Temi di pastorale universitaria /12
Angelo Tumminelli *
(NPG 2019-05-78)
La decisione di intraprendere un percorso universitario non può essere presa alla leggera né tantomeno deve essere condizionata da fattori esterni, come la famiglia, gli amici o il contesto sociale. Chi decide di iscriversi all’Università si impegna, infatti, in un serio percorso vocazionale fatto di discernimento e fatica: esso richiede una grande consapevolezza spirituale insieme alla maturità di una profonda conoscenza di se stessi; lo studente universitario si incammina in un sentiero esistenziale che porterà alla piena realizzazione della propria persona attraverso una specifica professione. Prima ancora però, lo studente è chiamato ad anni intensi di formazione che costituiscono un vero o proprio vaglio di discernimento vocazionale. Gli anni dello studio universitario, infatti, sono il tempo delle conferme e delle smentite, l’occasione per mettere alla prova la verità della propria scelta. È quindi lo studio a costituire il momento della verifica attraverso cui ci si conosce fino in fondo per confermare o riorientare il proprio cammino esistenziale. In questo senso, va compresa la decisività degli anni di studio come via di autocomprensione nell’ascolto dei propri desideri e delle proprie aspirazioni. Va inoltre chiarito che il tempo dello studio non è secondario rispetto alla professione futura: chi affronta svogliatamente lo studio si sottrae al compito formativo rischiando di compromettere il proprio futuro; o anche, chi non è disposto ad attraversare i sentieri impervi dello studio deve interrogare i propri desideri orientandoli nuovamente verso un percorso più idoneo alla propria persona. Si deve affermare, allora, che lo studio è una vera e propria vocazione che richiede grande sacrificio ed enormi fatiche intellettuali: solo chi le attraversa fino in fondo può raggiungere l’intima consapevolezza della chiamata ad una particolare professione da mettere a servizio della società.
Inteso come vocazione, lo studio è qualcosa che realizza già nel presente la persona umana portandola al suo compimento esistenziale. Esso è un cammino ma è, allo stesso tempo, una destinazione, un compimento. Se consideriamo lo studio come una chiamata di Dio, dobbiamo essere consapevoli che, come ogni vocazione, esso implica delle dinamiche spirituali molto delicate che bisogna riconoscere per poterle vivere al meglio. Come ogni chiamata, lo studio può allora diventare un’occasione di piena realizzazione personale ma, se vissuto in modo inappropriato, può condurre la persona allo spreco del tempo e al fallimento. Bisogna, quindi, capire come mettere a frutto il tempo dello studio, evitando distrazioni e confusioni che rischiano di distogliere la persona dalla propria destinazione vocazionale conducendola verso sentieri oscuri. Attraverso lo studio, lo studente è anzitutto chiamato a riscoprire un’autentica relazione con sé stesso, con il mondo e con Dio: il suo indagare porzioni del reale lo inducono ad esplorare l’essere mai completamente oggettivabile per poi ritornare in sé stessi con un pieno grado di consapevolezza. Studiando, la persona si misura anzitutto con le proprie potenzialità ma anche con i propri limiti, educa le sue capacità e scopre il funzionamento della propria intelligenza attraverso un metodo di studio che cambia a seconda delle caratteristiche della persona. Lo studio è, quindi, una vera e propria scuola di umanità che, mediante la conoscenza del mondo e di sé stessi, aiuta a “cercare e trovare Dio in tutte le cose”, come recita una nota espressione di sant’Ignazio di Loyola. Lo studio apre allo svelamento della trascendenza nell’immanenza del mondo, meravigliando la persona che si scopre continuamente amata e interrogata dalla realtà. In questo senso, lo studio è un atteggiamento esistenziale che consiste non nel comprendere il mondo ma nel lasciarsi comprendere e attraversare da esso. L’atteggiamento dello studente è quello di chi non vuole conquistare gli oggetti di una determinata disciplina, ma quello di chi vuole mettersi in ascolto premuroso dell’essere per cogliere da esso un richiamo utile per la propria esistenza.
Come suggerisce Martin Buber, noto filosofo ebreo contemporaneo, ciò che si incontra nello studio deve essere trattato come un “Tu” ovvero come un volto personale con cui saper dialogare continuamente. Solo se ci si libera da un atteggiamento di conquista assillante del reale e ci si abbandona al richiamo affascinante del mondo, lo si potrà ascoltare come si ascolta la confidenza di un amico. Lo studio è allora efficace, anche da un punto di vista accademico, quando mette la persona nella condizione di saper accogliere la rivelazione del mondo in tutta la sua grandezza ma anche in tutto il suo mistero.
Si deve allora riscoprire il senso autentico e originario dello studio come un lasciarsi amare dalla realtà che ci spinge continuamente ad essere noi stessi conducendoci alla nostra pienezza esistenziale. Lo studio è una chiamata perché è esso stesso una “professione”: un confessarsi bisognosi di uno sguardo d’amore che proviene dall’altro per riscoprirsi intimamente amati e capaci di rispondere all’amore. Lo studente, colui che decide seriamente di intraprendere un cammino universitario, non è colui che sa di più, che accumula un numero maggiore di informazioni e di nozioni; egli è colui che sa accogliere l’amore della realtà e sa rispondere a questo amore con tutta la propria esistenza. Questa risposta è la vocazione, una chiamata che trascende l’individuo ma la cui risposta può implicare la piena realizzazione della persona umana che solo nell’amore trova il suo compimento.
In questo senso, va recuperato il significato originario dello studio come atto di amore, da distinguere dalla “ricerca” come atteggiamento di indefessa interrogazione del reale nella pretesa di una risposta. Chi studia è, invece, consapevole che c’è un alone di mistero che pervade sempre e comunque la realtà, che c’è sempre qualcosa di inoggettivabile e non conquistabile nelle discipline indagate, perché la realtà che si offre alla conoscenza umana racchiude in sé stessa un intimo rimando alla trascendenza infinita. Come scrive Giorgio Agamben, «a differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio».
Lo studio è quindi un abito esistenziale che accompagna la vita di chi si lascia interrogare dal mondo, consapevole che esso racchiude un mistero profondo mai totalmente conquistabile. Chi sa accogliere questo mistero non solo impara a relazionarsi con il mondo ma diventa in grado di scorgere in esso una volontà provvidenziale di amore in cui tutto è compreso. Questo è il senso della vocazione allo studio: lasciarsi amare dal mondo per scoprire ciò a cui il mondo stesso ci chiama; e così, rispondendo a questa chiamata, ciascuno può non solo vivere fino in fondo la professione ma scorgere in essa l’occasione con cui Dio offre a ciascuno la possibilità di realizzare in questo mondo la pienezza della propria umanità.
* PhD in Filosofia Morale e Docente di Storia e Filosofia nei Licei.