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    Quattro semplici verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare


    EDITORIALE

    Rossano Sala

    (NPG 2022-07-2)

     



    Il secondo “snodo cruciale”

    Durante la discussione sinodale della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (3-28 ottobre 2018) sono stati individuati “tre snodi cruciali” che indicano l’originalità del nostro tempo. Quasi tre cerchi concentrici che caratterizzano il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.
    Il primo snodo, quello più ampio e che tocca tutti e tutto è la digitalizzazione del mondo: tutti noi siamo stati inondati da questa rivoluzione che sta modificando ciò che siamo: il nostro cervello e le nostre posture relazionali, il nostro modo di apprendere e di lavorare, e così di seguito[1].
    Il secondo snodo, che qui ci interessa più da vicino, è quello dei migranti. Tali persone vengono identificate come “paradigma del nostro tempo”, ovvero come figure particolarmente eloquenti per comprendere il mondo in cui viviamo con tutte le sue contraddizioni[2].
    Il terzo snodo è rappresentato dalla triste realtà degli abusi. Un velo si è scoperto sulla vita della Chiesa e le tante ferite inferte a molti giovani sono venute alla luce. Siamo chiamati a fare verità e a chiedere umilmente perdono, ad andare alla radice del problema e ad affrontarlo con coraggio e responsabilità[3].

    Di che cosa si tratta?

    Quando parliamo di migranti e migrazioni, parliamo innanzitutto di un fenomeno mondiale e pluriforme. Mondiale perché è una realtà strutturale che riguarda tutti i continenti e non certo un fenomeno passeggero, ma di un qualcosa che riguarderà sempre di più il futuro dell’umanità. Pluriforme perché ci sono situazioni e motivazioni molto diverse che fa mettere in moto le persone: si può migrare all’interno di uno stesso paese, si può andare via per motivi climatici, oppure per mancanza di giustizia e pace, oppure ancora per persecuzione razziale o religiosa. Sempre, comunque, coloro che si mettono in viaggio sono desiderosi di una vita migliore.
    In Europa molti migranti arrivano ricchi di sogni e anche di illusioni:

    Partono attirati dalla cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative irrealistiche che li espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo, spesso legati ai cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei migranti, che lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la tratta, l’abuso psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili. Va segnalata la particolare vulnerabilità dei migranti minori non accompagnati, e la situazione di coloro che sono costretti a passare molti anni nei campi profughi o che rimangono bloccati a lungo nei Paesi di transito, senza poter proseguire il corso di studi né esprimere i propri talenti[4].

    In questa situazione arrivano a casa nostra, bussano alle porte delle nostre comunità cristiane, cercano da noi sguardi di misericordia e gesti di accoglienza. Prima che un problema da affrontare sono prima di tutto persone in cerca di casa e di famiglia.

    Minaccia o opportunità?

    La presenza di migranti, nell’immaginario sociale, sembra essere in primo luogo uno spazio di allarme e di paura, «spesso fomentate e sfruttate a fini politici»[5]. Se però osserviamo con attenzione alla realtà dell’incontro, ci accorgiamo che

    quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti. Le iniziative di accoglienza che fanno riferimento alla Chiesa hanno un ruolo importante da questo punto di vista, e possono rivitalizzare le comunità capaci di realizzarle[6].

    In tale direzione la presenza di persone, soprattutto di minori, costretti a fuggire dalla loro terra di origine, diventa un’opportunità per far rifiorire le comunità di accoglienza. In primis le comunità cristiane, che dovrebbero avere nell’ospitalità uno dei loro tratti distintivi: attraverso un vero incontro con questi giovani sono costrette a svegliarsi, a mettersi in discussione, a recuperare la propria missione, a ripensare alla loro condizione originaria di «stranieri e pellegrini sulla terra»[7].
    In questo senso i migranti sono un paradigma con cui è bene confrontarci: lo sono sia dell’umanità del nostro tempo, sia della vita di fede. Forse ci fanno paura perché ci mettono di fronte alla nostra vocazione di “uomini viatori”: come credenti sappiamo di essere un’umanità creata da Dio senza una residenza fissa in questo mondo. Siamo, o almeno dovremmo essere, persone che «aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste»[8].

    Esiste la gratuità!

    Nella lettera enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre 2020 papa Francesco evidentemente non ha potuto passare sottotraccia l’esperienza delle migrazioni. Ha anche ripreso fedelmente alcuni testi generati dal Sinodo sui giovani e li ha arricchiti in diversi modi, a partire dall’attuale situazione globale – una terza guerra mondiale a pezzi, come è stato detto più volte – e dalle riflessioni della Dottrina Sociale della Chiesa[9].
    Il volto dell’altro interpella. La storia della sofferenza – propria e altrui – tocca il cuore e apre le mani, rendendoci sensibili e generosi. La figura del buon samaritano è più attuale che mai e sempre più necessaria[10]:

    Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune[11].

    Si fa il bene perché è bene farlo, senza ricercarne altri tornaconti se non la vita buona che si esprime in esso: fortunatamente nel nostro mondo «esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile»[12].
    Abbiamo realtà sociali ed ecclesiali capaci di mettere a regime uno stile di vita accogliente e integrante, capace di riconoscere che siamo davvero Fratelli tutti!

    La gratuità fraterna

    Uscire dal paradigma tecnocratico e neoliberale ed entrare nel ritmo del disinteresse evangelico è uno dei compiti che in un’Occidente a volte stanco e malato dobbiamo ridarci con forza: per uscire da un sistema unico che monetizza e commercializza ogni cosa e per non lasciarci trascinare in un mondo anaffettivo costruito sul dare e ricevere. L’accoglienza dei giovani migranti ci fa entrare di nuovo nel ritmo sano e vivo della “gratuità fraterna”, quella che ha vissuto Gesù nelle sue opere e parole:

    Chi non vive la gratuità fraterna fa della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta persino quelli che non sono fedeli, e “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45). Per questo Gesù raccomanda: “Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto” (Mt 6,3-4). Abbiamo ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per essa. Dunque tutti possiamo dare senza aspettare qualcosa, fare il bene senza pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. È quello che Gesù diceva ai suoi discepoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8)[13].

    Anche come Chiesa ne abbiamo bisogno. Troppe volte ci chiudiamo in noi stessi come una tartaruga che si difende ritirandosi o come uno struzzo che mette la testa sotto la sabbia. Se è tanto vero che «solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro»[14], è altrettanto vero che la Chiesa ha il compito di essere profetica e ispirativa per tutti in questa precisa direzione.

    Davanti a un’esperienza concreta

    Arriviamo infine al nostro Dossier di novembre. Un’esperienza in atto di accoglienza di “Giovani Minori Non Accompagnati” che ci aiuta a sintonizzarci con le grandi indicazioni magisteriali a cui abbiamo fatto riferimento sopra, e che si possono sintetizzare in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.
    Ci confrontiamo con ciò che sta avvenendo nella Comunità don Bosco Bearzi di Udine e San Luigi di Gorizia. Due realtà salesiane geograficamente posizionate in territorio di frontiera migratoria – sulla cosiddetta “rotta balcanica” – dove quotidianamente si accoglie, si ascolta, si accompagna e si integra.
    Ciò che colpisce è innanzitutto una comunità che racconta e cerca di riflettere sulla propria azione. L’autore del Dossier è plurale, comunitario: l’équipe degli educatori, di cui fin dall’inizio si pronunciano i nomi. Questo già dice molto, forse quasi tutto. È una comunità educativo pastorale che si fa famiglia verso degli orfani. Formalmente “minori non accompagnati”, quindi senza adulti di riferimento. Giovani senza famiglia in cerca di una “famiglia adottiva”. La Chiesa non dovrebbe essere questo? Se siamo figli adottivi di Dio, come attesta san Paolo[15], non dovremmo comportarci verso i nostri fratelli che vivono diverse forme di “orfanità” nello stesso modo in cui Dio si è comportato con noi?
    Poi colpisce il fatto che si pensa mentre si agisce e viceversa. Gli scrittori del Dossier non vengono dall’ambito squisitamente accademico e professionale. Se da una parte si può perdere un po’ di rigore stilistico, dall’altra si guadagna la vivacità e la concretezza di una narrazione che porta in sé vita vera. Il circolo tra pratica e riflessione è assai virtuoso, importante, decisivo. In questo modo non si fanno sconti, perché le difficoltà ci sono e gli insuccessi accadono di frequente. È la dura realtà dell’educazione, dove si semina tanto e non sempre si raccoglie molto. Si mettono a tema le prassi, si cerca di migliorale cammin facendo, ci si confronta per crescere insieme.
    Nella terza parte il Dossier cerca di riprendere, in forma di intervista, alcuni temi in maniera più sistematica. Questo serve a fare il punto della situazione, ad andare in maggiore profondità, a prendere un po’ distanza da ciò che si sta facendo per vederlo meglio nelle sue articolazioni e allargare così la visione, aprendo nuovi orizzonti.

     

    NOTE

    [1] XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Documento finale, 21-24.
    [2] Ivi, 25-28 (tali testi sono ripresi come citazione diretta in Christus vivit ai numeri 91-94, senza alcuna sostanziale aggiunta).
    [3] Ivi, 29-31.
    [4] Ivi, 26.
    [5] Ivi.
    [6] Ivi, n. 27.
    [7] Eb 11,13.
    [8] Eb 11,16.
    [9] Si possono vedere in maniera specifica i numeri 37-41 e 129-141.
    [10] Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti, 3 ottobre 2020, 56-86.
    [11] Ivi, 67.
    [12] Ivi, 139.
    [13] Ivi, 140.
    [14] Ivi, 141.
    [15] Cfr. Rm 8,15 e Ef 1,5.

     


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