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    LETTERA 1

    “Oggi è un giorno che proprio no”

    La felicità a tutti i costi o la gioia che ci costa? 

    lettera 1


    Dal sussidio:
    «Di felicità, d'amore, di morte e altre storie (Dio compreso)»
    Libero carteggio tra una giovane millennial e un vecchio parroco di periferia
    Chiara - don Massimo
    https://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17987

     


    TESTI DI AVVIO E DI APPROFONDIMENTO

    [Vorrei sapere in che consiste la felicità e se si può essere felici tutta la vita?] Per essere sicuro di non sbagliare a rispondere, sono andato a cercare in un grosso vocabolario la parola “felicità” ed ho trovato che significa “essere pienamente contenti, per sempre o per un lungo tempo”. Ma come si fa ad essere “pienamente contenti”, con tutte le cose brutte che ci sono al mondo, e con tutti gli errori che facciamo anche noi, ogni giorno dell’anno? Ho chiuso il vocabolario e l’ho messo in libreria, con molto rispetto perché è un vecchio libro e costa caro, ma ben deciso a non dargli retta. La felicità dev’essere per forza qualche altra cosa, una cosa che non costringa ad essere sempre allegri e soddisfatti (e un po’ stupidi) come una gallina che si è riempita il gozzo. Forse la felicità sta nel fare le cose che possono arricchire la vita di tutti gli uomini; nell’essere in armonia con coloro che vogliono e fanno le cose giuste e necessarie. E allora la felicità non è semplice e facile come una canzonetta: è una lotta. Non la si impara dai libri, ma dalla vita, e non tutti vi riescono: quelli che non si stancano mai di cercare e di lottare e di fare, vi riescono, e credo che possano essere felici per tutta la vita.
    (Gianni Rodari, Il libro dei perché)

    Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
    Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
    Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
    Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
    Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
    Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
    Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
    Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
    Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
    Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
    (vangelo di Matteo 5,3-12)

     

    LA LETTERA DI CHIARA

    Bergamo, venerdì 17 giugno 2022

    Caro don Massimo,
    oggi è un giorno “che proprio no”, non andrà bene lo so già da come mi sono svegliata. Non è successo nulla ancora ma so che proprio no.
    È suonata la sveglia e mi sono svegliata male eppure non ho fatto sogni troppo agitati, nella media dell’ansia direi, non piove o c’è brutto tempo, non ho per ora alcun malanno o malessere fisico, eppure oggi proprio non va.
    Succede. Succede che ci siano giorni in cui non riesco proprio a far sì che sia una buona giornata. Questa sensazione che provo non è proprio infelicità, alcune volte si, ma so che quella è sempre legata ad un avvenimento, è effetto di una qualche causa (che può avere origine differente). Questi giorni invece, in cui mi sveglio “che proprio no”, sono dovuti principalmente a stanchezza credo. Stanchezza mentale sia chiaro, non sono per nulla un’amante degli sforzi fisici o della fatica in generale, semplicemente pensieri, dubbi, ansie sui quali rimugino da tempo e che non mi decido ad affrontare mi portano poi a fare qualsiasi cosa con un peso addosso che rende tutto e fa apparire tutto più grande di quello che è. Quindi sì oggi non sono felice e questa cosa sembra essere un grandissimo problema per il resto del mondo, o almeno ai miei occhi è così, al quale bisogna trovare a tutti i costi una soluzione. Per me non è così, per me va bene che ci siano delle giornate “che proprio no”, le accetto, le accolgo e mi prendo cura di loro dedicando o almeno cercando di dedicargli il tempo che necessitano per essere risolte.
    Ti spiego meglio. Mi sembra che l’obiettivo finale dell’uomo sia il raggiungimento della felicità perché essere felice sembra equivalere all’essere performante. Se io sono felice e soddisfatto allora sarò super efficiente e quindi sarò ciò che tutti vogliono che io sia, il cento per cento del meglio di me. Se invece non sono felice allora sembra che ci sia un problema, un qualcosa da risolvere subito perché altrimenti non potrò dare il meglio di me e questa cosa non sembra essere contemplata al giorno d’oggi. Chi è felice ha successo, chi è infelice un po’ meno. Questo messaggio sembra che arrivi un po’ da tutte le direzioni. Durante una lezione di filosofia della scienza in triennale il mio professore mi disse che per far sì che un libro venda, quest’ultimo dovrebbe contenere nel titolo la parola “Dio”. Oggi credo che questo possa essere sostituito con “come essere felici” e basta entrare in una libreria e osservare lo spazio dedicato a libri che insegnano trucchi per essere felice per vedere quanto sia più rilevante della sezione filosofica.
    Ma anche i social network propongono lo stesso punto di riflessione, anche lì non sembra essere concesso a nessuno di mostrare momenti di debolezza anzi, tutti sui social sembrano costantemente felici. È vero, mi potrai ribattere che i social sono solo uno specchio, che si può essere chiunque e far vedere, e far credere, quello che si vuole (i soliti discorsi che i boomer fanno e che posso comprendere. Ah, già che ho aperto la parentesi, per boomer si intende una persona nata tra il 1946 e il 1964 quindi non vederla come un’offesa ma è solo un collocamento temporale all’interno del quale è difficile comprendere la fusione tra il mondo offline o quello dell’online). Però ormai non è così, il filosofo della comunicazione Floridi parla ormai di una società della comunicazione che vive nel mondo onlife all’interno del quale non si può più distinguere la vita reale da quella virtuale. Intendiamoci non è il Metaverso di cui si parla in questo periodo e anche io, che ho ventisette anni, faccio fatica a comprendere. Per tutti quelli più giovani di me è così, il mondo virtuale è pane quotidiano, e non solo, è vita quotidiana senza alcuna barriera o frontiera dal mondo reale. Questa cosa non è né un male né un bene: semplicemente è.
    Ma torniamo a noi perché forse sto divagando troppo, anche sui social dunque tutti sembrano felici e sembra che siano ritenuti validi solamente quei tipi di contenuti per poter essere pubblicati. Appare quindi che il problema più grande sia proprio essere felici, e che la felicità è l’obiettivo ultimo e finale da perseguire.
    Forse anche io un tempo la pensavo così, poi ho dovuto fare i conti con la mia natura di una persona che non sempre è felice. Ho capito che la felicità non è la grande meta, la felicità è veramente un momento piccolo e unico che vale solo per me. Che non è un grande concetto che si può studiare e che è uguale per tutti, determinata da parametri standard e oggettivi da rendere così più semplice da individuare e quindi dire: okay la felicità è quella cosa lì e devo fare questo e questo per raggiungerla. (Forse la possiamo considerare nel senso che tutti i popoli la riconoscono come sentimento). Niccolò Fabi in una sua canzone scrive «una somma di passi che arrivano a cento, di scelte sbagliate che ho capito col tempo» e forse è qui che io ritrovo la felicità. Non credo che sia l’obiettivo ultimo sul quale persistere ma piuttosto che essa richieda un esercizio e un allenamento costante nel saperla comprendere ma soprattutto nel saperla cogliere nei piccoli gesti, negli attimi. Il mio obiettivo quindi qual è? L’equilibrio credo sia la mia risposta per ora, essere serena ed equilibrata (obiettivo ambiziosissimo lo so). Ma un po’ ho imparato a conoscermi e non riuscirei io stessa a reggere il peso di una vita orientata a perseguire la felicità. Preferisco essere in grado di coglierla in quei momenti trascurabili come scriveva Francesco Piccolo nei suoi libri.
    Ho imparato che all’interno di questo mio equilibrio anche le giornate “che proprio no” vanno bene e che devono farne parte, le devo accettare e prendermene cura più di quelle “che sono sì”.
    Guccini in Vedi Cara, scrive «certe crisi son soltanto segno di qualcosa dentro che sta urlando per uscire» ecco le mie giornate “che proprio no” sono così. Trascurarle non sarebbe un bene, né tanto meno una soluzione efficace, a volte si risolvono da sole, altre volte mi richiedono un momento di riflessione in più, in altri casi scivolano via e va bene così. Fanno parte di me e di conseguenza fanno parte della mia felicità.
    Scusami lo sfogo ma oggi era una giornata “che proprio no”.
    Attendo tue notizie e forse ti scrivo per cercare un conforto o un appoggio per questo gomitolo di pensieri nella speranza che con quattro occhi e quattro mani si possa sbrogliare più facilmente. Spero che tu sia nel tuo modo felice.
    Con affetto, Chiara


    LA RISPOSTA DI DON MASSIMO

    Bergamo, domenica 19 giugno 2022

    Carissima Chiara,
    vivo questo pomeriggio di quiete e silenzio come un dono. Non è frequente il silenzio e non mi inquieta la solitudine, che a volte è perfino una benedizione. Penso a tanti amici di comunità, alle famiglie che oggi avranno provato a cercare un poco di refrigerio in questo giugno sgradevolmente afoso. Ricevo con gratitudine la tua lettera che mi “costringe” a pensare. E a sognare.
    Ci siamo detti – senza troppe promesse – che avremmo provato a buttar lì riflessioni ad alta voce, senza la pretesa che i nostri pensieri (o almeno i miei) fossero altissimi (non è questo lo scopo, nemmeno i pensieri devono obbedire al comandamento sociale della performance – eh, sì, c’è anche una performatività intellettuale a volte saccente che rivela una superiorità di specie che non le fa onore) e senza che nessuno dei due si sentisse in dovere di rispondere avendo la verità in tasca. Semplicemente per il gusto del pensiero e l’ingenua venerazione per la parola scritta. Nero su bianco. Come non si usa fare quasi più. La lettera è un format comunicativo – diciamolo pure – un po’ retrò, d’antan. Affatto moderno. Oggi non ci si scrive, al massimo si inviano messaggi e messaggini, o magari più nemmeno quelli, bastano gli emoticons. La tua generazione, o meglio quella ancora dopo, frequenta la piazza di Instagram e lì la parola non c’è, lì si raccontano “storie” solo con le immagini rigorosamente tratte dallo scrigno della propria autobiografia. Lì, non servono parole. E questa tendenza al primato dell’icona digitale come luogo di consacrazione del proprio io, e quindi di un possibile riconoscimento sociale, c’entra molto con la riflessione sulla felicità che hai appena avviato. Nelle immagini che “postiamo” dobbiamo essere felici. L’approvazione degli altri alla nostra “storia” è per noi fonte di felicità. Mi ha sempre incuriosito l’ossessione (devozione?) tutta contemporanea all’immagine, molto lontana dal paziente esercizio dell’ascolto che sarebbe fantastico poter nuovamente re-iniziare. Ma noi galleggiamo ormai dentro la bolla socio-digitale della videocrazia, siamo nell’era dell’homo videns (come già insegnava il politologo Giovanni Sartori).
    Orecchio versus occhio. Ascoltare versus vedere. Gerusalemme (sapienza biblica) versus Atene (filosofia greca). Poi, si sa, la realtà è molto più complessa e non sopporta nette contrapposizioni.
    Mi trovi in linea con le suggestioni che proponi. Oggi siamo un po’ tutti obbligati ad essere “felici e contenti”. Come nelle migliori fiabe.
    I coniatori di definizioni parlano del nostro tempo come tempo del felicismo (i creativi linguistici inglesi l’hanno battezzato con happyism).
    Tu che vivi giornate “che proprio no” rischi perfino di scivolare fuori dal bordo di questa cultura che tratteggi con vocaboli chirurgicamente precisi come “performante”. Uno dei filosofi che ho scoperto da qualche tempo e al quale cerco di rubare idee – Miguel Benasayag – ci avverte che oggi il mondo ci vuole tutti belli “funzionanti”.
    Oggi conta molto di più funzionare che esistere (è proprio il titolo del suo libro), essere performanti, efficientissimi. Sbagliare un colpo è essere fuori dalla storia, ai bordi del mondo e della vita, esclusi dalla mission aziendale, come in quel format tragicamente pietoso (e francamente irritante) The Apprentice scimmiottato in Italia da qualche fanatico imprenditore. Mi accosto al prodotto mediatico solo nella versione della sagace parodia che Maurizio Crozza fa del personaggio da rotocalco. Chi ha orecchie per intendere… Dunque, il tuo ragionamento fila: l’uomo felice è l’uomo che funziona. La felicità – una certa idea di felicità – è essere sempre all’altezza delle aspettative (degli altri) più che dei desideri (propri). E non deluderle mai, essere in (o on, come suggerisci tu). Non sono ammesse sbavature, cadute di stile, cedimenti emozionali. Soprattutto, fallimenti.
    Bisogna sempre essere sul pezzo, adatti (fit) per questo mondo, per le attese degli altri. Hai ragione, dobbiamo essere performanti. La performance è arte della prestazione. La chiave del successo (altra parola da abolire). Ma la prestazione la si può chiedere a uno strumento, a un device elettronico di ultima generazione, non a un essere umano. Che dire, allora, di quell’uomo o di quella donna nati con una menomazione o un handicap (che noi, elegantemente, secondo i codici del politically correct, abbiamo prontamente riformulato come “diversa abilità”) e con meno opportunità? È semplicemente uno “sfortunato”, uscito male nella vita? Come farà ad essere felice se non potrà mai essere performante o funzionare secondo i cliché dettati dal mondo, che è sempre e comunque una giungla dove vince il più forte? Mi chiedo se è questo quello che pensiamo realmente della vita umana.
    Sappiamo benissimo che l’ossessione e l’ostentazione della felicità a tutti i costi è una trappola costruita ad arte dall’industria economica dei consumi che definisce, nemmeno troppo surrettiziamente, la felicità come possesso e godimento di cose. Quindi, la felicità riguarda soltanto il presente. Non c'è tempo per speranze che attivano la promessa di un futuro. Non ce l’ho con il possedere (né con il piacere).
    Ce l’ho con l’idea che per essere bisogna avere. E che solo nell’avere c’è l’autentica forma di “salvezza”. Abbiamo associato la nostra concezione di benessere a un’idea così: gli oggetti ci salveranno perché crediamo assicurino godimento e pienezza, sono diventati idoli salvifici (ma “salvandoci” non finiranno forse per possederci?).
    Questa resistenza all’ubriacatura del possesso l’aveva già avanzata un uomo vissuto duemila anni fa. I miei anni di adolescenza inquieta erano anche i tempi della Jesus Revolution. Anni settanta. Spero che avremo modo di tornare sulle abrasività non convenzionali del figlio di Nazareth. In quegli anni si metteva in discussione tutto, poi tutti da incendiari siamo diventati pompieri. Che finale glorioso, vero? (Sigh!). Ha vinto, ha stravinto il commercio e tutta la pletora di sacerdoti consacrati all’unico comandamento che dà forma alle coscienze dell’uomo contemporaneo: il narcisismo. Tu sei troppo giovane e non potrai certo ricordare che ai miei tempi andava per la maggiore un saggio divulgativo dal titolo Avere o essere? Lo psicanalista Erich Fromm spopolò ai tempi. Il suo libro – come del resto anche L’arte di amare – era annoverato tra le nuove “bibbie” della controcultura nascente.
    Siamo nel pieno degli anni settanta, post-sessantotto, occorreva smarcarsi dalla precettistica tradizionale della società borghese che voleva crescere i suoi figli nel nome del successo e del rigore morale. Vedi che torna la tua critica alla prestazione? Tu citavi Guccini – e mi stupisce positivamente il riferimento al grande vecchio padre del cantautorato italiano – e allora io ti vengo dietro con Claudio Lolli: la sua Borghesia era una critica al vetriolo del sistema. Da ascoltare (senza obblighi).
    Potrei aggiungere alle tue argomentazioni che il felicismo (un po’ beota) fa il paio con il forever young diventato da tempo l’altro must sociale irrinunciabile. Il giovanilismo dei vecchiovani o degli eterni adultescenti – una volta li chiamavamo Peter Pan in omaggio alla grande letteratura che era grande perché sapeva esprimere gli universali dell’umano – dimostra che la felicità “non è un paese per vecchi”. Anzi. È rigorosamente per soli giovani. La giovinezza è il modello assoluto a cui guardano tutte le generazioni. Se gli adulti vogliono essere sempre giovani, a chi guarderanno i giovani per capire qualcosa della vita? Le tue osservazioni intorno alla felicità mi hanno molto incuriosito.
    Sono d’accordo con te, basta con la tirannia delle performance sempre ben riuscite. Felicità è farsi bastare il poco, assaporare il giusto (c’è molta felicità nelle piccole cose come insegna Arundhati Roy nel suo Il Dio delle piccole cose). Esiste una felicità giusta, appropriata, che ogni uomo ha il permesso di chiedere per sentirsi all’altezza della vita, onorandola con tutto se stesso. Penso che l’uomo sia sempre alla ricerca della felicità. Legittimamente. Basta che non diventi un obbligo, e basta che ciascuno imbocchi la propria via, senza sentirsi da meno se nella vita incontra fragilità, debolezze, battute d’arresto, quel “che proprio no”: in fondo anche questo fa parte della nostra felicità. Felicità non è perfezione. Mi pare fin troppo retorico rispolverare il detto che nessuno è mai felice da solo, ma soprattutto la mia felicità non deve servirsi di quella dell’altro.
    Ogni tanto capita nei cammini comunitari di incrociare e incontrare persone davvero belle. Una di queste è Isabella Guanzini. Lei è una teologa e filosofa e nell’arco di poco ha pubblicato due saggi controcorrente: sulla tenerezza, il primo, e sulla gioia, il secondo. È da lei che ho imparato a parlare non tanto di felicità, proprio grazie a tutte le ambiguità che tu hai segnalato, quanto di gioia. Guanzini introduce il saggio Filosofia della gioia con una citazione tratta da Lezioni americane di Italo Calvino. Ho voglia di riportarla perché illumina molto il senso della gioia. Anzi oserei dire che se la felicità è rivolta tendenzialmente al benessere dell’io, la gioia ha a cuore la promozione del noi. La distinzione è grossolana ma non archiviarla subito. Ascoltiamo Calvino: “In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa”. Vedi, alla fine il celebrato funzionalismo della cultura postmoderna – la Medusa contemporanea – dove va a finire? Non fa altro che pietrificare le differenze del mondo e dell’umano. La gioia è la forza inesauribile (inspiegabile?) capace di depietrificare il mondo, è l’energia che ci fa uscire dalla paralisi, è una sorta di “affezione” capace di ricostruire le ferite e ricompattare la comunità degli umani. È forza vitale, chiede tutto il meglio di noi per abitare la vita fino in fondo, con tutto l’amore che possiamo, con la follia – se necessario – di chi sogna in grande, senza ansie, ma per il semplice fatto che è vita. La gioia ci dice che siamo fatti per la vita perché noi siamo vita (zoé e non solo bios, direbbero i greci). Immagina, se puoi, la gioia come passione di vita, come l’unico atto di fede che ci servirebbe per far muovere ancora questo piccolo grande mondo e credere nella tenuta dell’esperimento umano. Questo sì ci renderebbe felici, non credi? Senza troppo volerlo in questi ultimi anni capitano tra le mani autori o meglio autrici che fanno di alcune categorie come, appunto, la tenerezza, la gioia, la mitezza, la dolcezza, l’oggetto delle proprie indagini filosofiche e poetiche. Filosofia e poesia si sposano alla grande.
    E qui il pensiero femminile fa la differenza. Dunque, tenerezza, gioia, mitezza etc. sembrano tutti sentimenti dolciastri per potenziali perdenti, per arrendevoli buonisti, mentre invece chi li pratica mostra di avere coraggio da vendere. Sono autentiche virtù. Mentre sto rispondendo alla tua lettera leggo il saggio di Anne Dufourmantelle La potenza della dolcezza. Psicoanalista e filosofa francese, a 53 anni perde la vita per salvare due bambini che stavano annegando in mare. Te ne parlo perché so che la apprezzeresti. Mi basta lasciarti questo assaggio introduttivo: “La dolcezza provoca violenza perché non offre alcun appiglio possibile al potere”. Noi avremmo bisogno di prospettive così per guardare il mondo e fronteggiare la vita con speranza. Non con i toni bellici di chi è sempre in procinto di inaugurare crociate ma con il soffio leggero della mitezza. Che è un modo di vivere la vita senza arroganza, senza uso di forza e potere ma soltanto con l’esserci gentile del corpo. Prima poi devo parlarti della giovane Etty Hillesum. Se non lo faccio, chiedimelo nelle prossime lettere. Etty è una potenza di donna, una giovane ebrea olandese che ha resistito al male, all’orrore, alla violenza, all’odio razziale con il soffio mite del suo essere amante della vita nonostante tutto. Con la sua fede di donna. Quella fede che solo le donne sanno mettere in campo. Lei è stata felice, non perché aveva ma perché ha dato.
    Un assaggio? “Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni –, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!” (Diario 18 maggio 1942).
    “Dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque s’incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza e l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi, e che ultimamente stanno crescendo in modo così meraviglioso in me. […] E perfino dalla sofferenza si può attingere forza […] O si pensa soltanto a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali, e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma s’indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso – e non a macerarmi nel mio dolore e nella mia rabbia” (Diario 7 luglio 1942).
    Mi chiedo se a forza di sentirci obbligati alla felicità – come senso della nostra presenza nel mondo – non ci sia sfuggito di mano che il compito dell’uomo è vivere prima ancora di essere felice. La felicità dipende dalla vita. Non viceversa. Abbiamo modellato un’idea di felicità fuorviante, tutta dedita all’imperativo del godimento a tutti i costi, all’edonismo senza misure. Su questo mi pare ci troviamo d’accordo, no? Ma i tuoi amici, che dicono? Siamo entrati in una società che potremmo definire narcisista: il neologismo è della lacaniana Colette Soler, nasce dalla crasi tra narcisismo e cinismo. Il senso è chiaro: la nuova etica convenzionale comanda e raccomanda il puro godimento senza limiti. Non c’è argine al pensiero del “perché no?”: nessuno mi può vietare il diritto a godere di tutto quello che la potenzialità finanziaria mette a disposizione (sostenuta dalla certezza “etica” che puoi spendere perché te lo sei guadagnato) o che comunque il primato dell’individuo stabilisce come proprio diritto.
    Non c’è più senso nel cercare un senso, quindi quello che rimane è spassarsela allegramente nell’eterno paese dei balocchi. Una visione così fa saltare tutti i parametri, le evidenze etiche, non ci sono più freni inibitori, è il trionfo della morale dell’ego-consumista. Le nuove generazioni stanno bevendo molto a questa fontana, ma i responsabili sono gli adulti che non sanno cosa offrire loro se non il modello concessionario del portafoglio gonfio. Siamo una società da happy hour o da movida notturna. Trovo tutto abbastanza squallido, ma non voglio fare il parruccone lamentoso e bacchettone. Sei non sei d’accordo, Chiara, alza la mano. Non vorrei che la mia lettura fosse troppo grossolana e ingenerosa.
    La mia letteratura interpretativa di riferimento, come sai, è quella biblica, anche se mi rendo conto che oggi le giovani generazioni ne rimangono distanti. Non riescono più a intravedere in quei testi le parole che potrebbero aiutarle a declinare l’umano. Devo dire che noi preti il vangelo non ve l’abbiamo raccontato bene. Anzi, i nostri discorsi hanno rischiato di snaturarlo lasciandovi tra le mani un’idea totalmente fuorviante. Ammetto che questa distanza generata dall’incomprensione mi fa riflettere perché ho sempre creduto che il vangelo custodisse il senso e la misura reale dell’essere uomini.
    Non siamo riusciti a convincervi della sua potenza rivoluzionaria e sovversiva. Che avrebbe ancora molto da dire. Non mi va di puntare il dito contro di voi. Non ci penso proprio. La chiesa è sconfitta proprio sul piano della comunicazione, ne esce a pezzi, bollata come qualcosa di flaccido e di poco credibile. È un peccato. Oggi fior fiore di pensatori laici stanno riscoprendo la potenza simbolica di quei testi originari e fondativi: uno su tutti, Massimo Recalcati (a proposito, mi sto gustando La legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi) e la chiesa non riesce a intercettare più nessuno. Questa cosa mi intristisce. Comunque, torniamo alla felicità. L’uomo di Nazareth non aveva certo una teoria della felicità. Ci ha lasciato un testo paradossale – il discorso della montagna (Matteo 5-7) – dove la felicità non coincide con l’accumulo, con il potere, con la gloria.
    Al contrario la felicità – che egli definisce come beatitudine – è sobrietà di possesso, essenzialità, uno stile di vita che ha nella mitezza il vertice dell’umano. Toh, ritorna la virtù della mitezza. Nei vangeli felice è l’uomo mite, che eredita la terra e non il cielo (concretezza corposa e non nuvolaglia eterea), e ci sarà pure una ragione: “Il mite è il contrario del prepotente: non urla, non impugna coltelli, non ricorre al sostegno di bravi o mafiosi, non fa propaganda alla televisione, non ostenta la mitezza quasi indossasse una maschera dietro cui sta, in appostamento, il ghigno della sopraffazione. Ma non è neppure remissivo, e tantomeno rassegnato o apatico o inerte.
    Umiltà e mansuetudine sono la terra che consente al fiore della mitezza di germogliare, non possiamo farne a meno come non si può fare a meno della creta di cui è fatto l’uomo” (Barbara Spinelli, Il soffio del mite). Il mite non ha bisogno della forza per sgomitare e accaparrarsi i primi posti; la forza del mite è nonviolenza, capacità di respingere il male assorbendolo in sé; egli guarda la vita dal lato della giustizia, conosce il dono del perdono e non viene meno alla testimonianza della verità. Sai, Chiara, dovremmo riscoprire questa figura del mite perché più invecchio e più credo davvero che lì stia il senso profondo della felicità umana. Perfino un grande filosofo come Norberto Bobbio scrisse un saggio, Elogio della mitezza, magnificando questa figura che la cultura derubrica come fallimentare e rinunciataria mentre lui l’apparenta all’umile, al mansueto. Come vedi è un’idea di vita e dell’umano sub contrario, capovolta, disorientante, e persino apparentemente perdente per una società che ha fatto dell’arrivismo, della competizione la sua regola aurea. A dare retta alle beatitudini si finisce per passare per degli ingenui o sognatori.
    Il mondo ha altre logiche e se la vita è una giungla bisogna pure armarsi e difendersi. Costi quel che costi.
    Concedimi una battuta finale. Siamo partiti con una certa idea di felicità per suggerire la strategia della gioia. Eppure, prima di salutarti non ti nego che la parola che più mi convince è letizia. Sai perché? Perché letizia, dal latino laetus, ha il sapore della contentezza, della pienezza, dell’abbondanza. Ho scoperto che “letame” ha a che fare con letizia. Il letame è ciò che rende lieta la terra e la fa essere generosa per il bene degli altri, lo è e lo fa con grazia e gratuità, senza secondi fini o retropensieri. E senza troppe ansie. Uomini gioiosi faranno bella la terra, renderanno giustizia all’umano. È così che saranno felici, no? “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” (Via del campo).
    Ciao, alla prossima.
    Il tuo vecchio parroco

    PS: sono curioso di vedere dove ci porterà questo dialogo tra un boomer e una giovane millennial? Dove ti incasello? Nella cosiddetta Generazione Y? Vabbè, sono solo comode sigle.


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