Pastorale Giovanile

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    LETTERA 2

    Questione di feeling (o di scelte?)

    L’esperienza amorosa, la probabile vita a due, l’amore come progetto

    lettera 1


    Dal sussidio:
    «Di felicità, d'amore, di morte e altre storie (Dio compreso)»
    Libero carteggio tra una giovane millennial e un vecchio parroco di periferia
    Chiara - don Massimo
    https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17987

     


    TESTI DI AVVIO E DI APPROFONDIMENTO

    L’amore fa l’acqua buona
    Fa passare la malinconia
    Crescere i capelli l’amore fa
    L’amore accarezza i figli
    L’amore parla con i vecchi
    Qualcuno vuole bene ai più lontani
    Anche per telefono
    L’amore fa guerra agli idioti
    Agli arroganti pericolosi
    Fa bellissima la stanchezza
    Avvicina la fortuna quando può
    Fa buona la cucina
    L’amore è una puttana
    Che onora la bellezza
    Di un bacio per regalo
    Cose che fanno ridere
    L’amore fa
    Cose che fanno piangere
    L’amore fa begli gli uomini
    Sagge le donne
    L’amore fa
    Cantare le allodole
    Dolce la pioggia d’autunno
    E vi dico che fa viaggiare, sì
    Illumina le strade
    Fa grandi le occasioni
    Di credere e di imparare
    Cose che fanno ridere
    L’amore fa
    Cose che fanno piangere
    Fa crescere i gerani e le rose
    Aprire i balconi
    L’amore fa
    Confondere le città
    Ma riconoscere i padroni
    L’amore lo fa
    Aprire bene gli occhi
    Amare più se stessi
    L’amore fa bene alla gente
    Comprendere il perdono
    L’amore fa.
    (Ivano Fossati, L’amore fa)

    Desiderate intensamente i carismi più grandi.
    E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo.
    Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
    (Prima Lettera di Paolo ai Corinti 12,31-13,13)

     

    LA LETTERA DI CHIARA

    in treno per Trieste, martedì 21 giugno 2022

    Caro don Massimo,
    Prima di tutto ti rispondo all’ultima domanda della tua lettera: io vengo incasellata nella categoria denominata Millennials (che alcuni chiamano anche figli di MTV o Generazione Y) e quindi anche per me alcuni passaggi tra la vita online e offline rimangono oscuri e degni di studio e curiosità.
    Comunque torniamo a noi. Sono in treno per andare a Trieste, un viaggio lunghissimo. Il treno ovviamente comporta sempre dei momenti in cui non hai più voglia né di ascoltare musica né di leggere e quasi sempre ti obbliga a pensare e ripensare (onestamente è anche il bello del prendere il treno). Quindi nulla, ripensavo alla lettera che ti ho scritto e mi è tornato alla mente un film visto in prima superiore durante una convivenza in montagna con l’oratorio e una frase che per anni ho fatto proprio fatica a digerire. Il film era Into the wild (film che all’epoca, sarò onesta, non mi è proprio piaciuto e che ancora adesso faccio fatica a guardare: il perchè non so spiegarlo molto) e la frase che mi ha sempre fatto un po’ triggerare (parola che deriva dal verbo inglese to trigger che significa “innescare, attivare”, quindi in questo caso viene utilizzata per dire che mi ha punto nel vivo, mi ha fatto innescare/arrabbiare) è quella scritta dal protagonista verso la fine del film: “La felicità è reale solo se condivisa”. Non puoi capire quanto quella frase mi abbia acceso per diversi anni.
    Sembrava che da sola non potessi essere felice, a 15 anni la mia traduzione personale di questa frase era: se non hai un ragazzo non puoi essere felice, se non ami qualcuno non puoi essere felice. Mi dava davvero rabbia, non capivo perché per forza dovessi avere un ragazzo. Ammetto che il mio spirito di adolescente-contro-a-priori verso le mode e verso quello che fanno tutti era abbastanza ingombrante e ha lavorato in profondità affinché potessi sentirmi diversa dalla massa ma più per principio che per motivi davvero validi (e non nego che ancora oggi la mia legge morale sia molto adolescenziale). Però per me l’amore in quel periodo era una cosa che riguardava i “grandi” e io a quell’età non potevo davvero sapere che cosa fosse perché non ero “grande”. Ovviamente ora sono del tutto consapevole che era tutto “troppo cerebrale”, come canta Samuele Bersani in Giudizi Universali, e solo razionale la mia visione dell’amore e del rapporto di coppia. Eppure dovevo avere sotto controllo tutto, anche quella parte lì. Non accettavo che i miei sentimenti o le mie emozioni – sì forse è meglio parlare di emozioni – prendessero il sopravvento e mi mettessero nelle condizioni di perdere il controllo, di rimanerci male e di essere ferita. Sì, a conti fatti credo che la mia paura più grande fosse proprio quella di stare male per qualcuno, che qualcuno avesse questo assurdo potere di decidere senza il mio permesso, di farmi stare bene o male. Col tempo poi la frase incriminata ha preso una piega differente. Ho capito che la felicità si poteva condividere anche con gli amici, che anzi solo lì e con loro potevo essere felice ma legarmi a qualcuno esprimendo e accettando i sentimenti che provavo, proprio no, non potevo accettarlo.
    Poi mi sono innamorata – ci sono cascata anche io – ho capito che i miei sentimenti e la mia forte emotività facevano parte di me e che dunque andavano accolti. Mi sono lasciata andare, nulla era sotto il mio controllo. Ovviamente sono stata lasciata e ci sono stata malissimo, ma questo fa parte del grande e infinito ciclo della vita, secondo il mio parere è la cosa più normale del mondo. Ovvio sì, ci sono stata male, mi sono sentita tradita però ho accettato anche quel mio dolore.
    Me lo sono portato dietro, mi ha segnato in scelte o comportamenti e magari qualche diffidenza all’inizio nei confronti di nuove persone ma non sono mai arrivata a dirmi: adesso basta, chiudo con l’amore.
    Diciamocelo francamente, l’amore alla fine è una cosa pazzesca, non è forse una cosa semplice come canta Tiziano Ferro ma quando ci sei dentro ti sembra proprio di sì.
    Quindi, dicevo che sono stata lasciata, anche più volte, mi sono innamorata (forse meno delle volte in cui sono stata lasciata) e poi mi sono innamorata di T. Lui ed io tra poco andremo a convivere e mi sembra la cosa più semplice e normale di questo mondo. Non siamo insieme da troppissimo, da un paio di anni, ma abbiamo deciso di sceglierci da grandi e quindi quando sei “grande” sai cosa è l’amore, o almeno capisci se qualcuno ti fa stare bene abbastanza in fretta (ah, altra fonte che mi ha aperto gli occhi sull’amore il Simposio di Platone, rivelazione del primo anno di università).
    Ho scritto sceglierci perché per me è davvero questa la base per una relazione di coppia. Ho scelto di stare insieme a T., così come lui ovviamente ha scelto di stare insieme a me (la scelta deve essere bidirezionale altrimenti le cose si complicano e non di poco), perché mi faceva “stare bene di più”. Ecco, il nocciolo essenziale credo sia questo: quando sto con lui “sto bene di più”; posso essere me stessa in tutto e per tutto con tutte le emozioni e le storie che mi porto dietro, mi sento accolta, mai giudicata, stimata etc. tutte quelle sensazioni che mi permettono di “stare bene di più”. Ovvio, io e T. a volte non ci capiamo proprio, abbiamo sfere emotive differenti e approcci molto opposti su differenti aspetti quotidiani: lui molto razionale e io alla fine mi sono rivelata per quella che prende tutto di pancia, però alla fine ci continuiamo a scegliere. Ci fidiamo l’una dell’altro perché ci siamo scelti, abbiamo deciso di affrontare questo cammino insieme perché sentiamo che è così. Quando sei innamorato, quando ami qualcuno alla fine non ci sono grandi spiegazioni o motivi del perché hai scelto quella persona piuttosto che un’altra: è così e basta.
    Certo anche con le mie amiche “sto bene e anche di più”, ma con T. ho capito e mi immagino di voler costruire una famiglia. Sì, ho ventisette anni e non ho grande paura a dirlo, vorrei sposarmi e avere dei figli.
    Sul matrimonio e del perché una della mia generazione voglia sposarsi posso darti una risposta abbastanza semplice e veloce. Credo sia un passo in più, credo che abbia senso, e non da poco, rendere pubblica una scelta di coppia, condividendo con chi ti sta attorno la tua scelta, per dire loro: sì io scelgo di stare con te ma anche con tutti quelli che sono vicino a te perché fanno parte della tua vita. Il matrimonio è come se fosse una forma ufficiale nell’impegnarsi nella cura dell’altro e nel rapporto (almeno per me è un passo in più ed importante ma non riscontro differenze nel chi si impegna per la stessa cosa senza scambiarsi pubblicamente le promesse). Non si può abbandonare la nave appena imbarca un po’ di acqua, si decide insieme di provare ad aggiustarla perché entrambi crediamo che quel rapporto valga la pena di tutte quelle energie spese e di tutte le fatiche che si dovranno affrontare per poter riparare quel buco (cosa che credo poi valga per qualsiasi tipo di relazione). Poi oh, se succede che l’acqua è troppa e insieme si sta soltanto male, non sono nemmeno del partito che bisogna stare assieme per forza, proprio perché è una scelta condividere la vita con quelle persone: non sono obbligata o costretta a stare male.
    Per quanto riguarda invece avere dei figli non ho una risposta così chiara e precisa. Credo sia ancora un di più, credo che mettere al mondo un figlio sia una dichiarazione d’amore nei confronti dell’intero mondo e un segno di consapevolezza che vivere in questo mondo sia una cosa che valga la pena di fare. Io, genitore o futuro genitore, scelgo di farti nascere (perché nessuno decide di nascere, è qualcun altro che sceglie per me, unica non scelta della nostra vita, in alcuni casi insieme alla morte) perché quello che ho vissuto finora e quello che mi immagino di vivere lo considero talmente bello e grandioso che desidero che anche tu possa viverlo. Certo, non ti nego che onestamente non tutti i giorni penso che questo mondo valga la pena di essere vissuto, che forse mettere al mondo dei figli oggi oltre che un lusso sia un po’ da incoscienti per tutti gli avvenimenti che sentiamo nel quotidiano.
    Che forse l’eredità del vivere su questa terra non ne valga troppo la pena.
    Però per ora in me prevale ancora il sì, sono incosciente (in maniera positiva in questo senso) lo so, però per ora credo ne valga ancora la pena. Cosa ne pensa di tutto questo T.? Ne discutiamo, in linea generale siamo sulla stessa lunghezza d’onda, lui forse è un po’ meno incosciente e più pratico rispetto a me lo ammetto (e credo anche che per il nostro equilibrio vada bene così) ma prima o poi sento che si butterà.
    Mentre sto arrivando al capolinea mi viene in mente che in questa lettera non ti ho ancora scritto che cosa sia l’amore per me; ne ho parlato ma non l’ho spiegato come concetto. Beh, potremmo stare qui ore riprendendo molteplici concetti di autori, pensatori, filosofi e ragionarci insieme ma non ho molto tempo e quindi mi è venuta in mente un verso di una canzone di Fabi, Gazzè e Silvestri che definisce l’amore così: “L’amore non esiste ma esistiamo io e te e la nostra ribellione alla statistica, un abbraccio per proteggersi dal vento, l’illusione di competere con il tempo”.
    Scusa la lunghezza ma quando si è innamorati non si finisce mai di parlare di chi si ama.
    Un abbraccio, Chiara

     

    LA RIPOSTA DI DON MASSIMO

    Bergamo, mercoledì 22 giugno 2022

    Cara Chiara,
    il viaggiare “lento” fa bene. In effetti, il treno aiuta a mettere in fila i pensieri. È il mezzo di spostamento di gran lunga preferito (anche se ormai il più caro; paradossi della modernità). Ti ringrazio molto della sincerità con cui esponi le tue idee, senza eccessive preoccupazioni, libera dai giudizi (facciamo un patto? In queste lettere i giudizi – e i pregiudizi – stanno a zero, e stanno fuori pagina, ok?). E, poi, tieni conto che mi scrivi di un temone di cui io sono proprio “ignorante” (nel senso letterale della parola). Spero però, da uomo, di non essere un totale analfabeta. Mi stai costringendo alla “fatica del pensiero” e anche di questo non posso che essere grato. Come cioè non essere riconoscente a una giovane che costringe un uomo di sessant’anni a mettere in chiaro le proprie idee? Abbiamo deciso di giocare a carte scoperte e, dunque, che il gioco (il dialogo) continui, con schiettezza e autenticità.
    Trovo bellissimo il tuo finale: quando si è innamorati non si finisce mai di parlare di chi si ama. Penso che sia vero. Impossibile dare un’unica definizione dell’amore. Sarebbe assurdo pretenderla. Mi ha sempre illuminato il verso di una poesia di Emily Dickinson: “Che l’amore sia tutto quel che c’è / è ciò che noi sappiamo dell’amore. / E ci basta, se il carico / è proporzionato al contenitore”. La filosofa Michela Marzano ci ha costruito un bel saggio qualche anno fa, rubando il titolo proprio ad un verso citato. Mi è capitato sovente di regalare copia del libro a giovani amici che si stavano lanciando nell’avventura della vita a due. Magari prima o poi te ne recapito una copia. Anzi, contaci. Di tutto il saggio della Marzano, che si legge come un romanzo esistenzialista e che dà credito a un’affermazione tautologica (quasi a voler dire: che assurdità voler definire l’amore, l’amore si definisce solo con l’amore), mi ha sempre commosso un passaggio. Parlando del suo compagno francese dice: “Ci ho messo tanto tempo prima di accettarlo.
    E capire che è insieme a Jacques che voglio diventare grande e invecchiare. Anche se non è perfetto. D’altra parte nemmeno io sono perfetta”. Non è grandiosa questa semplice idea? Invecchiare con te, senza ansie di perfezione: suona come una promessa di eternità, un per sempre inedito (spero non come una minaccia o condanna!). Del resto, è davvero strano questo animale senziente e pensante che quando ama desidera che quell’amore duri e che duri persino resistendo alla morte. L’avevano compreso subito i grandi sapienti della letteratura biblica: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché forte come la morte è l’amore”, suggerisce il passionale Cantico dei cantici (Ct 8,6). “Contro la morte esiste solo l’amore” recita un aforisma di Franco Arminio. Sono totalmente d’accordo: solo una volontà di bene – volere il bene dell’altro – è in grado di respingere l’idea che con la morte finisca tutto dell’uomo. Noi siamo quegli esseri – gli unici apparsi sulla faccia della terra – che desiderano che la vita non finisca anche quando l’evidenza dei fatti è un’altra: siamo esseri finiti, mortali, caduchi, attorno a noi vediamo le cose finire nella polvere (“polvere tu sei e in polvere ritornerai” [Genesi 3,19]) e dunque come si fa a sperare nella durevolezza dell’umano? È francamente un mistero, difficile venirne a capo. Eppure, in maniera quasi controfattuale, perfino paradossale, l’uomo desidera la vita, e desidera che sia sempre e per sempre. Per questo, forse solo per questo, si ostina ad amare, anche quando tutto rema contro, anche quando, o soprattutto quando, non gli conviene. Ama chi non si arrende alla morte. Ama chi sa che la morte non gli porterà via nulla se non una manciata di anni. Ama chi crede che la morte non può essere l’ultima parola sulla vita, l’ultima parola della vita sulla vita. “Ed è in certi sguardi… che s’intravede l’infinito” (Battiato).
    Trovo la tua riflessione sulla scelta, renderla pubblica, la volontà di sposarsi e mettere al mondo i figli, in netta controtendenza al mainstream culturale che oracola “l’amore è eterno finché dura” (ricordi il film agrodolce di Carlo Verdone?). Lo scrivi senza barocchismi vetero- cattolici che oggi suonano un po’ fastidiosi. Senza inneggiare alla retorica dell’amore perfetto con tutto l’apparato chiesastico dell’indissolubilità e della fedeltà. Squisitamente consapevole che oggi sembra non durare più nulla (forse perché non c’è più nulla da far durare?).
    In questa società “liquida” – come abbiamo imparato dal grande sociologo Bauman – tutto è liquido, anche l’amore, non più chiamato a onorare promesse o accendere desideri e futuro ma a reggere l’esistente dell’hic et nunc. Liquidi sono i sentimenti, le emozioni, perfino le scelte che non devono durare e che possono essere interrotte sempre e comunque quando tra i due il materiale alchemico della passione si esaurisce: con l’attenuarsi della dopamina la libido, e il desiderio, verso l’altro si attenua e per tenerla accesa c’è solo bisogno di un altro oggetto del desiderio. Tutto è semmai pensato – anzi studiato, programmato (la macchina diabolica dei consumi non funziona così?) – per deperire presto, essere consumato, non resistere all’usura e alla prova del tempo. L’amore è invece questione di tempo, il tempo è la sua vera misura e il suo banco di prova. Non ricordo dove l’ho letto ma ricordo benissimo il pensiero. Una volta per gli innamorati (dei miei tempi) era tutto chiaro: ci amiamo così tanto da volerci sposare; oggi invece si corregge il tiro: ci amiamo così tanto, quindi perché mai dovremmo sposarci? Tendo a valorizzare il verbo scegliere che costituisce il cuore della tua progettualità. Scegliere l’altro ed essere scelti dall’altro. Ma aggiungo anche l’idea – certamente demodé (del resto è la mia età ad essere vintage) – che l’amore sia un appello, perfino una vocazione. L’amore è una scelta, certamente, perché ciascuno risponde a quell’unica vocazione umana che fa dell’uomo quello che un uomo dev’essere: un essere amante. “Tutto l’universo obbedisce all’amore”, cantava un misticheggiante Battiato, e tutti gli uomini obbediscono a questa sorta di “Legge” fondativa e originaria.
    Non ho paura ad usare un vocabolario così. Sono vecchio ma non nostalgico e con il tempo ho imparato ad apprezzare il senso della misura, del limite per i quali ha senso parlare anche di legge e regole.
    Anche nell’amore. L’imperativo trasgressivo ci fa credere che le regole e la legge siano la tomba del rapporto amoroso. In realtà, la legge – della misura, del limite, della non onnipotenza, dell’argine alla tracotanza paranoica – esiste per favorire l’amore, affinché l’amore sia il più interamente umano possibile. Il desiderio che non ha limiti e non si dà misura è semplicemente distruttivo e, come insegna la psicanalisi, il godimento rischia di essere mortale.
    Ti fa onore scegliere di iniziare la vita a due e uscire di casa. Per dare corpo all’esperienza amorosa bisogna uscire dalla propria patria-casa, patria-affetti. Dalla propria comfort zone. Occorre gettarsi a capofitto perfino nell’idea “miracolosa” del rischio. Esporsi sull’altro come mistero. Senza volgere lo sguardo indietro. La scelta di vivere una relazione amorosa ha il carattere dell’esodo e perfino dell’esilio.
    Per immaginare un futuro occorre uscire dalla propria terra. Mettersi in esodo, uscire da sé, vivere perfino un tempo esiliaco. La Bibbia non è una favola per addormentare i bambini o ammansire i creduloni, è narrazione dell’umano per come deve essere: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne” (Genesi 2,24); “Abram, vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Genesi 12,1).
    Concedimi un intermezzo poetico sull’amore. Accennavo poco sopra a Franco Arminio, poeta campano che si definisce “paesologo”.
    Lo abbiamo avuto ospite anche in comunità. Non so se ricordi. Ebbene di recente ha dedicato all’amore una raccolta di poesie e aforismi dal titolo Studi sull’amore. Bisogna stare molto attenti a maneggiare l’amore perché è un amen scivolare nella retorica mielosa tipo “dammi tre parole sole cuore amore”. Attingo ai versi di Arminio: vincono e convincono. Mi pare riesca a restituire la verità dell’amore che è insieme corporeità, carne, alterità, sessualità, pudore, rispetto.
    Durante la lettura mi ero appuntato i seguenti aforismi (ma c’era da sottolineare tutto), li cito a casaccio, senza ordine preciso, sono uno più bello dell’altro, spero si “sposino” con la tua sensibilità e la tua ricerca: “Abbiate a cuore di impazzire per un abbraccio”.
    “Io vorrei un’umanità follemente sentimentale…”.
    “Noi siamo la grazia di cui il mondo / vuole fare a meno”.
    “... non puoi scegliere che posto avere / nel cuore degli altri, / pensa a sistemare gli altri / nel tuo cuore”.
    “... ma se ti vuole / considera che una donna / in amore è sempre / assai ambiziosa: / non lascia niente per sé / vuole trovare Dio / insieme a te”.
    “Posso farti spazio. / Farti vedere la mia lotta. Forse questo è l’amore”.
    “Per essere poeti non è necessario non saperlo. / Per essere amati è necessario non volerlo”.
    “Ho bisogno del dolore. / Senza dolore non sento niente, / non amo niente. / Datemi il dolore più alto che un essere umano / abbia mai vissuto, / datemi l’amore”.
    “Cerco una donna / che sappia dare / quello che non ha / e che si faccia dare / quello che non ho”.
    “Dio è un’invenzione degli amanti”.
    E, poi, quest’ultima frase che mi capita ormai di regalare in occasione dei matrimoni: “L’amore è un vangelo che nasce / nell’incontro, è una teologia / intima che non dà spazio / al chiasso volgare / dell’intelligenza che diventa astio. / L’amore possiede la semplice evidenza / che siamo qui per poco / e questo poco è la nostra eternità”.
    Dovremmo dare più credito al pensiero di tanti giovani che noi adulti scioccamente derubrichiamo come leggero, disimpegnato, poco dedito alla responsabilità. Non dobbiamo cedere a questi luoghi comuni, anche se ammetto che a proposito di matrimonio e di figli tu, Chiara, sei controcorrente. La tua posizione non è incosciente – anche se una buona dose di follia la si deve sempre prevedere, in ogni scelta che si rispetti – ma decisamente controcorrente. Oggi rivoluzionario è chi sta dentro una scelta – mani e piedi, testa e cuore – e la persegue anche a dispetto di tutti gli inconvenienti, le battute d’arresto, le forze contrarie. Persino a dispetto del male. Come ne La peste di Camus: “Bisogna soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di fare del bene. Ma per il resto bisognava restare…” Restare per continuare a fare il bene. O come il colibrì di Sandro Veronesi che mette “tutta la sua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei” (Il Colibrì).
    Sovversivo è pensare che non c’è la felicità a due senza che non lo sia già da subito “a tre”, cioè senza l’altro che è il figlio, e che nello stesso tempo è anche il mondo intero, la comunità degli umani, la cittadinanza del noi. Il figlio è un dono e un compito. Non solo un desiderio. Mi è sempre piaciuta la definizione che il Premio Nobel José Saramago ha dato del figlio. So che Saramago è fra i tuoi autori e dunque vado sul sicuro: “Un figlio è un essere che Dio ci ha prestato per fare un corso intensivo di come amare qualcuno più che noi stessi, di come cambiare i nostri peggiori difetti per dargli migliore esempio, per apprendere ad avere coraggio. Sì. È questo! Essere madre o padre è il più grande atto di coraggio che si possa fare, perché significa esporsi ad un altro tipo di dolore, il dolore dell’incertezza di stare agendo correttamente e della paura di perdere qualcuno tanto amato. Perdere? Come? Non è nostro. È stato solo un prestito. Il più grande e meraviglioso prestito, siccome i figli sono nostri solamente quando non possono prendersi cura di sé stessi. Dopo appartengono alla vita, al destino e alle loro proprie famiglie. Dio benedica sempre i nostri figli, perché a noi ci ha benedetto già con loro”. Non ti sembra una buona definizione? Lavora sodo sul tema del figlio, perché un conto è “il desiderio del figlio” (fino al XXI secolo) e un altro è “il figlio del desiderio” (dal XXI a oggi) come osserva il sociologo francese Marcel Gauchet: non è per nulla la stessa cosa (Il desiderio del figlio. Una rivoluzione antropologica). Oggi la regolazione delle nascite, il tasso di natalità in caduta libera, una certa idea di femminismo (il primato del corpo della donna sul “dovere” della vita) hanno incoraggiato l’idea che il figlio sia soprattutto il frutto del desiderio (legittimo, ovvio) di avere un figlio più che una disposizione nei confronti della vita. Non è più un dono naturale al quale dedico liberamente la mia obbedienza, ma la volontà individuale di un progetto votato a realizzare me. I due aspetti andrebbero tenuti insieme.
    Credo che vada sorvegliato l’atteggiamento di chi immagina il figlio come un trofeo da esibire o una sorta di conquista. I figli non sono dei piccoli Buddha, non chiedono la nostra devozione, ma la nostra libera dedizione. Insomma, qui il discorso si fa lungo e complesso.
    Rivoluzionario – nella vita, e non solo nell’amore – non è ripiegarsi sull’ombelico dei propri bisogni, saturare il proprio desiderio di completamento, combaciare con l’anima gemella. L’altro non è un riempitivo ma nemmeno l’esatta metà che mi corrisponde. Qui, permettimi di discostarmi un poco dal tuo entusiasmo – più che motivato – a proposito del Simposio di Platone. Preferisco attingere – non per il mio ruolo di uomo di chiesa (la nostra cultura occidentale ha questa duplice matrice: greca e giudaica, inseparabilmente, quindi anche i miti greci sono molto istruttivi) – al mito biblico di Genesi dove l’uomo e la donna non si completano né si corrispondono, soltanto perché la donna è “costola” dell’uomo e dall’uomo è stata tratta.
    Entrambi – maschio e femmina – sono mancanza e ferita: mancanza che non è vuoto e ferita che è invece apertura dell’uno verso l’altro e quindi sul mondo intero. L’altro c’è non per completarmi o complementarmi ma per spingermi oltre le mie tentazioni di saturazione egoistica dei bisogni, oltre il riempimento infantile dell’io. In una vicenda a due (credo sia proprio così, no?) all’altro noi – paradossalmente – possiamo dare soltanto quello che non abbiamo. Per questo lo possiamo amare. Perché l’amore non è riempire il vuoto dell’altro, ma attraversarlo insieme (qui c’è ancora lo zampino della Marzano). L’altro non è nemmeno il riempimento della mia solitudine.
    Non si sceglie l’altro per la paura della solitudine, irriducibile dimensione dell’interiorità umana (e quindi benedizione). Il sociologo Marc Augé distingue perfettamente: “La solitudine è una scelta (l’altro c’è se vuoi), l’isolamento è una condanna (l’altro non c’è anche se lo vuoi)” (intervista TuttoLibri / La Stampa, 22 ottobre 2011).
    Trovo la distinzione un guadagno formidabile. Comunque, Genesi quando parla di Eva-costola come “carne della mia carne, osso delle mia ossa” allude all’idea non della metà mancante di cui l’uomo va disperatamente alla ricerca ma del “taglio” che Dio opera in Adamo per “aprirlo” alla relazione che è la questione decisiva dell’avventura umana. E anche del rapporto dell’uomo con Dio (ti ho già parlato di Recalcati: questo passaggio ultimo lo devo a lui).
    Tra le righe del tuo testo c’è un altro spunto che non vorrei lasciar cadere anche se, per ora, riesco solo ad abbozzare una sorta di titolo: l’esperienza amorosa richiede una seria “grammatica” dei sentimenti e delle emozioni. Siamo tutti diventati un po’ affettivamente analfabeti, non trovi? Ha ragione Umberto Galimberti, e con lui una buona schiera di filosofi e psicologi, volti noti al grande pubblico: “Viviamo in un’epoca che tratta le nostre emozioni come merce” (Il libro delle emozioni). Il cuore è un muscolo che va educato e tenuto allenato, manutenuto. Per non pasticciare affettivamente. La nostra cultura liberal-individualistica ha confuso la felicità con l’imperativo del soddisfacimento emozionale. Torniamo al tema della prima lettera. E se dovessimo imbastire una vera grammatica dell’amore umano io partirei da quell’affresco spettacolare che è l’inno alla carità e che Paolo indirizza agli amici cristiani di Corinto. Lì trovo la rivoluzione del cristianesimo, cioè l’autentica postura umana di stare al mondo (perché per me cristiano è lo stile con cui si sta umanamente nella vita): “La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Sapessi quante volte si legge questo passo nei (pochi) matrimoni che ancora si fanno in chiesa e tutte le volte mi chiedo se sono consapevole della portata enorme di ciò che quella forma di amore chiede. È un testo che demolisce senza troppi complimenti la nostra pretesa egoica (infantile) di trasformare la vita a due – e dunque l’amore nella scelta dei due – in un carrozzone social-emozionale. L'amore non è mai con-fusione dei due, ma cammino nella differenza: l’alterità non è un inciampo o un ostacolo, ma una benedizione. Forse sono un po’ severo. Ecco, se invecchio pieno di rancori non va bene.
    Mi sono accorto di essermi allungato (as usual!). Il format nero-su-bianco è un tacito affrancamento al fluire del pensiero.
    Ciao!
    Il tuo vecchio parroco

    PS: non sono contro la concezione che la Chiesa offre dell’amore (a parte qualche passaggio); il problema è che la Chiesa quando deve parlare delle cose più belle che ha, quelle cose le racconta male. Capisco perché voi giovani rifiutate la sua predicazione sempre intonata al “no”. Di contro è fin troppo ovvio che nemmeno una società edonista e liberista come la nostra andrà molto lontano se non aiuterà a crescere i suoi figli sapendo che l’amore è anche una “Legge” obbedire alla quale non è penalizzare la propria libertà ma salvaguardarla.
    Magari qui ci si ritorna sopra, che dici? Mi convince molto l’idea della scelta come patto da rendere “pubblico”.
    La vita a due non è mai un atto privato. Personale, sì, ma privato temo proprio di no.


    T e r z a
    p a g i n A


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