Pastorale Giovanile

    Home Indice

    Pastorale Giovanile

    Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email

    La libertà, grande narrazione dell’identità europea



    Ágnes Heller

    (NPG 2012-02-24)


    In questo testo farò ricorso al concetto di grand récit («grande narrazione») nello spirito di Pierre Nora e della sua Scuola di Storia e Memoria. Con ciò alludo ai racconti, alle storie, alle fantasie, ai modelli dell’immaginario che funzionano come una sorta di archetipo in una data cultura.
    Parlerò della cultura nella più ampia interpretazione di questa nozione complessa e sfaccettata, come ha fatto Clifford Geertz quando ha definito la cultura
    «un modello storicamente trasmesso di significati incarnati nei simboli, un sistema di concezioni ereditate, che si esprimono in forme simboliche, attraverso cui gli uomini comunicano, perpetuano e ampliano la conoscenza e l’atteggiamento verso la vita».
    I riferimenti a una tradizione condivisa non vengono solo compresi sul piano cognitivo, ma vengono anche percepiti a livello emozionale, senza note a piè di pagina, senza necessità di spiegazione o interpretazione. Né è essenziale che i singoli individui, uomini e donne, abbiano familiarità con la grande narrazione in quanto tale, visto che vivono in un mondo permeato del loro spirito, né che i riferimenti ad esse siano necessariamente positivi. Che i due poemi epici di Omero siano diventati le grandi narrazioni della cultura classica greca è fuori discussione. Platone, tuttavia, li cita quasi sempre in senso negativo, perché era profondamente insoddisfatto della cultura sviluppatasi intorno ad essi.

    Le culture d’Europa

    Non si può stabilire in anticipo quali fra le narrazioni diventeranno le grandi narrazioni di una cultura e quali no, né ciò dipende necessariamente dalla qualità della narrazione o dall’immaginazione. Che cosa sarebbe accaduto – su questo riflettono alcuni studiosi – se invece della cristianità cattolica fosse toccato allo gnosticismo diventare la grande narrazione del tardo impero romano? La nostra cultura, con una grande narrazione di quel tipo, sarebbe stata impensabile perché avrebbe riflettuto una cultura ben diversa. Lo gnosticismo rappresenta un filone di ricerca interessante, un oggetto di curiosità scientifica, ma è rimasto confinato in un ambito esoterico e, in quanto tale, marginale. I riferimenti agli eoni, alle trentadue emanazioni o al peccato di Sofia non legittimano le tendenze, le narrazioni o i movimenti attuali, né li rendono più validi, diversamente dai riferimenti al serpente di Eva o alla morte di Socrate.
    Ogni cultura – nel significato più ampio del termine – ha le sue grandi narrazioni, che sono principalmente miti, storie fondanti, visioni religiose. Quando parlo di «cultura europea» mi riferisco alle grandi narrazioni che singoli popoli e paesi presenti all’interno del subcontinente europeo hanno in comune. Certamente tutti i popoli europei hanno narrazioni proprie, diverse le une dalle altre, ed è possibile che anche popoli non europei condividano questa o quella storia. Nelle riflessioni che seguono, l’analisi è comunque circoscritta alle grandi narrazioni europee condivise.
    Le grandi narrazioni europee sono da una parte la Bibbia, dall’altra la filosofia e la storiografia greco-romana. Si tratta di testi perché è l’unico approccio possibile a eventi, azioni e lingua parlata. Anche se oggi ne sappiamo di più grazie agli scavi archeologici e ai ritrovamenti, queste conoscenze aggiuntive non influiscono minimamente sul nostro rapporto con le grandi narrazioni. I testi, e non i reperti archeologici, vengono ancora oggi continuamente reinterpretati, presentati ed elaborati nella letteratura, nella pittura, nella filosofia, nella politica e anche nella vita quotidiana.
    Affronterò il tema delle grandi narrazioni europee adottando come chiave di lettura il tema della libertà e quello del libero arbitrio. L’idea di libertà di noi europei e le istituzioni della libertà e del libero arbitrio come noi le immaginiamo hanno attinto costantemente alle fonti presentate e rappresentate dalla Bibbia da un lato, e dalla filosofia e storiografia greco-romana dall’altro.

    La Bibbia come esperienza narrativa

    La libertà fa la sua prima comparsa nella Bibbia come libera scelta o libero arbitrio. Adamo ed Eva colgono un frutto dall’albero della conoscenza e lo assaggiano. È a partire da questo momento, in questa prima situazione, che gli uomini hanno la possibilità di scegliere fra il bene e il male. Non vi è nulla che all’inizio determini una scelta piuttosto che un’altra. Per l’uno è facile scegliere il bene, per l’altro è difficile, ma per nessun individuo è impossibile.
    La facoltà di scegliere fa parte, in generale, della condizione umana, implica un’assunzione di responsabilità per gli altri e per se stessi. Caino fu il primo essere umano a uscire dal grembo materno. Dio si rivolse a lui dicendo:
    «Perché sei adirato? E perché tieni la testa bassa? Se agisci nel modo giusto, non dovrai forse tenerla alta? Se non agisci nel modo giusto, il peccato è in agguato alle tue porte e le sue brame sono rivolte verso di te, ma tu puoi dominarlo» (Genesi 4,7).
    Caino non fu in grado di dominare i propri desideri, ma in un capitolo successivo della Genesi, in una situazione non dissimile, Esaù ci riuscì. Invece di uccidere il fratello, lo abbracciò.
    Dai padri della Chiesa fino a Kant, Hegel e Kierkegaard, i grandi filosofi sono sempre tornati su questo archetipo, Kant per ben due volte.
    Nella letteratura europea, tanto il testo teatrale che il romanzo si alimentano di questa grande narrazione. Il serpente, il tentatore, figura interamente assente nella tragedia greca, gioca anche qui un ruolo centrale. Macbeth commette il crimine istigato dalle streghe e dalla sua Lady, Rastignac istigato da Vautrin, Raskolnikov dall’immagine di Napoleone. Anche la fuga del primo uomo e della prima donna dalla responsabilità è una costante che si ripete fino ai nostri giorni. Filosofi e teologi discutono da duemila anni sull’essenza del libero arbitrio o se lo si possa concepire tout court ma, qualsiasi conclusione se ne tragga, il dibattito è sempre aperto, e il testo resta una grande narrazione.

    Il secondo racconto biblico fondamentale sulla libertà è quello della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. «Lascia andare il mio popolo», diceva, riprendendo la citazione biblica, il ritornello della canzone degli schiavi neri d’America, dando voce al loro fermo proposito di liberazione. Nietzsche aveva ragione quando sosteneva, nella sua Genealogia della morale, che senza questa storia di liberazione non ci sarebbero stati né la democrazia moderna né il socialismo. Invece di vantare una progenie divina, un popolo si dichiarava discendente dagli schiavi, rovesciando in tal modo la gerarchia dei valori.
    L’idea di uguaglianza come uguaglianza di fronte a Dio, inoltre, è stata formulata già nel primo episodio della creazione: Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine. Il riferimento centrale e anche il più significativo alla liberazione si ha nella scena della rivelazione sul Monte Sinai. Dio, colui che ha dato la Legge, si fa riconoscere dal popolo di Israele non come il creatore della terra, ma come il liberatore, come il Dio che ha tratto il popolo di Israele fuori dalla terra dove viveva in schiavitù.
    Dio rende il popolo immediatamente consapevole della sua libertà, dato che la Legge può essere concessa solo a chi è libero, perché solo chi è libero ha la facoltà di obbedire alla Legge o di infrangerla. Dopo essersi annunciato come liberatore, Dio ordina che il popolo non abbia altro Dio all’infuori di Lui, che il popolo non debba servire alcuna cosa e soprattutto alcun essere umano o la sua effigie in quanto Dio. Il re dei re è al di sopra di tutti i re, così dichiarano le vittime della tirannia in Shakespeare. Ogni faraone o imperatore, proprio come Hitler o Stalin, costituisce un idolo, e venerarli è idolatria.
    Anche questo racconto è diventato una grande narrazione europea. Il popolo non vuole la libertà, alla libertà preferisce il cibo che l’Egitto gli garantisce. Pensiamo, fra i possibili esempi, all’incontro fra Cristo e il Grande Inquisitore nel romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov, che può anche essere letto come una sorta di replica della disputa fra Mosè e Aronne dopo l’episodio del Vitello d’oro.

    La terza grande narrazione europea sulla libertà si tramanda nella storia di Gesù di Nazareth, la quarta nel credo di Cristo Redentore. Queste due storie sono collegate, ma non identiche.
    Il diritto alla libertà di culto, di coscienza e di fede appare in primo luogo nella persona e nell’insegnamento di Gesù di Nazareth. La libertà di religione e di fede costituisce il primo di tutti i diritti e tale è rimasto anche in epoca moderna. Gesù di Nazareth non ha inventato una religione nuova; ma, come ci dicono i Vangeli, ha interpretato la religione dei padri in chiave personale e innovativa, circondandosi allo stesso tempo di discepoli che impararono a condividere il suo approccio.
    Gesù di Nazareth, uno spirito libero, rifiutò di abbandonare le sue idee radicali e libertarie sull’osservanza religiosa a beneficio di interpretazioni ortodosse. Suscitò così la rabbia dei Sadducei del Tempio e si guadagnò l’appassionato sostegno di molti. Si può anche interpretare il suo martirio come il primo grande sacrificio per la libertà di fede, di religione e di parola. Gli eretici cristiani hanno interpretato i Vangeli anche in questa chiave. E non solo loro. Una grande narrazione è tale perché trascende le singole comunità. Sartre, per esempio, ha raccontato la storia della nascita di Gesù anche in questo senso, in uno dei suoi primi lavori teatrali, Bariola, allestito in un campo di prigionia tedesco.
    Cristo è considerato il Redentore dell’umanità. Questo credo implica, tra l’altro, una narrazione sulla libertà e dunque la radicalizzazione della storia della Genesi sulla libera scelta e sul libero arbitrio. Il racconto originario suggerisce che l’individuo può sempre scegliere il bene, che non è mai votato al peccato. La promessa di salvezza è davvero una promessa, non solo perché richiama la persona alle sue responsabilità, ma anche perché le promette una vera rinascita, indicandole che, anche quando ha scelto il male, questa scelta non segnerà per sempre il suo carattere o il suo destino. Ci si può liberare dal peccato, dal proprio passato, da tutte le decisioni sbagliate, e diventare un individuo completamente nuovo – si può rinascere una seconda volta.

    La mitologia greco-romana

    Veniamo ora alle storie greche e romane destinate a diventare, proprio come le storie della Bibbia, grandi narrazioni europee. Non è necessario conoscerle tutte, si può anche non conoscerne alcuna e conservarle tuttavia vive come grandi narrazioni, perché sono già state assorbite dall’immaginario europeo.
    Tuttavia, la mitologia greca e quella romana non appartengono alle grandi narrazioni europee. Ovviamente è possibile rivisitarle, recuperarle di tanto in tanto, come si è verificato nella pittura che va dal tardo Rinascimento al Barocco. Ma questa cultura si fondava su una conoscenza complessa che è rimasta esoterica. Ci sono eccezioni, come l’immagine di Afrodite-Venere e di Eros-Amore, ma è stata la loro funzione, più che le storie vere e proprie, a diventare paradigmatica. Per quanto riguarda le narrazioni sulla libertà, l’unico eroe è il ribelle Prometeo, a simboleggiare non tanto la rilevanza della mitologia, quanto la ribellione contro la tirannia di un dio.
    Il nocciolo della questione è che il monoteismo esclude ogni genere di mitologia. La Bibbia non è una mitologia, e le prime mitologie cristiane, come lo gnosticismo, erano esoteriche e dunque sono scomparse. Restano un oggetto d’interesse solo per gli studiosi.
    In Europa, almeno negli ultimi mille e cinquecento anni, non c’è teomachia, cioè lotta fra gli dèi, gli dèi non generano altri dèi, non fanno l’amore, non subiscono metamorfosi. Gli antichi dèi non dimorano sull’Olimpo ma nei musei. In quanto dèi sono morti, ma come opere d’arte sono vivi e vegeti.
    È vero che nel XIX secolo fu tentato un cambiamento radicale. La tesi sulla fine del Dio ebraico-cristiano, avanzata da Heine, ma sostenuta da Nietzsche, ebbe ampia risonanza. Ci volle tempo per realizzare che tale concezione si fondava su una falsa analogia. Gli dèi greci e quelli romani erano scomparsi con le loro rispettive culture: dunque – questa era la conclusione – la modernità in quanto espressione di una cultura o di una civiltà completamente nuova, sortisce, o potrà sortire, lo stesso effetto, cioè la morte del Dio ebraico-cristiano.
    Ciò che non si è capito, ma che oggi viene sottolineato da eminenti storici della cultura come Assman, è che tanto la religione ebraica quanto quella cristiana non sono specifiche di una cultura, ma si sono adattate a culture completamente diverse, e così faranno anche in futuro. Tuttavia, durante tutto il periodo in cui si era diffusa la convinzione di una fine imminente del Dio ebraico-cristiano – per lo meno in Europa – c’è chi ha tentato di sostituire all’antico Dio altri dèi, mutuati in gran parte dal mondo delle mitologie antiche. Nietzsche, per esempio, ha provato a far rivivere la figura del profeta Zaratustra/Zoroastro, anche se in forma allegorica, e di Dioniso, il dio del vino. Inutile dire che ogni tentativo di trasporre le antiche mitologie nel pensiero europeo moderno era destinato a fallire. Durante il nazismo, si sono sviluppate alcune fantasie razziste di origine pagana tese a far rivivere il culto ispirato alle divinità germaniche, specialmente di Odino; quest’idea si è alla fine concretizzata solo in Wagner e nel suo Ciclo degli anelli dove, secondo il compositore, le stesse figure mitiche erano allegorie di qualcosa di universale.
    Tuttavia, nonostante la mitologia dei greci e dei romani non abbia lasciato all’Europa grandi narrazioni, la loro filosofia e storiografia ne hanno tramandato un gran numero, fra cui spiccano tre grandi narrazioni sulla libertà.

    Dalla narrazione alla politica

    Il testo fondante della prima è l’orazione di Pericle secondo Tucidide, se non proprio nel contenuto, certamente nello spirito, là dove ritorna la definizione della Politica di Aristotele: «La città è l’insieme dei suoi cittadini». Proprio come la grande narrazione sulla liberazione è stata tramandata dalla Bibbia, così la narrazione sulla costituzione delle libertà è stata tramandata dai greci e dai romani. Israele ha ricevuto la Legge da Dio, i cittadini liberi di Atene hanno essi stessi emanato le leggi che erano pronti a osservare. Ed essi hanno introdotto anche la legge fondamentale, la legge di tutte le leggi, la costituzione.
    La parola latina «costituzione» già lascia intendere che si tratta di un artificio creato dall’uomo. Aristotele ha definito l’atto di emanare la costituzione come un tipo di téchne. Gli ideatori della costituzione vivono sotto la sua protezione, la preservano e godono dei suoi diritti. Sono cittadini liberi. Sono loro la città, tutti gli altri sono stranieri.
    Torniamo al concetto biblico. Qui la Legge non è un prodotto creato dall’uomo, non è costituita ma elargita come dono da Dio, nonostante il suo destinatario sia l’individuo libero. Tuttavia ciascuno è in egual modo soggetto alla legge, non solo gli uomini, ma anche le donne, i servi, gli schiavi, ed essa prevede anche alcuni obblighi verso gli stranieri. Ciascuno è tenuto a rispettare i comandamenti, e tale dovere è uguale per tutti.
    A questo punto già ci imbattiamo in uno dei tratti salienti della cultura europea: le grandi narrazioni sono in tensione tra loro, al punto che una narrazione, o l’interpretazione di una narrazione, può essere contrapposta a un’altra. Senza tensione tra grandi narrazioni, si sarebbe con molta probabilità cristallizzata una singola interpretazione. Talvolta, anche se fra le narrazioni non vi è fusione, si crea una sorta di oikoumene, di terreno comune, per cui esse possono comunque dialogare e adattare a sé alcuni tratti presi da questa e da quella. Esempi tipici di tale reciproco adattamento sono le cosiddette teorie del contratto sociale, e perfino lo slogan della Rivoluzione francese: libertà, fraternità, uguaglianza.

    Il destino di Gesù e quello di Socrate

    Che l’adattamento reciproco delle grandi narrazioni alle teorie politiche e agli slogan non funzioni necessariamente bene nella vita politica, è stato ampiamente dimostrato da Tocqueville nel suo famoso testo sulla democrazia americana. Tocqueville mette in evidenza il problema, e si concentra in particolare sulla difficoltà che riguarda la coesistenza tra uguaglianza e libertà.
    Hobbes, il primo autore di una teoria rappresentativa del contratto sociale, si spinge molto lontano nel tentativo di pensare le due grandi narrazioni insieme, e non solo nella seconda parte del Leviatano che potrebbe anche essere descritta come una teologia politica. L’idea del Contratto o del Patto stesso tenta di coniugare la tradizione biblica con l’idea greco-romana di una buona costituzione. Nonostante il contratto venga istituito tra gli esseri umani, ed essi si privino della loro libertà rimettendola al sovrano, siano cioè fonti delle proprie leggi, tuttavia le leggi di natura sono divine e servono come fonte incontestabile dell’atto umano di legiferare e come limite ad esso.
    Prima che la teoria del contratto sociale raggiungesse la massima espressione repubblicana con Rousseau, sono state tentate diverse modalità di mediazione fra le due grandi narrazioni; e altre narrazioni sono state recuperate con una funzione complementare, come la storia di Adamo ed Eva ripresa da Locke.
    Rousseau ha proposto un altro tipo di mediazione. Nonostante la sua repubblica fosse concepita interamente sul modello classico, o piuttosto su un’interpretazione forte dell’antica democrazia greca antiliberale, egli aveva ancora bisogno di Dio, dell’Essere Supremo come autorità al di sopra e dietro una costituzione ideata esclusivamente dai cittadini. Dio non è origine della Legge, ma nell’interesse del rispetto della Legge, la fede in Dio, come fede comune condivisa, risulta assolutamente necessaria. Inutile dirlo, la tensione fra le due grandi narrazioni sulla libertà assume sempre forme e significati diversi. Oggi, per esempio, essa si ripresenta nelle accese polemiche che animano il confronto fra Communitarians e Liberals americani.

    La seconda narrazione immortale ereditata dalla polis greca è la storia di Socrate nella forma che conosciamo attraverso i dialoghi di Platone. È la storia della libertà di coscienza. Essa è stata più volte ripetuta, vi hanno fatto riferimento filosofi, scrittori, politici, ed è stata compresa da coloro che avevano a cuore la libertà di parola e di coscienza. Steinbeck, per esempio, durante la Seconda guerra mondiale ha scritto un testo teatrale sulla storia di un uomo che non voleva tradire la sua coscienza e che per questo è stato condannato a morte dai nazisti. In piedi di fronte ai giudici, l’uomo si limitò a recitare le parole di Socrate dall’apologia di Platone.
    I filosofi e narratori europei hanno spesso assimilato il destino di Gesù a quello di Socrate, fino ad associare, in epoca rinascimentale, i due personaggi, per esempio in esclamazioni del tipo: «Santo Socrate, prega per noi!». Se consideriamo le narrazioni sul tema della libertà, il confronto è più che giustificato. Sia Gesù che Socrate sono morti perché rifiutavano di tradire la propria fede e le proprie convinzioni.

    Da Machiavelli alla Rivoluzione francese

    La terza grande narrazione europea che elabora l’eredità greco-romana è una narrazione complessa. Essa fa rivivere, applica e ripete un gran numero di storie sulle istituzioni politiche e di altro genere, sulla loro creazione e sopravvivenza e sulle loro vicissitudini. I testi dei filosofi, degli scrittori, ma soprattutto i testi degli storici sono le fonti essenziali di questa grande narrazione.
    Cito solo una delle sue fonti, le Vite Parallele di Plutarco. L’immaginazione politica e sociale dei protagonisti della storia europea è stata profondamente influenzata e informata da quei racconti fino al pieno sviluppo della modernità.
    Ci sono per esempio le storie della fondazione di civiltà e le storie dei «padri fondatori» mitologici, da Licurgo a Romolo e Remo. Machiavelli, il primo autore politico moderno, nei Discorsi, si dilunga sulle varie storie dei padri fondatori, compreso naturalmente Mosè.
    Inutile dire che anche gli Stati Uniti hanno i loro padri fondatori, questa volta non mitologici. Si dice che il gesto della fondazione sia sempre un gesto libero e, in quanto tale, una creazione dal nulla. Un’entità politica completamente nuova viene quindi creata e instaurata non solo fissandone i capisaldi, ma anche introducendo le istituzioni essenziali alla sua longevità e alla sua stabilità, istituzioni permanenti che prevedano il cambiamento restando però inalterate e che possano proteggere il corpo politico contro la tirannia. Proteggere le grandi istituzioni permanenti contro i nemici interni e esterni richiede atti eroici.
    Le grandi narrazioni greche e romane forniscono agli europei rilevanti modelli di comportamento: quelli dei «difensori della libertà» come Bruto, come i Gracchi, come Catone. Machiavelli continua su questa impostazione, giungendo più o meno a queste conclusioni: le epoche passano e gli individui si abituano alle loro libertà, cessano di preoccuparsene, diventano avvezzi al lusso, la morale degenera, il tiranno è in agguato. Forse la storia finirà con l’instaurazione della dittatura, forse no. Un’alternativa c’è, ed è la rivoluzione. La rivoluzione non è altro che il ritorno al principio, al gesto della fondazione, il punto in cui la storia può ricominciare. Questa grande narrazione si mantiene viva nella teoria politica fino ai nostri giorni, da Rousseau fino ad Hannah Arendt. La concezione della Arendt sul nuovo inizio modernizza la tradizionale narrazione sulla libertà; nel suo libro Sulla Rivoluzione, la filosofa esprime fra l’altro la speranza che anche l’America possa tornare al glorioso passato della sua fondazione, alla costituzione delle libertà.

    Nerone, Hitler e Stalin

    Eppure non è solo la storia della costituzione-perdita-riconquista della libertà a essere costantemente elaborata e ripetuta. Molte istituzioni concrete ricorrenti nella filosofia antica e nei libri di storia servono da modelli per nuove istituzioni e per le istituzioni moderne. Il nuovo non è oggi legittimato sul piano razionale come qualcosa che è stato già sperimentato con successo come accadeva in epoca pre-moderna, tuttavia il riferimento al vecchio rende tuttora il nuovo più accettabile a livello emotivo. La storia della Repubblica romana, inclusa l’idea di repubblica e di repubblicanesimo, ne è un buon esempio. Il nome latino, res publica, la cosa comune, suona familiare anche oggi. Qui troviamo i tribuni del popolo, cioè l’emergere dell’istituto della rappresentanza, un istituto che resta ancora oggi uno dei maggiori pilastri della democrazia moderna.
    Altro esempio è Napoleone, che divenne prima console e poi imperatore, secondo il testo della grande narrazione, nonostante egli considerasse anche la seconda carica come il seguito della grande narrazione sulla libertà. Gli americani hanno, come i romani, il loro Senato; il senatus populusque romanus assume la forma di Senato e di Congresso. La funzione e il contenuto di queste istituzioni cambiano, non si tratta di istituzioni copiate pari pari.
    Ma in tutto questo c’è una lezione che ritorna costantemente anche nei tempi delle monarchie ereditarie, prima nelle città libere, nelle istituzioni della nobiltà, più tardi anche nelle istituzioni di alcune confessioni protestanti che occuperanno una posizione centrale nella modernità. Questa la lezione, o il credo, fondamentale: non si rimane all’apice del potere per una vita intera, poiché si è scelti o eletti per un periodo di tempo limitato; il potere è perciò temporaneo. Ne risulta che l’idea della libertà di scelta, che ci è familiare dalla Bibbia, in quanto prima grande narrazione sulla libertà, non è rilevante solo nelle questioni morali. Si può scegliere liberamente anche in politica, e ciò che è valido per una scelta morale è valido anche in politica. Si può rimpiangere la propria scelta e la volta successiva scegliere diversamente e meglio.
    La grande storia del repubblicanesimo è grande storia del pluralismo, ma anche storia della fragilità della libertà politica. La caduta della Repubblica romana ci mette di fronte a uno spettacolo tremendo: omicidi ed esecuzioni di massa, proscrizioni, razzie, guerra civile, dissolutezza, fondamentalismo, tutto insieme. E alla fine arriva l’Impero, il dispotismo.
    Per circa duemila anni il nome di Nerone è stato associato alla perdita della libertà, è stato la metafora del potere illimitato di un singolo individuo che se ne serve per uccidere, mosso da brama e capriccio. La storia di Nerone è indirettamente la storia della libertà. Funziona come ammonimento: la libertà può essere un fardello, ma la perdita della libertà è una catastrofe di proporzioni incalcolabili. È stato solo nel XX secolo che Nerone ha perduto il primato di metafora del dispotismo europeo, grazie all’operato di Hitler e di Stalin.
    Tutte le grandi narrazioni sulla libertà parlano anche della fragilità della libertà. La libertà è gravosa, si accompagna a gravi responsabilità, è difficile, come sostiene Lévinas. La libertà non promette immediata soddisfazione dei desideri, felicità e nemmeno sicurezza personale.
    Caino era libero di scegliere tra il bene e il male, e scelse il male. Il popolo di Israele abbandonò il Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù e al suo posto adorò il Vitello d’oro. Gesù di Nazareth fu crocifisso, Socrate bevve la cicuta. Dopo aver prosperato per breve tempo, le libere repubbliche decadono e trionfa il dispotismo. Ma mostrare la sconfitta non deve significare pessimismo. Se solleviamo la questione se ne valeva o se ne vale la pena, tutte le grandi narrazioni sulla libertà forniscono una risposta inequivocabile: comunque ne valeva assolutamente la pena. Vale la pena avere solo le cose che si possono perdere. La vita è preziosa perché la mia vita e quella dei miei cari andrà necessariamente perduta. La libertà è cara perché la mia libertà e quella dei miei cari si può perdere. Ma non necessariamente. Elaborare le grandi narrazioni della libertà significa elaborare la libertà stessa.

    Il dolce fardello delle grandi narrazioni

    Ho fatto brevemente la storia delle grandi narrazioni europee che hanno per tema la libertà. Sono storie che vengono interpretate, utilizzate, applicate e anche ricreate da intellettuali, politici e narratori che vivono in questa tradizione – storie che sono il «testo» in cui ci riconosciamo, a prescindere che viviamo nel subcontinente chiamato Europa o che abbiamo portato con noi nel nuovo mondo il dolce fardello delle grandi narrazioni – possiamo essere cattolici, protestanti, ebrei, ricchi o poveri: sono comunque questi i cardini fondamentali della cultura europea.
    Eppure, lasciate che mi ripeta: ogni specifica cultura di una nazione o di un’etnia, ogni popolo, ogni religione, perfino ogni gruppo umano, ogni professione, ogni setta, ogni famiglia, ha le proprie piccole grandi narrazioni che si comprendono senza bisogno di spiegazione. Per gli altri, invece, la spiegazione è necessaria. Ed è ovvio che le grandi civiltà antiche dell’India, della Cina, del Giappone hanno le loro grandi narrazioni universali, così come le hanno tutte le culture e tutti i popoli. «L’umanità in quanto tale» non ne ha nessuna, anche se una narrazione può essere tradotta in altre lingue, e le diverse interpretazioni di una narrazione possono dialogare tra loro. È improbabile, e forse non è nemmeno auspicabile, che si crei un oikoumene delle grandi narrazioni – eppure un oikoumene delle narrazioni sulla libertà sarebbe auspicabile e, mi auguro, non del tutto irrealizzabile.
    Da quando esiste la cultura europea – che non esisteva ai tempi degli antichi greci e romani, ma esiste solo dai tempi in cui si sono intrecciate le due fonti delle grandi narrazioni – noi non elaboriamo miti, ma solo grandi narrazioni. La cultura europea è vistosamente priva di miti. Ecco perché la mitologia greco-romana non appartiene alle nostre grandi narrazioni. Non so decidere – nessuno è in grado di farlo – se vivere senza miti ma con grandi narrazioni sia una qualità o un difetto. Uno giudica emotivamente, confessa amore oppure odio, o entrambi. Ecco perché sento di dover concludere questo mio contributo con una confessione: amo le grandi narrazioni più dei miti.

    (Per gentile concessione di Lettera internazionale, ed. italiana, n. 83/2005
    www.letterainternazionale.it)


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu