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    Lo sport oggi:

    tendenze e prospettive

    Raffaella Ferrero Camoletto *


    “S
    port incredibile”: parto dal titolo di questo meeting che per tre giorni ci vedrà lavorare insieme per cercare di meglio comprendere quali siano le principali trasformazioni dello sport nella società contemporanea e quali gli scenari che tali trasformazioni ci pongono di fronte.

    Indubbiamente, sono molti i segnali che possono condurci oggi a ritenere che lo sport “abbia dell’incredibile”: periodicamente i media (giornali, tv, rotocalchi, ecc.) presentano all’opinione pubblica scandali sportivi (dal doping di stato a calciopoli, per citare alcuni dei più recenti scandali che hanno attraversato la scena sportiva italiana) che ci sembrano erodere dall’interno quelli che erano i valori cardine della cultura sportiva moderna: la regolamentazione della violenza, la parità delle opportunità, la ricerca del perfezionamento della performance sportiva (l’ideale del record), il fair play.
    Questa crisi della credibilità dello sport è tanto più rilevante quanto più pensiamo al fatto che lo sport come fenomeno moderno si è sviluppato proprio come veicolo dei valori tipici di una società, quella industriale, che era in crescita e in espansione. A livello dello sport di vertice, i grandi campioni hanno rappresentato modelli di successo di una nazione e l’incarnazione dei valori di un popolo, al punto da essere fatti oggetto di strumentalizzazione al servizio dei vari regimi politici. A livello dello sport della gente comune, la pratica sportiva ha svolto molteplici funzioni: di inclusione sociale, di educazione delle masse a uno stile di vita sano, di formazione delle giovani generazioni alle regole e ai ruoli sociali adulti.
    Dobbiamo dunque concludere che lo sport oggi abbia perso la sua credibilità o le sue credenziali? Certamente, alcune trasformazioni dello sport moderno possono sollevare in noi alcune perplessità e criticità.
    La commercializzazione e la spettacolarizzazione dello sport ne hanno fatto un settore di mercato le cui logiche spesso sembrano prevalere su quelle strettamente sportive, enfatizzando la spinta alla competizione e alla vittoria a tutti i costi. Inoltre, il consumo passivo di sport attraverso la fruizione televisiva ha rafforzato la quota dei “sedentari”, che le ultime rilevazioni in Italia attestano intorno al 40% della popolazione nazionale. La spettacolarizzazione dello sport, divenuto sempre più uno showbusiness, ha generato anche un abuso di mediatizzazione sportiva: siamo bombardati quotidianamente da notizie e immagini sportive, tali da generare un senso di disagio, una sorta di “indigestione” di sportività. Accanto a ciò, la sovra rappresentazione mediatica dello sport ha trasformato i campioni sportivi in uomini e donne di spettacolo, i cui gusti e preferenze fanno notizia e divengono oggetto di imitazione. Si assiste così a quel processo che alcuni commentatori chiamano “sportivizzazione della società”: lo sport è sempre più massicciamente utilizzato come un simbolo per rappresentare vari aspetti della vita sociale, enfatizzandone però gli aspetti ad impatto emozionale e mediatico rispetto ad altri elementi che potrebbero svolgere una funzione educativa.
    Lo sport spettacolo alimenta anche il fenomeno del tifo, che spesso assume forme estreme che si traducono in violenza, ma che più in generale producono deresponsabilizzazione e alienazione in contrasto con i valori ispiratori dello sport.
    La tecnologizzazione dello sport, con la continua innovazione sul versante dei processi e dei prodotti (materiali, attrezzature, ecc.), ha colonizzato il corpo dello sportivo, trasformandolo in un corpo-macchina: si pensi ai nuotatori fasciati in tute che ne riducono al minimo l’attrito con l’acqua, ai velocisti con scarpe le cui suole al tempo stesso ammortizzano e aumentano la spinta muscolare. E si giunge al caso, molto dibattuto, del giovane atleta sudafricano Oscar Pistorius, che corre grazie all’ausilio delle protesi di fibra di carbonio innestate nelle sue gambe amputate: di recente, a Pistorius è stata negata la possibilità di partecipare a competizioni ufficiali con atleti normodotati, invocando lo spettro del “doping tecnologico”.
    Ancora, la medicalizzazione dello sport ci rimanda ad una costruzione ideale di “corpi sovraumani” che sembrano falsificare o tradire gli ideali che hanno ispirato lo sport novecentesco: è il caso dei grandi atleti i cui corpi, costruiti chimicamente in laboratorio, hanno permesso loro di ottenere successi in competizioni internazionali. L’aspetto scandaloso del doping non riguarda solamente la frode sportiva, ma anche la convinzione che i corpi siano manipolabili anche a rischio di trasformarne forma e metabolismo in nome della sete di vittorie: è ormai noto il caso della ex- Repubblica Democratica Tedesca (DDR), che collezionò straordinari medaglieri olimpici, facendone pagare il prezzo ad alcuni atleti di spicco di quel periodo, come la lanciatrice del peso Heidi Krieger, che a seguito della massiccia assunzione di steroidi, che ne hanno trasformato il corpo, ha recentemente cambiato sesso, divenendo uomo.
    Di recente abbiamo poi assistito a numerosi casi (dall’atletica al ciclismo) di atleti che hanno poi dovuto restituire titoli e medaglie tra la vergogna e il disonore. Ma è anche il caso della diffusione a macchia d’olio del doping nelle competizioni amatoriali e nei settori giovanili, come testimoniano alcune inchieste condotte in Italia dalla magistratura e da singole federazioni sportive.
    Eppure, queste stesse trasformazioni aprono anche a possibilità inedite, che ci prospettano un futuro dello sport non necessariamente tetro, anche se dai contorni e colori ancora indefiniti.
    La spettacolarizzazione dello sport ci rimanda ad un’inversione del processo che aveva portato alla nascita degli sport moderni: il passaggio dal rituale al record, all’ossessione della misurazione e della quantificazione del risultato. Infatti, oggi si assiste ad un ritorno alla dimensione rituale dello sport: si pensi a manifestazioni di massa come la Maratona di New York, ma anche al proliferare di gare podistiche e maratonine a carattere locale, che esprimono il bisogno di una socialità festosa, di una effervescenza collettiva, più che di una competizione tecnico-agonistica. Anche il tifo sportivo ha un suo volto sano quando si traduce in un riconoscimento delle regole del gioco sportivo e in una identificazione nei valori di cui l’atleta sportivo è portatore (la fatica, la preparazione, lo spirito di squadra, la voglia di superare se stesso prima che l’avversario, ecc.)
    L’innovazione tecnologica poi non riguarda soltanto i prodotti, ma anche le domande sociali e le istanze culturali che la pratica sportiva incarna. Ecco che l’evoluzione della bicicletta tradizionale nella mtb si configura sì come un’innovazione tecnica, con l’adozione di materiali e meccanismi specifici, ma anche come l’espressione di una diversa domanda sociale, che rimanda al bisogno di abbandonare gli spazi congestionati della città per immergersi nella natura, esplorando percorsi non predefiniti.
    Ancora, tale innovazione, quando investe prodotti e materiali, non investe soltanto i campioni degli sport di vertice, ma promuove anche espressioni di socialità e, se mi è permesso prendere a prestito il termine, di fraternità: un caso esemplare è rappresentato dal campionato di calcio interafricano fra squadre nazionali di giovani mutilati, vittime delle guerre tribali che hanno a lungo incendiato i loro paesi, che giocano grazie al supporto di protesi e di stampelle. Un altro caso esemplare è quello del campionato nazionale di basketball in carrozzina: grazie alla flessibilità e agilità del supporto tecnologico, gli atleti possono mettere in campo il proprio talento e il proprio corpo diversamente abile.
    Ancora, come figura emblematica di un uomo che “supera se stesso” attraverso il supporto tecnologico possiamo ricordare Alex Zanardi, ex-pilota di Formula 1, che ha fatto del suo corpo martoriato da un incidente un’icona dello sport come voglia di vivere, di confrontarsi con se stesso e con gli altri.
    Inoltre, va detto che accanto al processo di enfatizzazione dello sport di competizione e di vertice in mercato e spettacolo, la seconda metà del ‘900 ha conosciuto anche un’altra serie di trasformazioni che vanno in un’altra direzione: quella dell’uso espressivo dello sport.
    Faccio riferimento al caso italiano, perché è quello che meglio conosco, ma anche perché gli elementi di cambiamento che emergono riflettono dinamiche socioculturali più ampie che stanno attraversando vari paesi. Ciascuno di voi potrà provare ad operare una “traduzione” all’interno del contesto in cui vive ed opera per poi eventualmente discutere insieme la varietà di situazioni in cui il fenomeno sportivo si declina a livello mondiale.
    Dati recenti sulla pratica sportiva in Italia (Istat 2005) ci mostrano che gli sport agonistici tradizionali sono in una situazione di stallo se non di flessione, mentre è in netta crescita l’area della pratica sportiva intesa come loisir, come ricerca del benessere fisico, cura del proprio corpo, rapporto con la natura e attivazione di nuove forme di socialità. La rilevazione mostra come stiano emergendo pratiche corporee autopromosse da piccoli gruppi e non ancora codificate come disciplina sportiva, ma che evidenziano la vitalità di un processo di riappropriazione dello sport e del corpo da parte della gente.
    La spinta verso queste nuove pratiche viene proprio da quelle fasce di popolazione a lungo ai margini del mondo sportivo: le donne e gli anziani, la cui partecipazione è in costante aumento, riducendo progressivamente lo scarto rispetto alla pratica maschile e giovanile.
    Uno sport che si femminilizza e che si allarga a coprire l’intero corso di vita ci appare sicuramente più capace di prendere le distanze da una versione vetero-machista dello sport come vittoria a tutti i costi e di reinterpretare istanze valoriali e sociali più ampie.
    Si assiste alla ripresa dei tesseramenti alle federazioni sportive (che avevano conosciuto una forte flessione tra anni ’80 e ’90), grazie alla forza trainante della pallavolo, del calcetto e di alcune discipline minori in crescita, prima fra tutti il rugby. Accanto a tale ripresa, però, continua il processo di privatizzazione dello sport, in una duplice accezione: lo sganciarsi dagli spazi istituzionali pubblici e codificati (lo stadio, la palestra scolastica) per aprirsi a nuovi spazi gestiti dal mercato e il suo divenire oggetto di scelta personale e talvolta di uno zapping o bricolage.
    La spinta alla personalizzazione dello sport promuove una valorizzazione della pratica sportiva con finalità plurime, dal piacere della sperimentazione fisica del mondo alla creazione di forme di socialità leggera, dalla ricarica emozionale allo scarico delle tensioni. Tutto ciò può sollevare preoccupazioni circa derive consumistiche e narcisistiche: ma la riscoperta del proprio corpo come una modalità di rapporto profondo con se stessi e con gli altri può invece costituire una risorsa che innesca nuove forme di socialità.
    Ancora, emergono sulla scena nuove forme di sportività che spostano l’accento dalla competizione con un avversario, tipica dello sport novecentesco, all’autocompetizione: ciò che conta è mettersi alla prova, misurarsi in attività che permettono di far emergere una versione ideale e potenziata di sé, di scoprire risorse che non si pensava di avere. È quella galassia di pratiche che va sotto il nome di sport estremi, freeride, freestyle. Anche in questo caso, ci possiamo chiedere se non si tratti di una regressione a forme di autolesionismo, di sprezzo del pericolo e di gioco con la morte, come spesso molti commentatori sostengono. Al contrario, queste pratiche a mio avviso testimoniano una ricerca dell’autotrascendenza, di un uscire da sé, di una qualità di vita migliore. Di più, questa ricerca non conduce ad una chiusura solipsistica, ma si traduce nella nascita di comunità di praticanti che si riconoscono e si sostengono reciprocamente, e che spesso promuovono un diverso stile di vita, rispettoso della natura e estraneo alle logiche della carriera e del successo economico.
    Lo sport può dunque oggi recuperare la sua credibilità? E questo processo apre le porte all’idea della fraternità?
    L’universo sportivo sfaccettato che ho provato a ricostruire mi sembra possa costituire un’occasione per sperimentare vie nuove di educazione e di pratica sportiva. Già soltanto il passaggio da una logica monodimensionale (quella dell’agonismo disciplinare novecentesco) ad una logica a più dimensioni mi sembra sia maggiormente fedele alla natura profonda e complessa dell’uomo, che è alla ricerca di slanci di trascendenza come di cura del proprio corpo, di autocompetizione come di di abbracci di socialità, di dispendio di sé come di gratuità.
    La cultura sportiva contemporanea forse non offre un aggancio immediato e automatico ad una proposta, insieme valoriale e metodologica, come quella della fraternità: ma fino a quando lo sport riuscirà ad esprimere una ricerca e una sperimentazione dell’umano, io credo che ci sia lo spazio per avviare nuovi percorsi di riflessione e di sperimentazione.

    * sociologa - Università di Torino

    (relazione al Congresso Internazionale SportInCredibile 28-30 marzo 2008, Roma)


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