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    Il sogno dei nove anni


    Redazione, storia, criteri di lettura

    Francesco Motto

    (NPG 2020-05-6)


    “Vorrei qui richiamare il «sogno dei nove anni». Mi sembra infatti che questa pagina autobiografica offra una presentazione semplice, ma al tempo stesso profetica, dello spirito e della missione di Don Bosco. In esso viene definito il campo di azione che gli viene affidato: i giovani; viene indicato l’obiettivo della sua azione apostolica: farli crescere come persone attraverso l’educazione; viene offerto il metodo educativo che risulterà efficace: il Sistema Preventivo; viene presentato l’orizzonte in cui si muove tutto il suo e nostro operare: il disegno meraviglioso di Dio, che prima di tutti e più di ogni altro, ama i giovani”. Così scriveva il Rettor Maggiore emerito, don Pascual Chávez Villanueva, a conclusione della Strenna 2012, offerta alla Famiglia salesiana in occasione del primo anno del triennio in preparazione al bicentenario della nascita di don Bosco (2015).
    Per una miglior comprensione storica e un’interpretazione esistenziale e attualizzante del famosissimo sogno-visione che sarebbe diventato e tuttora costituisce un pilastro importante, quasi un mito fondativo, nell'immaginifico della Famiglia salesiana, credo siano utili una contestualizzazione e un’attenzione critica alla redazione stessa del sogno.

    Le Memorie dell’Oratorio (=MO): un’avvincente narrazione di carattere autobiografico con finalità educativo-spirituali

    Don Bosco visse una vita dove la presenza dello straordinario e del “divino” gli si è resa manifesta lungo tutta la sua vicenda personale e la storia della congregazione salesiana da lui fondata. La percepì in tante occasioni e non temette di indicarla ai suoi corrispondenti, papa compreso. Scrisse infatti a Pio IX nel 1873: “Beatissimo Padre… l'esistenza¬ e la pratica di quasi trent'anni delle Costituzioni di questa Società, le difficoltà e i gravi pericoli superati, e il meraviglioso suo incremento sono altrettante prove, che ci fanno vedere il dito di Dio, come affermano anche i Vescovi nelle loro Commendatizie”.
    Pochi anni dopo (2 febbraio 1876), proprio mentre stava redigendo le MO, confessò ai direttori salesiani: “Le altre Congregazioni e Ordini religiosi ebbero nei loro inizii qualche ispirazione, qualche visione, qualche fatto soprannaturale, che diede la spinta alla fondazione e ne assicurò lo stabilimento; ma per lo più la cosa si fermò ad uno o a pochi di questi fatti. Invece qui tra noi la cosa procede ben diversamente. Si può dire che non vi sia cosa che non sia stata conosciuta prima. Non diede passo la Congregazione, senza che qualche fatto soprannaturale non lo consigliasse; non mutamento o perfezionamento, o ingrandimento che non sia stato preceduto da un ordine del Signore… Noi, per esempio, avremmo potuto scrivere tutte le cose che avvennero a noi prima che avvenissero e scriverle minutamente e con precisione”.
    La conclusione del discorso ha tutto il sapore del paradosso, ma rimane un fatto che i suoi giovanissimi collaboratori di Valdocco molti anni prima, nel 1861, avviarono una sorta di “commissione storica” proprio per tramandare le “doti grandi e luminose… fatti straordinari… grandi disegni… qualche cosa di sovrannaturale”, che avevano quotidianamente sotto gli occhi.
    Ma ancor prima se ne era reso conto lo stesso Pio IX. In occasione del primo incontro nel 1858, a don Bosco che gli chiedeva lumi in ordine alla fondazione di una “Congregazione degli Oratori”, che da molti segni – ad iniziare dal sogno dei nove anni – percepiva come ispirazione divina, il papa “consigliò di scriverlo nel suo senso letterale, minuto per lasciarlo di incoraggiamento ai figli della Congregazione”. Don Bosco tralasciò di accogliere il consiglio papale: la Congregazione salesiana muoveva i primi passi in un contesto decisamente ostile agli istituti religiosi e tanto il presente che il futuro erano molto incerti, sia sotto il profilo dell’esistenza civile che giuridico-canonica.
    Nove anni dopo (1867) don Bosco ritornò nuovamente dal papa per averne l’appoggio nella delicata fase dell’approvazione della Congregazione ormai fondata (1859). Pio IX ne approfittò per rinnovargli il pressante invito di scrivere le sue “straordinarie” esperienze: "Il bene che proverrà ai vostri figli voi non potete intenderlo pienamente”. Don Bosco ancora una volta lasciò cadere quello che da “consiglio” era diventato un “comando”, impegnato come era in quegli anni a dare un fondamento stabile alla sua “Opera degli Oratori” che si stava ampliando.
    Solo negli anni 1873-1879 – ma soprattutto fino al 1875 – si decise ad accogliere la sollecitazione papale. I tempi erano sempre “critici”, ma anche maturi. In effetti, benché fosse quasi al termine del processo di riconoscimento giuridico della Congregazione salesiana con l'approvazione delle Costituzioni, non riusciva ad ottenere piena libertà di azione nei confronti dei vescovi per la mancata concessione di particolari facoltà. Permanevano serie difficoltà con mons. Lorenzo Gastaldi arcivescovo di Torino e pure problemi di disciplina nella complessa comunità giovanile di Valdocco, con qualche dirigente tentato di adottare una linea disciplinare non conforme alle esperienze e alle idealità del fondatore. Inoltre era il periodo di stabilizzazione e di consolidamento dell’Oratorio, della fondazione dell'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, del maturare dell’idea e dell’istituzionalizzazione dei Cooperatori Salesiani, dell’approdo dell'Opera salesiana in Francia e oltre Oceano.
    Don Bosco quasi sessantenne – si sentiva ormai anziano e lo era per l’epoca – dovette porsi il problema di dare una fondazione storico-spirituale alla sua Congregazione, con il ricordarne le origini provvidenziali che la giustificavano. Che cosa di meglio che “narrare” ai suoi figli come la culla della “Congregazione degli Oratori” nella sua genesi, sviluppo, finalità e metodo, fosse un'istituzione voluta da Dio come strumento per la salvezza della gioventù nei tempi nuovi?
    Lo scrisse nell’introduzione al suo manoscritto: “Servirà di norma a superare le difficoltà future, prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre”. Ed ancora: “mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali che possono servire di lume o tornare di utilità a quella istituzione che la divina provvidenza si degnò di affidare alla Società di S. Francesco di Sales”.
    Ecco allora dedicare alcuni spicchi di tempo libero per redigere un testo, le ben note MO che a distanza di un secolo con piena cognizione di causa sarebbero state definite in tempi diversi dal massimo studioso di pedagogia salesiana, Pietro Braido “una storia edificante lasciata da un fondatore ai membri della Società di apostoli e di educatori, che dovevano perpetuarne l'opera e lo stile, seguendone le direttive, gli orientamenti e le lezioni” (1965); o “una storia dell'oratorio più ‘teologica’ e pedagogica che reale, forse il documento ‘teorico’ di animazione più lungamente meditato e voluto da don Bosco” (1989); “forse il libro più ricco di contenuti e di orientamenti preventivi” che don Bosco abbia scritto: “un manuale di pedagogia e di spiritualità ‘raccontata’, in chiara prospettiva ‘oratoriana’” (1999); o anche uno scritto in cui “la parabola e il messaggio” vengono prima e “al di sopra della storia”, per illustrare l'azione di Dio nella vicende umane, e così, rallegrando e ricreando, “confortare e confermare” i discepoli” in chiara prospettiva “oratoriana’(1999). Pure lo storico Pietro Stella, che nel 1968 l’aveva semplicemente studiato come “un documento di storia delle mentalità”, a fine anni ottanta lo giudicò “un tessuto di eventi predisposti, prefigurati, fatti diventare realtà dalla sapienza divina", “una sorta di poema religioso e pedagogico costruito sull'intelaiatura e l'idealizzazione di aneddoti autobiografici” (1988). Sulla loro scia si sono poi collocati vari altri divulgatori.

    Un sogno premonitore

    La storia del testo

    In questo ampio quadro si colloca il sogno-visione avuto da Giovannino tra i nove e dieci anni nella casetta dei Becchi. A di là di confidenziali racconti fatti a singoli salesiani di Valdocco, divenne di dominio pubblico solo nel 1892 quando ampi stralci apparvero nel volume Cinque lustri di storia dell’oratorio fondato da don Bosco curato da don Giovanni Bonetti e quando venne inserito al completo nel I volume delle Memorie Biografiche compilate da don Giovanni Battista Lemoyne. Questi da parte sua accentuò ancor di più l’immagine provvidenzialistica, prodigiosa e soprannaturale dell'esperienza di don Bosco.
    Dalle Memorie Biografiche e soprattutto dalla Vita del venerabile servo di Dio Giovanni Bosco, pubblicata dallo stesso don Lemoyne (1911-1913), più volte ristampata e tradotta, il sogno confluì poi nel Bollettino salesiano dell’agosto 1915 e in decine di scritti agiografici successivi. Ovviamente divenne soggetto di raffigurazioni pittoriche in chiese e di illustrazioni che corredavano libri e fogli periodici. Nel 1925 il Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi ne fece celebrare da tutto il mondo salesiano il centenario, dopo averlo personalmente commentato negli Atti del Capitolo Superiore dell’ottobre precedente.
    Ovviamente con l’edizione integrale delle MO curata da don Eugenio Ceria nel 1946 (in occasione del centenario della casa Pinardi) e con successive traduzioni in francese e spagnolo (1950, 1955), il sogno acquisì ancor maggiore notorietà e finì, nel dopo Concilio Vaticano II, fra le fonti per la riflessione sul carisma salesiano. Nei primi anni ottanta si fece la microfilmatura dei manoscritti e nel 1991 l’Istituto Storico Salesiano mise a disposizione l'edizione critica (in due versioni) curata da Antonio da Silva Ferreira. Sulla base di essa, furono nuovamente editate in varie lingue, prive di apparato critico, ma con corredo di note e introduzioni indicanti criteri e possibili livelli di lettura. La più recente edizione è apparsa in Istituto Storico Salesiano, Fonti Salesiane I. Don Bosco e la sua opera. Roma, LAS 2014, pp. 1176-1177. Lo studio più ampio e recente è invece quello di Andrea Bozzolo, Il sogno dei nove anni. Questioni ermeneutiche e lettura teologica, in I sogni di Don Bosco. Esperienza spirituale e sapienza educativa. Roma, LAS 2017, pp. 209-268.

    Che cosa ha sognato veramente don Bosco?

    Don Bosco non a caso introduce nelle MO il sogno dei nove anni (e analogamente l’altrettanto famoso episodio di Bartolomeo Garelli). La sua missione nel mondo, guidata da Dio, ispirata dall’alto, inizia appunto con “un sogno che rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita” e che “non mi fu mai possibile togliermi… dalla mente”. Ponendolo deliberatamente all’inizio delle sue Memorie, gli assegna un ruolo strategico, ne fa un simbolo unificante di tutto il racconto.
    In effetti non si trattò di un sogno unico; riapparve con varianti anche significative, vent’anni dopo all’inizio della sua missione sacerdotale (1844) e ancora successivamente, fino al momento della celebrazione davanti al quadro di Maria Ausiliatrice nella chiesa del Sacro Cuore a Roma, quando, a pochi mesi dalla morte, scoppiò a piangere vedendo avverarsi le ultime parole della “donna di maestoso aspetto” del sogno: “A suo tempo tutto comprenderai”. Si tratta dunque di un complesso di sogni-visioni disseminati lungo la sua vita, più frequenti prima della fondazione della Congregazione, ma che in seguito acquistarono prospettive più vaste, quelle missionarie.
    Ma che cosa il fanciullo Giovanni Bosco ha sognato veramente quella notte? Quali parole ricordò di avere udito dal personaggio celeste e dalla sua madre? Impossibile saperlo, si possono avanzare solo ipotesi e alla fine rimarrà sempre molto difficile distinguere fra la reale esperienza onirica avuta da Giovannino e la libera narrazione, fatta a tavolino molto decenni dopo, torturando con correzioni e a più riprese uno, due manoscritti. E tutto ciò senza voler complicare maggiormente il discorso entrando nel merito della distinzione fra storia, ricostruita con procedimenti scientifici e rigorosi e memoria che seleziona e restituisce i fatti lontani nel tempo soprattutto attraverso l'uso dei simboli.
    Non è questa la sede per dare lo spazio che si meriterebbe ad una lettura del sogno-memoria fondato su un’attenta critica documentaria, che bypassi l’universo immaginifico di don Bosco – e di molti interpreti di ieri e di oggi – e che metta basi sicure per i possibili livelli interpretativi: storico, psicologico, simbolico, carismatico… Alla fine dovremo comunque sempre dar credito all’unica testimonianza disponibile, il racconto postumo di don Bosco più che alle versioni date da altri testimoni.

    Criteri fondamentali di lettura

    Pertanto è giocoforza tener presente determinati fattori storico-letterari importanti. riconducibili ad utili criteri di lettura del sogno (i corsivi sono nostri).

    1. Dalle modalità con cui don Bosco maneggia di solito le testimonianze scritte, è facile pensare come anche nella narrazione di questo sogno avvenuto 50 anni prima (e poi successivamente come si è detto) abbia proiettato esperienze successive. Ne legittimano l’ipotesi non solo le usuali esperienze oniriche e le comuni conoscenze di psicologia – la classica forza dell’inconscio – ma anche una certa terminologia relativa ai luoghi e tempi in cui avvengono tali sogni. Il “cortile assai spazioso” del sogno del 1825, “la stupenda e alta chiesa, un’orchestra, una musica istrumentale e vocale” e la scritta: “Hic domus mea, inde gloria mea” del sogno del 1844 fanno facilmente pensare al futuro spazio ricreativo di Valdocco e al grande tempio dell'Ausiliatrice, inaugurato pochi anni prima che si mettesse a redigere le MO (1868).
    Lo stesso si dica, tanto per limitarci al primo degli elementi costituivi del sogno, del campo di azione pastorale: “Mi ordinò di mettermi a capo di quei fanciulli”. Ora è un fatto che prima ancora del sogno Giovannino organizzava quello che lui stesso definiva “una specie di oratorio festivo” al paese e benché piccolo di età e statura esercitava un fascino incredibile sui coetanei. Anni dopo il sogno, studente a Chieri fondava “la società dell’allegria”. Seminarista, concepiva il suo sacerdozio sostanzialmente in funzione dei giovani. Nei pochi mesi passati al paese dopo l’ordinazione sacerdotale “la mia delizia – scrive - era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare loro… Uscendo dalla casa parrocchiale era sempre accompagnato da una schiera di fanciulli”. Negli anni di studio al Convitto si trovava sempre circondato da una frotta di giovani che lo “seguivano per i viali, per le piazze, e nella stessa sacrestia della chiesa dell’Istituto”. Avviato da don Cafasso all’apostolato fra i carcerati, la sua attenzione spontaneamente si polarizzò sui giovani raccolti in quel luogo di pena. Anche al momento della scelta del servizio sacerdotale alla conclusione degli studi al Cafasso confessava senza esitazione di volersi occupare della gioventù bisognosa.
    Dunque in quella “moltitudine di fanciulli, che si trastullavano… ridevano… giuocavano… non pochi bestemmiavano” e che avrebbe dovuto guadagnare “non con le percosse” ma “colla mansuetudine e colla carità”, don Bosco vedeva i carcerati della Generala, la massa di ragazzi poveri, e orfani e immigrati che girovagavano per Torino in cerca di lavoro, i tanti giovani che aveva raccolto a Valdocco; vedeva Bartolomeo Garelli, Michele Magone, ma anche Domenico Savio, Francesco Besucco e altri ancora. Fra i “quattro quinti di quegli animali… diventati agnelli”, che “cangiavansi in pastorelli, che crescendo prendevano cura degli altri e che “si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili” (sogno del 1841), erano decisamente adombrati i suoi primi ragazzi di Valdocco diventati vari salesiani, don Rua, mons. Cagliero, don Francesia, don Cerruti, don Albera e tanti altri.

    2. Da quello che si conosce di altri “sogni” e di corrispettive esposizioni non si può dare per scontato che don Bosco abbia scritto fedelmente quello che poté essere stato il suo sogno e tanto meno che dietro ciascun particolare del sogno ci sia stata effettivamente un'esperienza onirica specularmente identica. Avvenimenti e immaginazioni successive ricoprirono, razionalizzarono, arricchirono le scene sognate. Più che fedeltà all’esperienza onirica avuta si può pensare alla fedeltà in ordine alla narrazione che riteneva utile fare per i giovani salesiani cui era destinato il sogno: vale a dire trasmettere determinati insegnamenti religiosi e pedagogici. A quanti si arruolavano nelle file salesiane era necessario tramandare un carisma, evidenziare che la Congregazione salesiana era opera di Dio. Lo confermano unanimemente gli studiosi succitati.

    3. Dalla propensione di don Bosco a concretizzare concetti, a giocare sul significato delle parole, a suggerire, evocare, offrire suggestioni, ciò che ha più valore sembrano essere i messaggi che don Bosco nella sua narrazione tardiva fa intendere di aver percepito nel sogno. Forse non è solo un caso il fatto che don Bosco, ormai abituato ad assistere a spettacolini teatrali al suo oratorio, sia riuscito a redigere il suo sogno come fosse un copione di teatro, tanto risulta dotato di molti elementi scenici richiesti da tale arte. Scambi di battute tra i personaggi, determinate situazioni o movimenti di scena trasmettono allo spettatore-lettore messaggi educativi e pastorali più facilmente che non dimostrazioni e discussioni teoriche. Una genialità e originalità simile, ma ancor maggiore, si trova nella famosa lettera da Roma del 1884, redatta don Lemoyne su indicazione di don Bosco stesso. Di conseguenza ciò che è importante è individuare il nocciolo solido del sogno; il resto, i contorni di quell’esperienza, gli arricchimenti successivi di don Bosco possono leggersi in modo più allusivo e creativo.

    4. Infine una notazione particolare. “Tutto cominciò con un sogno”: è una espressione che si legge, tradotta in varie lingue, in libri, fascicoli, che trattano di don Bosco; la si ritrova di continuo in spettacoli teatrali, fiction televisive, pagine web video oratoriani che ne presentano la figura. L’espressione può essere accettabile, ma non nel senso, invero piuttosto diffuso, che don Bosco “ebbe la vita tracciata da un sogno”, quasi non avesse dovuto fare delle decisive e sofferte scelte nella sua vita. Rimanere contadino o studiare? Farsi francescano o entrare in seminario? Approfondire gli studi teologici o limitarsi a quelli del seminario? Prete in cura di anime oppure precettore di giovani ricchi? Religioso in una congregazione o missionario fra gli infedeli? Cappellano stipendiato delle Opere Barolo o educatore e parroco squattrinato di ragazzi della strada? Per non dire della facile tentazione di lasciare l’opera avviata, visti i pericolosissimi momenti politici dell’epoca, le ostilità in ambito ecclesiale locale e pontificio, il costante rischio di bancarotta, le immancabili delusioni educative e vocazionali. Dunque i sentieri della sua chiamata a fondare la Congregazione salesiana furono ben più complessi e contorti di quanto lascia immaginare il sogno-visione dei nove anni.
    Riuscire a rispondere con le proprie forze ai bisogni fisiologici come fame e sete, ma più ai bisogni di salvezza, di sicurezza, di protezione, e ancora ai bisogni di appartenenza, di stima, di realizzazione di sé, della propria identità e delle legittime aspettative di decine di migliaia di giovani non è stata una cosa semplice. Costruire una rete di istituti in cui ai giovani, sottratti alla strada e ad abusi di ogni tipo, insegnare a leggere e scrivere, poi a padroneggiare un mestiere, a inserirsi attivamente nella società come “onesti cittadini e buoni cristiani” è stata un’impresa da “gigante della fede, della speranza, della carità” che tutti riconoscono in lui.
    Don Bosco, “prete di strada” ante litteram, si è letteralmente consumato in questa impresa. I salesiani (e chi si ispira a don Bosco) sono sì “figli di un sognatore di futuro”, ma di un futuro che si costruisce nella fiducia in Dio e nel quotidiano immergersi e operare nella vita dei giovani, fra le fatiche e le incertezze di ogni giorno.

    Conclusione

    Nella logica donboschiana di rielaborare il sogno più in chiave teologica e pedagogica che in prospettiva storico-erudita (Stella, 1988), il compito dello storico si ferma qui. Ai successivi interventi del dossier tocca il compito di individuare gli elementi più o meno espliciti che caratterizzano la missione di don Bosco (e dei salesiani), i tratti spirituali più consoni al suo spirito, il suo modello di sacerdote-educatore religioso, il suo metodo educativo e il suo stile di azione. La direzione è suggerita dallo stesso don Chavez nel documento succitato quando scrive che don Bosco “visse per trasformare quel sogno in realtà”, quanto cioè tutti noi siamo chiamati a fare.


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