza che in questi casi si ha il diritto di conseguire. Ancora una volta è l'intenzione che specifica il mezzo scelto.
    * È che gli elementi fisicamente distinguibili di un gesto diventano «unità» nell'intenzione e in vista del fine desiderato: ed è questa intenzionalità unitaria che ne fa un «atto umano». Ora, la teologia morale giudica degli «atti umani», non dei loro tronconi, o dei loro componenti materiali; prima di essere intenzionato l'atto non è neppure umano, perciò non è passibile di un giudizio etico. Si comprende allora perché il vangelo insiste tanto sulla «purità del cuore», e si capisce perché l'autenticità cristiana di una scelta dipende in grandissima misura dalla intenzione che la sorregge.
    * Mi si permetta un accenno alla morale giovanile: mi riferisco alla casistica che spesso si è fatta sul comportamento tra i fidanzati. Invero io non saprei dare che un principio molto generale: resta chiaro che la «sessualizzazione» consumata dell'amore reciproco è propria del matrimonio (perché solo nel matrimonio questo amore è definitivo e può debitamente aprirsi al dono della vita); le espressioni esterne dell'amore, tra due fidanzati dovranno ispirarsi con sincerità e con semplicità alle fasi di crescita di questo amore: il quale - è ovvio - non è la semplice attrazione fisica, ma è la decisione spirituale di appartenersi in maniera esclusiva e definitiva. Nella misura che cresce interiormente questa decisione spirituale, essa potrà anche sensibilizzarsi esteriormente: l'esperienza sessuale sarà il sigillo, nel matrimonio, di questo graduale processo di maturazione. Ecco allora che si deve guardare molto meno alla casistica dei singoli gesti e molto più al contesto di crescita nella comprensione e nella dedizione personale reciproca in cui quei gesti vengono a collocarsi: ciò vuol dire che l'atteggiamento affettivo di due fidanzati ormai prossimi al matrimonio non può essere valutato con la stessa misura con cui si giudica il comportamento di due che si conoscono da poco o che si incontrano per la prima volta.
    E occorrerà tener presente che l'armonizzazione tra integrazione spirituale e vicinanza fisica non è facile, e forse si deve mettere in preventivo qualche momentaneo insuccesso o qualche occasionale smarginatura. È un antico assioma aristotelico, ripetuto più volte da S. Tommaso, che sui sensi non abbiamo un potere dispotico, ma politico.
    Questi sono principi in certo senso più duttili, è vero; eppure sono gli unici su misura di uomo, e alla lunga sono anche più impegnativi, perché non fanno dipendere la bontà o no di un comportamento dalla materialità del gesto, ma dal valore umano di cui esso si carica o di cui malauguratamente è privo.

    4. Elemento imprescindibile per la formulazione di un giudizio etico dovrà anche essere la situazione del soggetto

    Non possiamo accettare tout court un'etica della situazione; ma è fuori dubbio che la situazione concreta è, essa pure, veicolo della volontà del Signore per i singoli. Perciò dobbiamo guardarci da valutazioni troppo oggettivizzanti, che alla fine sono troppo libresche.
    L'etica della situazione, che ha molto occupato la mente dei teologi a partire dal 1950, non può essere accolta nella sua espressione completa: essa giunge a dire che non esistono affatto norme oggettive ed assolute, ma esiste una molteplicità di situazioni concrete, ciascuna delle quali contiene un appello particolare e irrepetibile di Dio, non importa se contrastante con norme assolute o con gli appelli che provenissero da altre situazioni. Ovviamente, noi dobbiamo riconoscere l'esistenza e l'urgenza di valori morali assoluti: i comandamenti della legge naturale, per esempio, valgono sempre e per tutti. Ma nello stesso tempo possiamo e dobbiamo dire che anche la situazione concreta, salvi sempre quegli imperativi assoluti, è un tramite attraverso il quale Dio ci comunica la sua volontà; anzi, persino per certe nostre scelte di fondo (la scelta, ad esempio, della verginità o del matrimonio) è la storia concreta della nostra vita a indicarci in gran parte quello che dobbiamo fare; così, in molti nostri comportamenti non ci è possibile arguire quale sia la volontà di Dio se non meditando sulla situazione nella quale ci troviamo, e analizzandone le varie componenti come indizio di ciò che Dio ci chiama a fare.
    E si pensi a quante altre indicazioni normative derivano dalle circostanze di vita: dal sesso, dall'età, dalla nazionalità, dalle condizioni fisiche ed economiche, sociali di una persona. Queste situazioni sono talmente intrinseche per la singola persona che al di fuori di esse la persona finirebbe per apparirci quasi una semplice astrazione. Mi si permetta, in questa luce, un accenno al problema della masturbazione: non può non variare il giudizio su questo gesto secondo che si colloca in una situazione quale quella puberale, o si colloca in un'altra situazione, supponiamo come disturbo autentico di una sessualità adulta. E ovviamente, molto spesso saranno gli psicologi più che i moralisti a dirci come dobbiamo procedere nel giudizio e nella conseguente azione educativa.

    5. Il giudizio morale va sempre espresso «sotto lo sguardo di Dio»

    Non si nega il valore delle considerazioni razionali; ma l'aspetto cristiano che deve chiaramente palesarsi nel giudizio etico è quello religioso: è quello che prorompe in queste esclamazioni interiori: «Dio vuole così», «È Dio che mi chiama a questo», Dio che ci chiama attraverso Gesù e il suo Spirito. Questo è l'elemento caratterizzante del giudizio morale in quanto è cristiano; è un giudizio etico profondamente religioso.
    Il giudizio etico perciò, al quale gli altri fanno riferimento, è quello pronunciato nel sacramento della Penitenza; ora, nel gesto della penitenza sacramentale, è la lietificante potenza e misericordia di Dio che si rivela, e quindi è sotto lo sguardo di Dio, in atteggiamento di fede, che è pronunciato il giudizio sulla nostra condotta: ivi cioè il giudizio sulla nostra condotta è tipicamente religioso. Come nella penitenza viene pronunciato questo fondamentale giudizio sulla nostra condotta in atteggiamento di fede, così deve essere pronunciato ogni altro giudizio etico.
    Certamente (come osserva Lippert nel suo volume «La legge e la carità»), noi osserviamo i comandamenti di Dio perché sono buoni, ordinati, perché sono segno di grande saggezza umana, perché sono capaci di riempirci di gioia, di farci convivere serenamente con gli altri, e così via...: tutte ragioni bellissime, soprattutto sul piano apologetico e pedagogico. Eppure per il cristiano la ragione delle ragioni è quella assegnata dal primo comandamento: «Io sono il Signore Dio tuo». Così comincia la legge. «È Dio che mi chiama a far questo».
    Del resto tutta la condotta cristiana appare come un atto di culto a Dio, una risposta grata e generosa alla sua iniziativa di salvezza. È uno dei temi più importanti presenti nella Bibbia, che è stato colto con particolare vivezza negli studi recenti sulla secolarizzazione e i suoi rapporti con la teologia morale. Se è vero che il sacro è sentito come elemento che non entra nella strutturazione del morale e del sociale, è però vero che il religioso e il teologale vi entrano radicalmente. Del resto, è sintomatico che la morale non sia morale del «sacro» (tanto è vero che Dio respinge ogni rifugiarsi nella sacralità del culto che alieni da un effettivo servizio di carità: «Io voglio la misericordia, non il sacrificio»). È una lezione che dobbiamo sempre aver presente nella celebrazione della liturgia; peraltro la liturgia del Nuovo Testamento è pochissimo sacrale: il suo gesto essenziale che è l'Eucaristia, utilizza come segno produttivo una realtà domestica e alla portata di ogni comprensione, niente affatto distaccata da noi, un pasto preso in comune. Così, la liturgia penitenziale non è qualcosa che produce magicamente degli effetti; è un dono di grazia consegnato alla nostra intelligenza e alla nostra volontà, perché ne facciamo un principio dinamico per la nostra conversione e per la trasformazione del mondo.
    Il carattere religioso della morale cristiana è invece essenziale a ogni gesto; e qualsiasi giudizio etico il cristiano pronunci, ha il tuo termine di riferimento in Dio («Siate misericordiosi come il Padre vostro che c nei cieli») e ha la sua origine nella parola di Dio («Avete sentito che vi fu detto, ma io vi dico...»). Nel sacramento della Penitenza, questa utilizzazione della parola di Dio per la espressione del giudizio etico deve diventare un motivo più abituale. Qui è il luogo dove, molto più che riflessioni di tipo psicologico, pedagogico, antropologico, si devono esprimere brevemente, sinteticamente, dei giudizi impregnati della parola di Dio: che facciano riferimento a questo supremo criterio che giudica tutto e non è giudicato da nessuno.

    UNA MORALE PERSONALISTICA

    Le riflessioni svolte rispondono alle esigenze di una morale della «persona», più che non astrattamente della «natura». E acquistano un significato ancor più ampiamente educativo se vengono collegate con l'emergere sempre più chiaro delle norme tipicamente cristiane: «La legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù», come scrive S. Paolo (Rom 8, 2).
    * Alla coscienza cristiana la norma morale si pone non come proveniente da norme astratte, ma come conseguenza dell'incontro personale con Gesù Cristo. «Che cosa ho da fare, o Signore?» è la parola che Paolo rivolge a Gesù dopo l'altra: «Chi sei tu, o Signore?»; l'incontro personale con Cristo propone immediatamente l'esigenza di un «fare» nuovo. E tutto l'ordinamento morale voluto con potestà da Gesù appare in definitiva centrato attorno alla sua persona. Egli non è un semplice legislatore, sia pure originale e risoluto; ma è il termine stesso di riferimento e di misura della condotta che inculca e che esige. Per S. Paolo la prospettiva si allarga teologicamente a dismisura: la nuova vita è una vita nel Cristo; l'essere nel Cristo qualifica ontologicamente la nuova creatura. In Lui, per mezzo di Lui, in vista di Lui, tutto è stato creato da Dio, tutto è stato redento da Dio; nell'odierna economia voluta dal Padre, egli, il Signore Gesù, è il sostegno di tutto («omnia in ipso constant» Col 1, 17): e anche l'ordine morale non avrebbe né senso né realtà, ma sarebbe del tutto inconsistente, se non facesse riferimento a Cristo. Chi poi si incarica di conformarci a Gesù Cristo è lo Spirito Santo: la morale cristiana appare come una morale dello Spirito, una morale sotto la guida personale dello Spirito Santo. La sua legge propria è la legge dello Spirito che fa vivere in Cristo Gesù, come scrive S. Paolo (Rom 8, 2). Un codice scritto, quand'anche proponesse un ideale elevato, non saprebbe trasformare un essere di carne in un essere spirituale. Per far questo occorre la potenza divina dello Spirito. È la lezione di S. Paolo, che raccoglie e sviluppa in ciò il messaggio di alcuni grandi testi profetici (Ezechiele e Geremia soprattutto); ed è una lezione che in seguito sarà continuamente ripresa nella tradizione cristiana.

    * Camminiamo verso una morale che valorizza profondamente la persona: la morale cristiana che è la risposta a una Persona, Gesù Cristo, sotto la guida personale dello Spirito Santo, impegna e mette in gioco la persona. In altri tempi il termine di riferimento per le valutazioni etiche fu la «natura»; oggi esso diventa più direttamente ed esplicitamente la persona. La persona, come scrive S. Tommaso (I, q. 29, a. 3), è «quanto di più nobile c'è in tutto l'universo creato»: essa porta in se stessa il più alto riflesso quaggiù possibile dell'infinita perfezione delle tre Persone divine. Si può dire che tutta la morale cristiana sta nel rispettare la persona; tutto il resto è mezzo, strumento, cosa; la persona è «fine», e non può mai essere adoperata. Occorre molta sensibilità e molto equilibrio per presentare la morale cristiana in questa luce, impegnandoci a risolverne da capo i vari problemi partendo piuttosto che dalla considerazione di una natura astratta, dalla considerazione della persona nella sua natura. Ma alla fine di questo lungo e non facile cammino, avremo raggiunto, su una base nuova e più adeguata alla cultura del nostro tempo, le imprevedibili certezze della nostra morale; e su molti punti avremmo guadagnato una comprensione più duttile e profonda. Si pensi alla morale sessuale, non più svolta a partire dalla esigenza di rispettare una funzione naturale, ma di valorizzare la persona: l'essenziale finalizzarsi della sessualità alla maturazione umana e cristiana della persona e il suo ordinato svolgersi, nel matrimonio, a servizio dell'amore «interpersonale» tra i coniugi e a servizio della «persona» dei figli.
    In questa prospettiva personalistica hanno voluto collocarsi le riflessioni svolte nella nostra breve conversazione.


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