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    Temi di pastorale universitaria /10

    Cosa concretamente i giovani possono imparare in esperienze di servizio, di volontariato o piccole esperienze di lavoro

    Francesco Soddu *

    (NPG 2019-03-60)



    Parto da una citazione di papa Francesco. Il giorno 16 ottobre u.s. in occasione della giornata mondiale dell’alimentazione, parlando alla FAO ha detto: “Ridurre è facile, condividere invece impone una conversione, e questo è impegnativo”.
    Una conversione che vuol dire in primo luogo entrare in relazione e in secondo luogo porsi in una prospettiva di condivisione, fondata sul concetto di dono.
    Un’icona particolarmente significativa della portata del legame che si stabilisce attraverso un dono, è offerta dalla narrazione del giudizio escatologico, attestata nel vangelo di Matteo (cfr. Mt 25). Chi ha donato da bere all’assetato e chi ha vestito il nudo, chi ha ospitato l’esule e ha visitato il carcerato, sa bene ciò che ha fatto e la relazione che ha stretto con la persona bisognosa, eppure non si rende conto della portata misteriosa (divina) del legame che ha stabilito: ha stretto un legame con Gesù. È consapevole di quanto ha voluto fare, eppure non si rende conto di ciò che ha fatto, perché il senso definitivo, la custodia del dono e del legame che ne deriva è custodito e rivelato soltanto da Gesù.

    Le acquisizioni

    Una prima sostanziale acquisizione di questa riflessione è quello di una relazione, cui il dono deve essere funzionale. Ciò vale per i destinatari dei vari servizi (caritativi, assistenziali, sanitari…), che sono più di bocche da sfamare, corpi da curare, ecc.; ma vale anche per i destinatari dell’azione pastorale e più in generale per la qualità della vita che si è capaci di diffondere nella comunità. Più e prima di quel che si dona o del servizio che si rende conta il valore della persona e quindi la riscoperta profonda della vita come dono, alla base di un atteggiamento e un’intenzionalità di tipo vocazionale non solo per la vita religiosa ma anche per le professioni “mondane” più a rischio di subire le logiche del profitto, la competizione come regola.
    Dallo stato della riflessione emerge il superamento dell’antinomia dono/reciprocità. Non perché non permangano situazioni sia interpersonali che strutturali in cui è inevitabile che ci sia chi dona e chi riceve, chi cura e chi è oggetto di cura; ma perché - nella relazione - i distanti si avvicinano e soprattutto ciò che unisce e assimila è infinitamente di più di ciò che distanzia o differenzia. Il volto dell’altro mi fa da specchio, le sue ferite sono le mie e la mia bellezza è rimandata dal suo sguardo: nell’incontro occasionato dal servizio all’altro nasce vera, reciproca ri-conoscenza.
    L'esperienza che in particolare i giovani fanno in attività di servizio, di volontariato o in tirocini con enti e organismi di solidarietà, se vissuta intensamente, pone domande irrinunciabili innanzitutto sulla gerarchia dei valori sui quali si costruisce la nostra vita. Svela ad esempio il grande inganno di una cultura, largamente maggioritaria, che ci spinge ad essere più importanti piuttosto che migliori. L'esperienza non può che partire, invece, dal considerare se stessi, dal chiedersi - di fronte ad una situazione personale o collettiva di disagio - se si è in grado di fare qualcosa. Se si hanno le parole e i comportamenti giusti per stare vicino a qualcuno, per convincere, per consolare, per condividere.
    La condivisione e il disagio degli altri ci aiutano a riordinarci interiormente, ci ridimensionano, ci fanno più umani. Quando sentiamo l'affermazione di giovani che dicono che l'esperienza di servizio "gli ha dato tanto", si riferiscono sostanzialmente a questa realtà di cambiamento personale.
    Ma quali sono gli elementi concreti che rendono tale esperienza realmente educativa? Il primo (e propedeutico agli altri) va individuato nella libertà di scelta, nella volontarietà che il giovane pratica nell’aderire a un progetto. Senza libertà, interiore ed esteriore, sappiamo bene come non esistono le condizioni minime per nessun percorso educativo serio, perché la vera educazione esiste solo tra soggetti liberi. Inoltre c’è una connotazione di passaggio, di ingresso nella vita adulta. Il giovane si separa dal suo mondo, mette alla prova le sue competenze, ciò che ha appreso, verificando le sue abilità.
    Un secondo aspetto è l’entrare in relazione con altri, con persone diverse.
    Relazione che implica, soprattutto per coloro che la attuano, una messa in gioco di sé e delle proprie sicurezze, per crescere alla scuola della carità maturando nuovi stili di vita. È questo un fattore indispensabile e molto apprezzato dai giovani, spesso frastornati o deviati da pseudo valori e scelte egoistiche dagli orizzonti corti. Il servizio sperimentato dal giovane diventa così opportunità di crescita personale, esercizio della sua capacità di tessere legami, di riannodare fili, di ricreare calore attorno alle persone. La prospettiva è quella del celebre “I care” di don Lorenzo Milani, che nella “Lettera ai giudici” (18 ottobre 1965), in “L’obbedienza non è più una virtù” scriveva anche come occorra «avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, […] che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto».
    Un terzo elemento educativo è quello dell’apprendistato, in cui cioè il giovane “impara a lavorare” e ha la possibilità di orientarsi, di sperimentarsi anche in un ruolo professionale, acquisire competenze non solo specifiche in merito a particolari compiti ma anche rispetto alla vita lavorativa e relazionale nelle organizzazioni e nelle comunità.

    Alcuni rischi

    È chiaro che questo cammino va accompagnato, altrimenti vi sono delle patologie in agguato: l'eccessivo coinvolgimento che mitizza le situazioni di disagio, il distacco funzional-assistenzialista, di chi non si espone ai rischi della relazione umana e si limita a stare a debita distanza, il giudizio o il pregiudizio verso le persone in difficoltà che aiuta a non coinvolgersi emotivamente.
    L’interrogativo in altre parole va posto non tanto su come dare risposte, quanto piuttosto su come stare di fronte, su come stare accanto, facendoci appunto prossimi, compagni di viaggio, condividendo la vita… le gioie e le speranze.
    In questa cornice occorre avere come punto di riferimento costante il fatto che, come dice Papa Francesco non siamo di fronte ad un’epoca di cambiamenti, ma a un cambiamento di epoca. Sarà dunque sempre necessario analizzare e vivere il contesto in cui si è chiamati a vivere e a operare, anche se purtroppo, da una parte si fa fatica a governare quanto è in questa trasformazione epocale e dall’altra si verificano continui cortocircuiti. Di fronte a questi problemi (migrazioni, giovani, reddito di inclusione, ecc), il più delle volte le scelte che si fanno, le azioni che si pongono sono determinate dalla paura e quindi si è indotti a operare in un modo piuttosto che in un altro, senza avere la serena capacità introspettiva di valutare l’opportunità di scelta dell’ et et piuttosto che dell’aut aut.
    In sostanza noi tutti, e i giovani in particolare, quasi non siamo più protagonisti attivi della nostra vita, le opzioni che si fanno sono piuttosto indotte da contingenze, da necessità piuttosto che da autentiche scelte di vita.
    Sarà dunque sempre più necessario un impegno affinché le dimensioni prettamente umane, ossia quella materiale, quella spirituale e quella sociale, siano sempre in integrazione e compenetrazione reciproca.
    Occorre allora dare forma ad una realtà che ancora non esiste, in modo particolare ad una inclusione di senso che disegni un nuovo modello di comunità. Che dia cioè corpo a uno sviluppo solidale di comunità di modo che, mediante la coesione sociale le diverse problematiche, per non parlare delle emergenze, abbiano minore ripercussione sugli effetti di criticità che di continuo si registrano nella comunità in senso generale. In questa prospettiva in varie esperienze di impegno civile e volontario, passanti per ambiti di vita quotidiana e familiare ed estendendosi a campi di impegno sociale, si stanno sperimentando alternative di consumo e di valorizzazione delle catene di produzione e di distribuzione dei prodotti. Tali esperienze vanno anch'esse trasformando le ordinarie prassi del servizio e della cooperazione locale e planetaria, secondo un’etica della responsabilità. Su esse, grazie anche a diverse realtà del volontariato, si stanno costruendo nuovi modelli di consumo responsabile e nuovi criteri dettati dalla responsabilità sociale diretta e indiretta.
    Non si tratta quindi di fare di più, ma di essere più consapevoli, in particolare circa i cambiamenti che stanno modificando i nostri territori e che pongono in maniera ancora più pressante la domanda su come offrire risposte adeguate a questo tempo e ai bisogni che incontriamo.
    Per far questo occorre una pastorale non astratta, ma che coniugando Vangelo e vita, si pone in relazione ed è capace di generare relazioni. Si confronta quotidianamente con le persone, con i problemi, con lo sviluppo di un territorio. Esemplificando potrà dirsi valido un intervento se emancipa i poveri, realizza giustizia, suscita libertà, diffonde umanità, promuove accoglienza, stimola partecipazione.
    Proprio per questo bisogna presidiare le nuove forme di inclusione sociale dei poveri, di sviluppo di comunità, di welfare generativo, nuovi percorsi di coesione sociale, di volontariato e di servizio, di accoglienza diffusa, di coinvolgimento dei giovani, di partecipazione dal basso, di discernimento comunitario, di innovazione sociale, di educazione ad una ecologia integrale, alla pace, all’interculturalità, alla responsabilità verso l’ambiente, alla mondialità.
    Va assunta fortemente un’idea di sussidiarietà come responsabilità rispetto alle sfide del tempo che ci è dato di vivere, perché se “la realtà è superiore all’idea”, come afferma papa Francesco nella Evangelii Gaudium, non siamo noi a scegliere su che cosa operare, ma è il “grido” del nostro popolo a indicarci le priorità del nostro impegno.
    Non solo occorre innovare lo stile della prossimità e delle relazioni, ma bisogna mettere a disposizione il capitale fiduciario, sociale e relazionale che le Chiese locali rappresentano, come strumento per costruire coesione e come premessa per forme di sviluppo locale in parte ignorate e in parte da riscoprire, al fine di contribuire alla ricostruzione di comunità territoriali consapevoli, solidali e capaci di speranza. A partire proprio dai giovani.

    * direttore Caritas Italiana


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