Pastorale Giovanile

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    LETTERA 4

    Unite i puntini.

    Ce la dobbiamo cavare da soli

    A proposito di futuro, del giusto posto del mondo e molto di più

    lettera 4


    Dal sussidio:
    «Di felicità, d'amore, di morte e altre storie (Dio compreso)»
    Libero carteggio tra una giovane millennial e un vecchio parroco di periferia
    Chiara - don Massimo
    https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17987

     


    TESTI DI AVVIO E DI APPROFONDIMENTO

    C’è chi nasce come Paperino:
    sfortunato e sempre pieno di guai
    e c’è chi invece è come Topolino:
    carino, intelligente e simpatico alla gente
    C’è chi è come Paperon de’ Paperoni
    pieno di fantastiliardi di milioni
    ma poi sta sveglio tutte le notti
    per paura che arrivi la Banda Bassotti
    Ma io mi sento come Vil Coyote
    che cade ma non molla mai
    che fa progetti strampalati e troppo complicati
    e quel Bip Bip lui non lo prenderà mai
    Ma siamo tutti come Vil Coyote
    che ci ficchiamo sempre nei guai
    ci può cadere il mondo addosso, finire sotto un masso
    ma noi non ci arrenderemo mai.
    C’è chi vive come Eta Beta
    sembra che stia con testa su di un altro pianeta
    e non si alza la mattina
    se non si spara un po’ di naftalina
    C’è chi è come Pietro Gambadilegno
    sempre preso in qualche loschissimo disegno
    e c'è chi vorrebbe avere tutte le risposte
    come nel Manuale delle Giovani Marmotte
    Ma io mi sento come Vil Coyote
    che cade ma non molla mai
    che fa progetti strampalati e troppo complicati
    e quel Bip Bip lui non lo prenderà mai
    Ma siete tutti come Vil Coyote
    che vi ficcate sempre nei guai
    vi può cadere il mondo addosso, finire sotto un masso
    ma voi non vi arrenderete mai
    (Eugenio Finardi, Vil Coyote)

    Io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.
    (vangelo di Matteo 6,25-34)

     

    LA LETTERA DI CHIARA

    Bergamo, giovedì 30 giugno 2022

    Caro don Massimo,
    a sto giro ti scrivo dalla mia stanzetta, sono tornata a casa e passerò tutta l’estate qui. Non credo proprio di riuscire ad andare in vacanza come ti dicevo lavoricchio per mettere via due soldi per poter pagare l’affitto una volta andata a vivere con T. L’occasione per scriverti questa volta viene mentre unisco i puntini del gioco della settimana enigmistica (must di eccellenza dell’estate) e che collego subito a un ricordo che mi è apparso nelle notifiche di Facebook proprio qualche giorno prima.
    Era il 2013, io e le mie amiche eravamo andate al concerto di Jovanotti e mi ricordo che a un certo punto aveva tenuto questo discorso: “Una volta proprio su internet, ascoltai un discorso di Steve Jobs agli studenti dell’università diceva: ‘Ragazzi volete un consiglio da me? UNITE I PUNTINI, (connect the dots)!’ E cominciavo a ragionare sul fatto che le generazioni precedenti alla nostra avevano la vita in fondo più semplice, i loro puntini erano allineati. Ognuno sapeva quello che doveva fare, un’autostrada piena di lampioni, al massimo qualche curva. Adesso non più, per noi non è più così. Abbiamo di fronte a noi una costellazione infinita di puntini, e non c’è nessuno che ci dica dove sta l’uno, dove sta il due, dove sta il tre… dove sta il sessantasette. Ce la dobbiamo cavare da soli”.
    In questa immagine della vita come una strada unita tra puntini non allineati e che quindi richiede sempre un pensiero e uno sforzo per capire quale sia il prossimo corretto mi ci ritrovo appieno. la conclusione che ne traggo è che ogni cosa comporti una scelta. Non penso che la condizione della scelta sia una condizione giovanile, ma credo proprio sia la condizione umana. Sono uomo/donna perché scelgo, perché ho il coraggio di scegliere (lo so della scelta ne ho già parlato scusa se ci ritorno ma è un periodo che questa cosa mi pesa particolarmente).
    I giovani, che poi vorrei chiederti, chi si può definire giovane e chi adulto? Qual è secondo te il rito d’iniziazione di questa società della comunicazione che permette di approdare alle responsabilità che gli adulti sostengono di avere? Io non credo di poterti dare una risposta sulla definizione di questa categoria perché la vedo troppo ampia. Leggendo le tue risposte sembra che ogni tanto io sia una voce solitaria fuori dal coro eppure per me questi discorsi, non dico siano temi di discussione all’ordine del giorno, ma comunque sono fonte di crescita e di confronto anche con le mie amiche e i miei amici. È vero siamo tutti vittime delle bolle virtuali e reali (della serie che vedo in rete solo ciò che mi interessa e mi confronto con chi nella maggior parte dei casi ha la mia stessa visione) e quindi non posso darti una panoramica oggettiva e distaccata “del mondo dei giovani”. Posso dire che però se oggi sono in grado di scriverti questi pensieri è perché ho trovato qualcuno che mi ha ascoltato. Non sentito, ma ascoltato e accolto il mio messaggio. I giovani sono quella categoria contro e per cui è facile fare propaganda utilizzando la retorica più banale e superficiale (e di sicuro anche io qui la sto utilizzando).
    Credo che l’unica soluzione sia ascoltare senza giudizio e soprattutto senza per forza cercare di comprendere sempre e fino in fondo le opinioni espresse dai giovani. Le incomprensioni, gli scontri vanno bene anzi sono necessari ma credo anche che molti meccanismi, sia nel linguaggio ma anche nel modo di pensare, siano troppo differenti per essere davvero colti appieno e appianati. Un adulto potrà di sicuro avvicinarsi ad un giovane ma credo che non riuscirà mai a comprendere fino in fondo le sue scelte.
    Scusami la piccola deviazione, adesso ritorno sul tema della scelta.
    Appunto scegliere mi mette molta ansia e più passano gli anni più percepisco il peso della responsabilità della scelta. A quattordici anni sei chiamato alla scelta più folle della tua vita a mio parere, devi scegliere la scuola superiore alla quale vuoi iscriverti. Secondo il sistema scolastico tu a quattordici anni dovresti avere già capito quale percorso formativo e di conseguenza lavorativo vorrai intraprendere.
    Solamente a rileggere queste righe la cosa fa sorridere. Per carità di sicuro negli anni scolastici precedenti qualche propensione o passione sarà emersa che certamente può aiutare nella scelta della scuola, ma rimane comunque una scelta che a mio parere è troppo grande per un adolescente che già non capisce bene quale sia il suo posto nel mondo e come starci in quel mondo con un corpo che non gli appartiene troppo.
    Io mi ritengo fortunata ancora una volta, in seconda media avevo già deciso che avrei scelto una scuola in cui si insegnava molto chimica e così ho fatto. In quinta superiore poi, a diciotto anni appena compiuti dove credi di avere la libertà e la tua vita in mano ti viene chiesto di scegliere cosa fare per i prossimi quarant’anni almeno.
    Ma anche qui io mi ritenevo fortunata, ho sempre deciso e detto che avrei perseguito la via della chimica e così mi sono iscritta ai rispettivi test universitari delle facoltà di tale materia. Test d’ingresso non passati. Panico. Le mie scelte che pensavo percorressero una sola ed unica strada non si univano con il puntino seguente che mi ero prefissata e dovevo cercarne un altro. La mia vita come me l’ero immaginata per i prossimi quarant’anni doveva essere aperta ad un nuovo scenario a cui non avevo mai pensato. Il nuovo puntino che ho scelto per continuare la mia strada è stata filosofia. Scelta folle lo so, ma forse è stata quella meno ragionata ma la più azzeccata che potessi fare.
    Ovvio adesso se devo pensare alla mia vita lavorativa mi viene già l’ansia. So benissimo che non ho proprio scelto il percorso di studi più richiesto all’interno del mercato del lavoro ma ho deciso di optare per qualcosa che mi piacesse, che mi accendesse ecco. Ancora una volta mi definisco fortunata e anzi anche un caso abbastanza raro nell’aver compreso e sapere quasi sicuramente che lavoro voglio fare “da grande”. L’insegnamento ai ragazzi delle superiori è sempre stato il mio obiettivo ultimo dei miei studi (e questo ha comportato sacrifici in termini di esami da sostenere per poter insegnare piuttosto che esami che mi piacessero di più, non lo nascondo). Certo, questo mio sogno (perché a volte pare davvero più un sogno che un qualcosa di concreto) raccontarlo a te e poi metterlo in pratica non è proprio la stessa cosa, i consigli di chi ci è già passato non nascondono la verità che mi aspetta: “un futuro di precariato”, “nei primi periodi vivrai nell’incertezza lavorativa”, “devi esserne consapevole e andare avanti che forse prima o poi ce la fai”. Onestamente ho paura del futuro e di questo tipo di futuro però per fortuna sono consapevole che l’ho scelto io, la sento proprio come la mia strada e quindi forse sono più disposta ad accettare il rischio. Eppure ribadisco sono fortunata nell’avere le idee abbastanza chiare, banalmente all’interno della mia cerchia di amici quasi tutti sono incerti sul loro futuro dal punto di vista lavorativo. C’è chi ha cambiato direzione con gli studi, chi non è soddisfatto del proprio lavoro perché forse non ha seguito ciò che gli piaceva ma ciò che era più funzionale, chi non sa proprio dove sbattere la testa ma non affronta il problema e chi deve ancora capire in che ambiti può lavorare con la laurea intrapresa e se davvero potrebbe essere la sua strada.
    Il mio prossimo puntino da connettere quindi è lontano, probabilmente in mezzo ce ne saranno altri ai quali mi dovrò adattare senza farmi troppo prendere dal panico, ripensandomi e mettendomi continuamente in discussione, va bene ci proveremo. Ho timore di non riuscire a raggiungere il mio obiettivo, di accontentarmi di qualcos’altro perché altrimenti non riuscirei a vivere (banalmente pagare un affitto e spese annesse) nonostante questo ci credo, o almeno ci provo. Consapevole che è così e che è stata una mia scelta questo spinge a continuare su questa via perché credo che quello sia il puntino giusto per me. Il cantautore Samuele Bersani in una sua canzone recita: “Io sono un portatore sano di sicuro precariato”, ecco io mi sento così, ma ho dalla mia la volontà: speriamo basti.
    Con affetto (che per fortuna questo non è mai incerto),
    Chiara

     

    LA RISPOSTA DI DON MASSIMO

    Bergamo, venerdì 1° luglio 2022

    Cara Chiara,
    Samuele Bersani non è solo un bravo artista, da tempo lo apprezzo, è molto di più: un genio della scrittura musicale, capace come pochi di sorprendere con i suoi versi a volte surreali, funambolici. Da ascoltare, hai ragione. Ci sono autori che in poche pennellate dipingono il mood dell’epoca contemporanea.
    Se intuisco bene, questa volta la nostra riflessione si concentra sui giovani e il futuro. E ovviamente ancora sulla scelta. Che ha sempre due direzioni, affettiva e lavorativa. L’uomo si realizza quando riesce a dare corpo a questi due movimenti vitali nei quali investire il meglio di sé, le proprie risorse intellettuali, le energie spirituali, i talenti. Il binomio giovani-futuro sembra così scontato, non varrebbe la pena spendere troppe righe, eppure non è così. Abbiamo una distanza anagrafica considerevole, tu ed io, tale da permettermi di dire che i giovani oggi faticano molto più di noi a imboccare la strada del futuro.
    Sembra che per loro – anzi per voi – il futuro non ci sia: il futuro non ha posto in voi, voi non avete posto nel futuro. Nessuno l’ha previsto.
    Nessuno vi ha previsto. Com’è possibile? Senza scadere nella solita retorica del dito puntato contro terzi (la società e bla bla bla…), mi chiedo che cosa stia facendo il nostro Paese per le nuove generazioni, sempre sulla bocca dei discorsi di circostanza, nei paroloni che infiocchettano i convegni, nei programmi politico-amministrativi ma mai realmente messe nelle giuste condizioni di abitare il loro presente da protagonisti. Certo, era più facile per quelli della mia generazione darsi un domani. I puntini da raccordare erano già lì tutti belli in fila, non potevi sbagliare. Oggi per voi è un continuo stop and go sotto il segno appunto della precarietà e della aleatorietà. Intuisco l’ansia che nasce da una concreta preoccupazione e che ha il volto di una domanda: che posto ho io in questo mondo? Come posso abitare la vita che ho ricevuto? Non si tratta soltanto di studiare, tanto, tantissimo, per meritare il proprio ingresso nel mondo del lavoro. Nel mondo. Punto.
    Per inciso: se non sei dentro il cerchio degli “eletti produttivi”, quelli che solo loro, sì, tirano avanti la carretta economica del paese; se non sei strategico a un corale progetto di sviluppo, non sei proprio nessuno; se non hai un ruolo pubblicamente definito e riconosciuto sei solo una zavorra che pesa sulla società. Eppure, Chiara, la vita non può essere solo affannosa ricerca di un posto di lavoro con tanto di profitto economico, pur condividendo l’idea che il lavoro è fondamentale non solo per la possibilità di consumare e il tempo libero ma perché è anche lì che si realizza il giusto posto nella vita. Ma chi si mette seriamente in ascolto delle domande di voi giovani, chi è preoccupato di voi e non soltanto per il potenziale lavorativo ed economico quanto semmai per le risorse spirituali, intellettuali, progettuali che avete in corpo? Chi si mette in ascolto dei vostri sogni e dei vostri desideri così spesso generativi e profetici? Come vedi, si tratta di rispondere alla questione capitale inevasa dal mondo adulto. Leggere la tua lettera è come ascoltare tutti i giovani da te rappresentati e che in te si interrogano: questo mondo ha davvero bisogno di me, giovane millennial, delle mie qualità e capacità? È in grado di riconoscerle e promuoverle? È interessato al mio pensiero o io sono soltanto un pedone da posizionare sulla grande scacchiera della agorà sociale con l’obiettivo di fare scacco matto all’avversario? Questa vita ha per caso riservato un posto tutto e solo per me o io, come gli altri, sono un “capitato per caso”? Questa vita – si dice – è un po’ da meritare. Bene: ma la vita riesce a meritare me? Per tornare al primo nostro scambio epistolare non è questione di performance o funzionalità ma di vocazione. Qual è la mia vocazione nel mondo, qual è il posto che soltanto io posso occupare, la scelta o il compito che se non lo assumo io non potrà mai realizzarlo alcun altro? Mi sono permesso di rispolverare una categoria – vocazione – francamente demodé e pressoché relegata al mondo clericale di preti e suore (quindi, sinonimo di muffa!). Eppure, è proprio questo il punto: la vocazione è ciò che la vita assegna a ciascuno di noi in accordo con le proprie attese e predisposizioni affinché io possa abitare questo mondo con giustezza e misura, in modo che io possa dare il meglio di me e il meglio di me sia per il bene di tutti. La vocazione è la destinazione della mia libertà: a chi posso donare ciò che sono, per quale buona causa posso spendermi? Bisogna sempre “obbedire” alla propria vocazione, all’appello che la vita lancia a noi, al compito che la vita assegna, non senza il dovere di una seria ricerca, e con la libertà di dire sì o no. La vita è sempre dialogica, l’uomo è chiamato a rispondere al compito (tutto da scoprire e da inventare), liberamente e fedelmente.
    È un affascinante gioco di libertà e responsabilità. Certo, una libertà che proprio perché è obbedienza e fedeltà ci lega ma insieme ci libera.
    A volte, il compito, rischiamo di fallirlo, a volte invece centriamo l’obiettivo.
    Non c'è una mai la ricetta risolutiva.
    Per inciso però una cosa devo riconoscerla: nemmeno la chiesa è all’altezza delle domande e delle aspirazioni dei giovani della tua generazione.
    A volte ho la sensazione amara che siate vittime di un colossale tradimento intergenerazionale. Ridotti soltanto a buona clientela per il mercato. L’economia dei consumi sa tutto di voi, sa come incantarvi, conosce i vostri desiderata, induce i vostri bisogni facendovi credere che corrispondono perfettamente ai vostri desideri (e, sai, ai desideri non si può non dire di sì). Vi compra con le sofisticate meraviglie della tecnologia, difficile non cedere alle seduzioni dei pifferai magici.
    Soltanto il mercato pubblicitario sembra aver colto le vostre potenzialità.
    Ma ci siamo capiti in che senso. È un giudizio un po’ severo, forse anche retorico. Ovviamente il rischio seduttivo riguarda anche il mondo degli adulti che non può certo facilmente sottrarsi al fascino avvolgente di questa gran tavola di delicatessen. In tutto questo mi sarei aspettato una chiesa diversa capace di offrire progettualità avvincenti, ingaggi per cause all’altezza della giustizia, valorizzando tutto il portato di protagonismo che avete. Temo invece che non sappia cosa dirvi. Non sa dove siete e pretende di vedervi là dove è lei. Non mi fa piacere scriverti di questo ormai consumato divorzio tra i giovani e la chiesa, anche perché io sono un uomo di chiesa e questo divorzio 72 73 mi fa soffrire (pur prendendone lucidamente atto), ma è soltanto il sintomo di una rottura più ampia tra le generazioni. Mi chiedo chi oggi sia davvero in grado di parlare con autenticità e verità al cuore delle nuove generazioni, senza comprarle, blandirle, circuirle, prenderle in ostaggio con chissà quali promesse, vestendo semmai i panni di “padri” testimoni di una parola che ha il senso della speranza, il respiro lungo di qualcosa che dura, qualcosa di avvincente in grado di chiedere un serio investimento della vita senza il sospetto di raggiri o sfruttamenti. Le nuove generazioni avrebbero bisogno di testimoni di esistenza autentica, innamorati della vita, capaci di indirizzare verso orizzonti dove si mette al mondo il mondo. Per questo il rischio è che dobbiate cavarvela da soli. Ma non dovrebbe essere così. Tutti noi come nani dovremmo camminare sulle spalle di giganti (secondo il famoso detto medievale del XII secolo di Bernardo di Chartres); sarebbe un vostro diritto avere generazioni di adulti che la smettano di guardarsi l’ombelico e facciano davvero gli adulti. Invece ci sta accadendo di camminare solo sulle spalle di “nani e ballerine”, come ai tempi della effervescente e spensierata Milano da bere. I piedi toccano terra e la vista non va oltre il proprio naso. Leggevo questa mattina Repubblica. Bucchi è un formidabile vignettista, sagace, al vetriolo direi.
    Nell’immagine c’è un giovane che si ripara dietro un libro aperto con lo sguardo perso nel vuoto. La frase è emblematica: “È ormai chiaro che il destino di noi giovani sia l’involontariato”. Noi adulti vi abbiamo mentito, e mi chiedo se un giorno potrete perdonarci. Nella Rimini di De Andrè il cantautore genovese canta “non regalate terre promesse a chi non le mantiene”. Il problema è che ai giovani non abbiamo “regalato” né terre né promesse. Ce le siamo tenute tutte per noi. A forza di rincorrere e soddisfare il narcisismo del nostro ego.
    Sono molto tranchant, lo so.
    Abbiamo ormai tutti imparato a interpretare il nostro tempo definendolo come il tempo dell’evaporazione del padre (vedi la divulgazione di Massimo Recalcati in Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, ma sappiamo che l’espressione viene dal grande psicanalista Lacan), dove sono crollati i riferimenti valoriali, le evidenze etiche, le “leggi” condivise universalmente e che permettono la convivenza degli umani. Il padre – simbolo di tutto questo – se n’è andato, ha abbandonato il terreno (oppure è stato estromesso, come nel Sessantotto), ha smesso di assumersi il compito di paternità autorevole (non autoritaria) che si sostanzia non nell’assecondare e saturare i bisogni (capricci smodati) dei figli quanto nell’indirizzare e accompagnare i figli nei sentieri della ricerca del Nome autentico del proprio desiderio per destinarlo alla realizzazione della propria vocazione. Il padre (l’adulto, il genitore, l’educatore, il maestro, lo studioso, il prete…) è colui che sa riconoscere il desiderio “segreto del figlio”. E lo serve (senza servirsene). Il discorso è interessantissimo, no? Mi concedo anch’io la possibilità di una digressione. Anzi tre. Ma sì, partiamo pure da Adamo ed Eva. Mi ha sempre colpito che nel primo libro della Bibbia, il grande codice della cultura occidentale (l’espressione è di Northrop Frye), Dio comincia a “parlare” (usiamo pure questa dicitura anche se andrebbe spiegata: cosa vuol dire che Dio parla? E come parla?) ponendo due domande che tutti conosciamo perché fanno parte del nostro bagaglio sapienziale, e non solo catechistico. Già è curioso che Dio cominciando a parlare ponga domande e non faccia affermazioni o dia risposte. Il Dio della Bibbia non è dogmatico, contrariamente alle convenzioni culturali un po’ impigrite (altrettanto cattedratiche). E il Dio di Gesù – come diceva il cardinale Martini – non è cattolico, contrariamente alle convinzioni clericali. È da subito un Dio dialogico e decisamente anti-dogmatico, non sta sulle sue, chiuso nel suo eldorado celeste a contemplarsi, ma esce allo scoperto entrando in relazione con l’uomo. Dunque, la prima domanda: “Adamo, dove sei?” chiede il creatore alla creatura dopo il peccato delle origini (Genesi 3). Ed è una domanda che ha a che fare con l’identità del singolo: Adamo dimmi chi sei, cosa fai, cosa vuoi essere. Ma vuol dire anche: Adamo cercati, scendi nel profondo di te, scava dentro e ascolta… Tutto questo risponde alla domanda “Chi sono io?” C’è una seconda domanda egualmente potente, e Dio la rivolge a Caino dopo l’uccisione di Abele (Genesi 4): “Caino, dov’è tuo fratello?” che potremmo tradurre anche così: ti avevo dato un fratello perché tu te ne prendessi cura, Abele era la destinazione della tua vita, la tua autentica vocazione, che ne hai fatto? Eliminare l’altro significa eliminare non solo l’Altro ma anche se stessi, non sapere più chi si è, perdere l’identità, non sapere più quale senso dare alla vita. Questa seconda domanda appartiene alla sfera del “Per chi sono io?” Ora, le due domande – chi sono io e per chi sono io – sono intrecciate senza possibilità di separazione. Ma insieme sono il succo dell’esistenza: identità e destinazione. I testi antichi, che ormai non frequentiamo più, in realtà avrebbero ancora qualche buona chance per istruirci sul senso primo e ultimo dell’umano, non credi? Sequeri – te ne ho già parlato – afferma in un efficace libro – La cruna dell’Ego – che dobbiamo rovesciare il tavolo narcisistico della cultura moderna, smettere di concentrarci sulla ricerca spasmodica della realizzazione di sé e orientarci sulla responsabilità che abbiamo nei confronti dell’altro da noi. Perché? Io non sono senza l’altro. Io sono l’altro. E l’altro è sempre me. Dunque, “mai senza l’altro” (Michel De Certeau). A chi intendo destinare la mia vita? È questa credo la domanda radicale (oltre a quella accennata poco sopra: quale è il mio posto nel mondo?). Ci libererebbe da qualche ansia in eccesso. Da più parti si sostiene che l’eccessiva concessione al primato dell’Io rischia oggi di indebolire proprio il patto umano che si fonda sulla grande legge del riconoscimento dell’altro, la legge del Noi. La nostra cultura dopo essersi liberata dal peso di Dio – come legge oppressiva della libertà e castrante il desiderio – dichiarando con un certo orgoglio la morte di Dio, di nicciana memoria, non si è resa sufficientemente conto di avere decretato persino la morte del prossimo (Luigi Zoja). Il problema non è mai l’amore per sé, ma pensare di poter far dipendere tutto il senso della vita da quell’unico amore. Il segreto dell’annuncio cristiano è aver saldato il comandamento dell’amore per Dio con quello per il prossimo. “Il cristianesimo è l’unica figura storica della forma-religione che istituisce la prossimità dell’uomo con l’uomo alla stessa altezza della prossimità di Dio con l’uomo (‘L’avete fatto a me’, Matteo 25). [...] Non c’è prossimità senza Dio, perché non c’è Dio senza prossimità” (è sempre l’amico Sequeri). Per me è una genialata confortante. Alla fine non è un po’ quello che ci dicevamo intorno al nostro bisogno di felicità? Non chiediamoci sempre se siamo felici ma cosa abbiamo fatto per rendere felici gli altri.
    Non si può essere felici se qualcuno rimane fuori dalla nostra felicità.
    O no? Imparare a destinare la propria vita, rispondere all’appello vocazionale dell’esistenza, sentirsi chiamati a uscire da sé (tra l’altro è la prima forma di riconoscimento della trascendenza: siamo più di quel che crediamo di essere) aiuterebbe perfino a tener a bada quell“ospite inquietante” (nuovamente Nietzsche) che, come sottolinea Galimberti nel suo omonimo saggio, impedisce alle nuove generazioni di decidersi per una buona causa perché il sentimento nichilista che sembra abitare la cultura giovanile – ecco l’ospite – fa credere che non ha senso cercare un senso visto che la domanda di senso è un’inutile passione.
    Lo cantava più prosaicamente il mitico Vasco Rossi: “Voglio trovare un senso a questa vita anche se questa vita un senso non ce l’ha” (Un senso). È tra i veri pochi cantautori, ormai nonno rock ma seguitissimo da stuoli di ado, a riuscire a dare corpo al disagio e al malessere giovanile (il manifesto di questo disagio era Siamo solo noi, fine anni settanta). Ovviamente non penso che i giovani di oggi siano tutti nichilisti come vorrebbe farci credere Galimberti; penso che i giovani stiano facendoci intuire inediti bisogni dì spiritualità e di ricerca di senso. Lo vedo nella profetica sensibilità per la cura e la salvaguardia del creato, per esempio. Non credo avremo tempo per parlare di questo tema, ma almeno l’abbiamo presente.
    Seconda digressione. Ricordo anni fa un incontro con Silvano Petrosino proprio a Longuelo. La chiesa era colma di giovani come non mai, perché in quella sede si parlava di giovani. Non so se c’eri anche tu.
    Lui, come sempre, interventi a braccio ed eloquio scoppiettante. Mi colpì che prendesse a prestito la figura di Vil Coyote – nell’immaginario collettivo un perdente patentato – riconoscendo che la “vocazione” di Vil non è catturare lo struzzo Bip Bip – francamente antipatico (chi non tifava per il coyote pasticcione?) – quanto semmai non smettere di inseguirlo. E non importa se sistematicamente Vil fallisce l’obiettivo. Importa che sia fedele alla sua natura di cacciatore. Ciò che fa la differenza non sono i risultati della sua caccia quanto la fedeltà al mandato vocazionale. Nessun fallimento gli impedisce di alzarsi di buon mattino e inventarsi mission impossible per la cattura. Può suonare risibile alle nostre orecchie, invece è tremendamente convincente.
    “Noi dovremmo semplicemente rendere testimonianza di quello in cui crediamo e perseguirlo sempre, nonostante i fallimenti”, diceva Petrosino quella sera. Lo trovo molto liberante. Basta ansia da prestazione, volontà di essere i primi della classe, dimostrare quanto si vale.
    Ecco, il nostro Vil sa di non essere perfetto ma sa anche che non deve dimostrare niente a nessuno. Lui sta lì giorno dopo giorno ad inventarsi strategie improbabili beatamente consapevole dell’insuccesso.
    Senza nutrire particolari risentimenti e senza maledire lo struzzo saccente.
    Sta lì perché lui deve stare lì altrimenti non sarebbe Vil. Siamo un po’ tutti come Vil, che male c’è? Finardi l’aveva capito anni prima componendo una canzonetta simpatica. Mi viene da canticchiarla: “Ma io mi sento come Vil Coyote / che cade ma non molla mai / che fa progetti strampalati e troppo complicati / e quel Bip Bip lui non lo prenderà mai / Ma siamo tutti come Vil Coyote / che ci ficchiamo sempre nei guai / ci può cadere il mondo addosso, finire sotto un masso / ma noi non ci arrenderemo mai”.
    La terza parentesi, a proposito di prepotenza dell’io, l’attingo dal gustosissimo Ognuno potrebbe dove Michele Serra con la solita autoironia stigmatizza quella volta che a un pranzo familiare volendo partecipare alla discussione continuò a interrompere gli adulti, giusto per far capire che esisteva anche lui, anche se ancora piccolo. La reazione del padre fu emblematica: “Quando arrivò il ceffone, del quale mi sgomentò non il dolore ma il suono improvviso e assordante, tutti guardammo esterrefatti mio padre. Che dopo un breve silenzio, come se anche lui dovesse riaversi dalla sorpresa, disse guardandomi negli occhi: ‘Hai detto io almeno dieci volte. è molto maleducato’. Si alzò da tavola e sparì fino a sera. Ero talmente sorpreso che non mi venne neanche da piangere. La testa ronzava, girava a vuoto, cercava di riassettarsi. Dissi a mia madre: ‘Ma io non è una parolaccia!’. Lei rispose che non lo era.
    Nessuno di noi poteva immaginare che lo sarebbe diventata”. Siamo una società di egofoni (iPhone) e di digitambuli: questo è il problema.
    Mi chiedi quali siano oggi i riti giovanili di passaggio. Ai miei tempi il rito che permetteva l’ingresso nel mondo degli adulti era indiscutibilmente il servizio di leva. Le donne potevano fare l’anno di volontariato.
    Come hai fatto tu del resto. Non è stata poca cosa, anzi il tuo è stato un passaggio esistenziale coraggioso. La leva militare nel frattempo è stata abolita. (Non voglio esaltare il servizio di leva: non mi ha mai convinto quel cameratismo goliardico-machista; però, è vero, quando si tornava dalla naia si tornava da uomini, così almeno diceva con un certo orgoglio chi l’aveva fatta). Cosa c’è al suo posto? Forse l’esperienza di Erasmus? C’è molto di positivo in questi mesi di studio in Europa. Per qualcuno il passaggio è stato il volontariato nelle missioni o con qualche Ong. È fondamentale per ogni essere umano il “passaggio”, dovrebbe essere istituito. Oggi invece non c’è quasi più nulla di istituzionalizzato, e allora penso che i nuovi riti di iniziazione siano appunto, per esempio, la prima assunzione lavorativa e il primo contratto (anche se quasi sempre a termine), la convivenza di due giovani che provano a metter su casa, l’arrivo di un figlio, atteso o meno che sia. Ovviamente il matrimonio per chi lo sceglie, in chiesa o in comune (ai miei tempi quando si era adulti si decideva di sposarsi, oggi ci si sposa per diventare adulti? È proprio solo una domanda).
    Dal mio piccolo osservatorio parrocchiale vedo come cambiano (tanto) i ragazzi all’arrivo di un figlio. Per le donne la maternità è un cambiamento radicale di vita. Per tutti è l’ingresso nel mondo della restituzione (cfr Francesco Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni). Una persona diventa grande – adulta – quando è pronta a restituire. Dopo anni in cui ha ricevuto, adesso sente che il bene che ha formato la sua vita in qualche maniera deve essere messo a disposizione di altri. È così che si diventa grandi: molto ho ricevuto, lo riconosco e sono grato, molto sono chiamato a consegnare. Sento la responsabilità di restituire, non posso tenere tutto per me. Il bene avuto è chiamato a generare – letteralmente – altro bene affinché altri crescano nel bene. È la legge della vita. E togliamoci il pensiero che si debba restituire ai genitori o alla famiglia. La restituzione ha come destinatario il mondo, la vita, l’altro con cui fare famiglia. Non si rivolge indietro, al passato, ma sempre in avanti. A forza di guardarsi indietro si rischia di diventare come la moglie di Lot che curiosa di vedere le città di Sodoma e Gomorra in fiamme in realtà non vuole lasciare il suo passato: ed è così che diventa una statua di sale (Genesi 19,26). Interpreto: certo che è importante tener conto del passato ma il passato non deve sequestrare la volontà di guardare l’orizzonte. La tradizione è certamente un’eredità importante ma guai se diventa una zavorra o un cordone ombelicale mai tagliato definitivamente. La tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco (Mahler). Da tener acceso perché illumini.
    Rileggendo la tua lettera mi preme sottolineare l’importanza di aver trovato qualcuno che ti ha ascoltato. In questa nostra cultura ubriaca di egoismi e individualismi narcisistici ciascuno rischia di essere concentrato ad ascoltare e promuovere solo se stesso, quasi mai ci si mette in ascolto dell’altro. L’ascolto dell’altro è decisivo, a patto che il suo atteggiamento non sia giudicante e sia davvero un fratello, un autentico compagno di viaggio. L’ascolto richiede tempo, pazienza, non c’è bisogno di sciorinare ricette sapienziali sulla vita, offrire manuali del benvivere.
    Sono contento che qualcuno si sia messo in ascolto, abbia accolto la tua storia, abbia fatto propria la tua ricerca esistenziale. È una maniera di prendersi cura di te, lasciando intuire quanto tu sia realmente importante.
    D’accordo, i giovani devono cavarsela da soli perché nessuno può vivere la vita al posto di qualcun altro, eppure non siete soli. Qualcuno vi ha voluto, siete preziosi. Non smetterà di guardarvi, come se foste la pupilla dei suoi occhi. Ho sempre trovato magnifico l’espressione evangelica: “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Luca 10,20). L’ho scritta e la riscrivo. C’è qualcuno che conserva memoria di noi. Memoria è uno dei nomi di Dio. La vita non sarebbe un’avventura in solitaria anche se i protagonisti indiscussi fossimo solo noi. Abbiamo la compagnia dei fratelli, degli amici, di molti compagni di viaggio con i quali condividere la vita. Lo trovo bellissimo. Così come trovo bellissimo l’approccio del camminatore di Galilea quando con postura controcorrente afferma: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Matteo 6,25-26). A volte mi chiedo se non sia il caso di assumere la vita anche con questo senso di soavità, dolcezza, spensieratezza, letizia perfino. Questo, Chiara, lo sapete fare soltanto voi giovani. E questa leggerezza o levità soltanto voi potete insegnarla a noi adulti troppo scafati e così poco capaci di innamorarci della vita. Alla fine, penso, quanto sarebbe bello se noi adulti accettassimo un po’ di venire a scuola delle vostre intuizioni e delle vostre speranze. Non lo credi anche tu? Buon cammino.
    Alla prossima. Sono curioso già di sapere su cosa rifletteremo.
    Un abbraccio dal vecchio parroco

    PS1: il tuo ricordo della Settimana Enigmistica mi ha riportato alle estati della mia giovinezza e adolescenza anni settanta, quando al lago d’Endine dove avevamo in affitto un appartamento (d’accordo, San Felice non è proprio Varigotti) e tra i passatempi gettonati di mio padre, oltre alle carte e alle bocce dalla Duina, c’erano gli insolubili e impervi cruciverba di Bartezzaghi (il padre) ai quali noi figli rinunciavamo subito; solo papà metteva in fila le definizioni.
    PS2: ma se decidessi di raccogliere a settembre alcuni giovani per valutare con loro la possibilità di incontrarci di tanto in tanto tu ci staresti a darmi una mano o la ritieni una proposta perdente già in partenza? quinta lettera L’arte di riparare gli oggetti Il peso della responsabilità, l’esperienza del fallimento e quel desiderio di rinascita che ci fa sempre nuovi


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