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    Intelligenza e cultura, gli strumenti chiave della PU



    Luca Peyron *

    (NPG 2017-06-14)


     

    Partiamo da un postulato condivisibile da chi educa: l’azione della Chiesa ha come fine ultimo suscitare il discepolato cristiano maturo o adulto; detto in termini teologici accompagnare una ratifica esistenziale del carattere indelebile e irrevocabile della figliolanza divina donata sacramentalmente nel battesimo. La sequela Christi interpella così tutta la persona nell’arco della vita nelle forme diversificate proprie di ogni stagione dell’amare e dell’essere amati. Un educatore sa che nei confronti dei giovani non si tratta semplicemente di trasmettere dei contenuti o di interpellare in modo più o meno efficace o efficiente la coscienza. L’accompagnamento al e nel discepolato, ossia un’educazione autenticamente generativa, è questione che si fa più sofisticata e complessa nel progredire della vita e che, quando si tratta di giovani ma non solo, spesso tralascia due elementi fondamentali: intelligenza e cultura. La Pastorale Universitaria concorre ad assolvere questo compito soprattutto in quella fase della vita in cui molta parte dei nostri giovani disertano i nostri ambienti perché spesso, come hanno dimostrato le indagini sociologiche degli ultimi anni, non si sentono più interpellati là dove, invece, si percepiscono più smarriti o carenti in un periodo della vita in cui cominciano in modo adulto ad usare la propria intelligenza cercando di decodificare il mondo che li circonda. Prima di entrare nello specifico è necessario premettere una considerazione di sistema, da non dare per scontata, rispetto al tema della pastorale integrata e intergenerazionale. La pastorale, qualunque aggettivo le si voglia affiancare, dovrebbe essere una lente particolare, con particolare fuoco, che concorre con altre lenti ad aver una visione complessiva di un ambito, di un settore, di una età della vita. In queste righe pastorale universitaria non si pensa come un settore pastorale, un ambito di esercizio con dei confini, lo sviluppo di una potestà entro una categoria umana, l’occupazione di uno spazio ecclesiale e/o civile. La pastorale universitaria è il contributo che un modo di essere e di agire della Chiesa può dare, in comunione con altri, a dare gambe al mandato evangelico di battezzare tutte le genti.

    Una prima comprensione di PU

    Con questa doverosa premessa di metodo e di contenuto, Pastorale Universitaria significa certamente pastorale in Università, e sarebbe un bene che vi fosse questa attenzione da parte delle Chiese locali nel cui territorio insiste un ateneo, ma Pastorale Universitaria è anche il molto altro che in questo dossier cominciamo a delineare e che nei numeri successivi analizzeremo più nel dettaglio. Pastorale Universitaria, per quanto qui ci interpella, è pastorale per coloro che sono in uscita dalle superiori e cercano di orientarsi per il loro futuro; è pastorale con gli universitari, con i giovani che studiano e con quelli che hanno abbandonato; pastorale universitaria è giovarsi della terza missione dell’università in un ottica di pastorale nei territori; è pastorale della cultura e dello studio diversamente definibile come pastorale dei saperi; è pastorale giovanile e pastorale parrocchiale abbracciando una visione dell’una e dell’altra che non abbiano paura di affrontare il tempo che viviamo e nell’ottica comunionale che abbiamo evidenziato; infine è un modo di fare pastorale che usi dei metodi, delle attenzioni e delle peculiarità che sono proprie dell’università e che possono rappresentare un guadagno per l’azione pastorale nel suo complesso, qualunque sia l’età dei destinatari[1]. Un’ultima nota introduttiva: per fare pastorale universitaria è necessario accettare di avere una intelligenza senza connotarla ulteriormente con aggettivi, avverbi o genitivi diversi, accettare di averla ricevuta in dono non come accessorio utile, ma come elemento necessario per riconoscere il Verbo nella nostra carne e avere la medesima passione del Verbo per il confronto con il mondo che ci circonda, con la cultura che respiriamo e passione per i giovani che, con noi, sfidano il presente guardando al futuro in un’epoca senza apparente desiderio di futuro. Accettare di avere una intelligenza non è banale ed esistenzialmente a buon prezzo, perché comporta una fatica particolare a cui forse non si è del tutto abituati, soprattutto se si è intelligenti e intuitivi, se si ha una buona esperienza pastorale con dei buoni successi, specialmente con i giovani. Usare dell’intelligenza è profondamente evangelico e risponde a quanto ci impegnammo a fare ricevendo la Cresima – il dono dell’intelletto –, infine è un atto profondamente ecclesiale non demandabile ad altri ritenuti più intelligenti o più portati ad usarla l’intelligenza. Siamo a servizio della Chiesa e dei giovani quando usiamo l’intelligenza, quando accettiamo le sfide che essa ci pone, quando siamo da lei costretti a fermarci e stare in sua compagnia del Mistero di Dio, innanzitutto per noi stessi, per la nostra credibilità, per la nostra fede. Se pregare è il primo atto profondamente pastorale, forse essere intelligenti in una data cultura è oggi il secondo.
    Jacques Maritain, tra i molti e tra i migliori, ci ricorda che la risposta ebraico, greca e cristiana alla domanda che cosa è l’uomo è: un animale dotato di ragione la cui suprema dignità consiste nell’intelletto[2]. L’intelligenza ci è necessaria, essa ci connota nell’intimo, è uno dei riflessi più significativa dell’imago Dei e merita di essere intelligentemente onorata, come scrive Armando Matteo. In queste note essa non ci interessa nella sua dimensione biologico-scientifica, ma spirituale e filosofica.

    La formazione dell'intelligenza

    Partiamo dunque da un quesito: quali sono le più profonde aspirazioni dell’essere umano, soprattutto in giovane età? Sempre con Maritain possiamo dire: la libertà intesa non come semplice libero arbitrio che ci è donato in natura, ma come spontaneità, espansione, autonomia ovvero la libertà interiore e spirituale, lo scoprire e accondiscendere di essere mossi dallo Spirito che guida alla verità tutta intera (Gv 16,13) che è lo scopo, il fine, la meta della libertà, dell’autonomia e dell’incarnazione. Come è stato fatto notare, infatti, senza questa fede nella verità non vi sarà mai efficacia umana. È importante prendere coscienza che non rispondiamo semplicemente alle sollecitazioni della realtà, ma che strutturalmente cerchiamo un oltre e un Altro, e questo i giovani ce lo ricordano di continuo nello sperare contro ogni speranza, scavalcando sempre il muro della realtà che imprigiona l’adulto che si pensa pratico, ma si dimostra sprovveduto. Dalla libertà così intesa e vissuta, continua sempre Maritain, nasce la passione per il bene comune, per la società di cui così tanto sentiamo oggi il bisogno e di cui i giovani avvertono in bisogno, il 70% tra loro come evidenziato in una ricerca recente. Il protagonismo che il Vangelo esige è coerentemente una disposizione, che nasce da un’educazione correttamente impostata, per cui un giovane riconosce il bisogno che vi sia una società e una cultura a circondarlo e crescerlo per emanciparlo dal semplice bisogno materiale e consentirgli di esercitare la libertà. Questo bisogno diventa in lui passione per il bene comune in cui riversa la sua libertà man mano che ne prende coscienza, assumendo così il suo posto nella società, la sua vocazione umana che lo apre alla vocazione divina, anche di particolare consacrazione. Tutto questo, e il molto altro su cui rifletteremo negli spazi specifici dei prossimi numeri, sono il motore della pastorale universitaria e il suo fine perché tutto questo nasce dalla conoscenza di sé che ha la persona, dalla sua scoperta, dalla sua conversione rispetto ad un fuori che invita semplicemente a fare e un dentro che rivela l’essere. Il tempo dell’università è forse il più propizio perché questi temi si pongono all’evidenza dei giovani ogni singolo giorno. Entrando in università scoprono o approfondiscono il fascino del pensiero, della ricerca, del confronto. In università i giovani si aprono alla diversità, alla globalità, alla libertà dei tempi e dello spazio. In università si percepisce che ci si sta preparando ad avere un ruolo sociale e che quel ruolo, al di là delle regole del mercato, dipende fondamentalmente da te, da come in università ti poni e contrapponi. Un giovane può scoprire per la prima volta il suo potenziale inespresso e il fatto che per esprimerlo non deve entrare in conflitto con se stesso, con chi l’ha cresciuto e con le sue pulsioni, così come avviene nell’adolescenza. No, in università il fatto che si abbia idee, teorie, che si voglia portare avanti quanto è stato consegnato o lo si voglia semplicemente rifiutare è possibile. Si deve dimostrare perché lo si vuole fare, dove lo portano le scelte, si deve rendere ragione in modo adulto di tutto quello che, da adolescente, si pensava semplicemente bastasse urlare, o tacere affinché si potesse dire io ci sono. L’università, però, non vive di automatismi, è uno strumento, e come tale ha bisogno di fini e del motore del desiderio perché possa funzionare così. Il compito, la sfida e la bellezza della pastorale universitaria sono questo. Partire e ripartire dall’intelligenza per educare il giovane a fare dell’imperativo categorico sii intelligente il suo imperativo categorico. Seguendo la lezione di Bernard Lonergan[3] l’intelligenza è dunque qualche cosa di più in termini educativi e pastorali. In un tempo in cui la persona rielabora significativamente la percezione di sé, forse nel modo più significativo e per molti aspetti più determinante, acquisire presenza a se stessi come soggetto e rendersi conto che in sé abita un dinamismo con specifiche operazioni, che permettono di rapportarsi alla realtà e a se stessi in un rapporto qualitativamente e potenzialmente sempre migliore, è una scoperta folgorante. Profondamente umana. Profondamente universitaria. L’esplorazione dei sei livelli della coscienza, così come li individua il filoso e teologo canadese, porta potenzialmente la persona ad avere quella capacità di comprendere, giudicare e agire che sono strutturali al discepolato cristiano. In questo dinamismo tutto personale un giovane può tendere a quell’auto appropriazione sempre aperta che ne fa un uomo capace di autentica interiorità, così diversa dallo sguardo auto centrato su di sé che tanta pseudo spiritualità contemporanea contrabbanda allegramente. È il medesimo cammino, solo proposto in termini differenti, che i grandi staretz di oriente e occidente hanno sempre indicato come via privilegiata dell’incontro con Dio. È riconoscere, per via di intelligenza e di volontà e certamente sotto la guida della Grazia, che siamo immagine di Dio e incontrarlo nel profondo del nostro esistere riconoscendo la bellezza della nostra anima percependo così l’essere stesso di Dio che l’ha creata[4].

    La dimensione ecclesiale della cultura

    Non dimentichiamo però che l’annuncio del Vangelo e la sequela non è mai solo questione personale: è soprattutto questione ecclesiale, questione di popolo, questione di società. Non possiamo dunque dimenticare o fare finta che quanto circonda noi e i giovani non abbia un peso, un valore, e una importanza capitale. La tentazione, ecclesiale ma non solo, è quella di costruire serragli, riserve, protezionismi intellettuali e fisici in cui coltivare i nostri giovani e rassicurare le loro famiglie e con loro noi stessi. Se questo può avere un certo senso e significato per alcune età della vita, qualunque strategia di questo tipo certamente si vaporizza al calore della giovinezza. È una esigenza primaria che i nostri ambienti educhino ad abitare la realtà fuori da essi e nello stesso tempo è egualmente primario che i nostri ambienti lascino che la realtà esterna li provochino e contaminino. Non si tratta di scelte semplicemente tattiche o strategiche: non dobbiamo educare ad uscire per avere la speranza che rientrino, né modellare i nostri mondi in modo che siano il più possibile simili a quanto esiste fuori per ragioni di marketing pastorale, sarebbe mondanizzazione. Il mandato del Signore è chiaro: la cura per la nostra personale salvezza si innesta sempre nell’interesse per l’umanità dando così spessore e consistenza al termine fraternità. Gaudium et spes 44 ci rammenta che guardare oltre i nostri confini è non solo un imperativo nell’ordine dell’evangelizzazione, ma anche un bisogno ad intra perché nel mondo il Regno sta crescendo e da esso abbiamo da imparare in ogni generazione. Papa Francesco in Evangelii Gaudium al numero 115 ci ricorda che: “La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve”. Non possediamo la verità ma, come ci ricorda S. Paolo, ne siamo conquistati (Fil 3,12) e l’Università e la cultura universitaria sono luoghi straordinariamente interessanti ove incontrare la cultura, fare cultura, far incontrare cultura e Vangelo, far incontrare la nostra visione del mondo con il mondo e le sue visioni. Educare i giovani a confrontarsi con la realtà, con la cultura che la veicola, la permea, la produce o la elimina significa consegnare loro le chiavi per essere autenticamente coprotagonisti del loro tempo e costruttori del Regno in questo frammento di storia. Oggi sappiamo che il male di vivere anche dei giovani è la fatica nel definire se stessi ed essere fedeli a quell’immagine. In un mondo mutevole e cangiante anche il dinamismo proprio della gioventù stenta a star dietro a supermercato delle identità e delle culture. Come ha notato Giuliano Zanchi, l’umanità: “Schiacciata dal comandamento di trovare un’identità – devi essere te stesso – ma privata di riferimenti simbolici condivisi – non esiste verità per cui valga la pena consegnarsi – si rivolge alla cura della forma come unica possibile fonte di carattere”[5]. Ma è una soluzione che sappiamo essere effimera e gracile perché il sé che ne deriva non è frutto di relazioni, ma spesso solo di oggetti, maschere, costumi.

    La cura della relazione

    In questa frammentazione i giovani devono trovare il filo rosso che permetta loro di mettere in fila delle idee che sostanzino la loro esistenza e la loro maturità in un rapporto dialogico tra loro e con adulti credibili, possibilmente credenti. L’università, come luogo e come tempo della vita, è una palestra eccellente dove fare esperienze diverse di relazione e guide esperte possono educare ad una fede che non teme il momento che si vive e la storia che scorre tra le dita. Pochi luoghi danno la possibilità in così poco tempo di esplorare la cultura e il mondo in un unico spazio, pochi luoghi sono deputati dalla stessa società civile e dalla laicità culturale a farlo. Quei luoghi, reali ma anche ideali, chiedono al cristiano di esserci, perché sono luoghi abitati da persone, da giovani, ma al contempo sono luoghi abitati dalla cultura di cui abbiamo bisogno. Cultura che manca spesso nei nostri ambienti, nei nostri luoghi abituali, nelle nostre comunità dove la fede è talora lucignolo fumigante perché le manca proprio l’ossigeno della cultura. La commistione tra università e comunità è così doppiamente salutare. Forse ne abbiamo paura, non rendendo così un buon servizio ai nostri giovani. Perché questo timore neppure tanto tematizzato? Rendo omaggio ad una felice intuizione di un mio confratello più anziano usando un’immagine che può essere utile. In una riunione del Consiglio Presbiterale don Antonio Amore sottolineò che noi tutti rischiamo di vivere la parrocchia – ma l’immagine vale anche per una associazione, un gruppo, un movimento, una comunità religiosa -: come una “boita”. Il termine piemontese è efficace, provo a tradurlo sapendo di tradirlo un po’. La boita è la bottega, la piccola fabbrichetta, l’officina: chi la conduce la conosce bene, è ben attrezzato per il necessario, sa garantire il piccolo cabotaggio per la quale essa esiste e più sono gli anni in cui la persona la conduce, più ne conosce pregi, difetti, potenzialità e limiti. La boita è una struttura sociale ed economica affidabile e chi la gestisce da tempo è visto come persona affidabile dalla clientela che, anche per generazioni, se ne serve. Possiamo rendere l’immagine più sofisticata, ma resta la sua efficacia e la possibilità di trasporla dalla mia Torino sino al tacco d’Italia. Perché cambiare una boita? Perché cercare nuove attrezzature? Perché modificarne gli assetti? Ha sempre servito bene la causa, continuerà a farlo. Ciò sarebbe vero se il mondo non fosse globalizzato, se non ci fossero le vendite on line, se il prezzo della manodopera e dei pezzi di ricambio non fosse superiore all’acquisto del prodotto nuovo. La boita è destinata a scomparire, se già non è scomparsa. Sopravvive solo per prodotti di nicchia, per amatori, o vintage. Il parallelo è rustico, ma credo efficace. La fede nei nostri ambienti non rischia di essere altrettanto vintage per i giovani? Dobbiamo tenerci ugualmente lontani dal pensare che sia la ritirata nei piccoli gruppi la soluzione giusta – adducendo piccolezza evangelica, marginalità necessaria etc. - così come militare in gruppi, peraltro altrettanto piccoli, di puri e giusti che alla fine rischiano di essere letti ed interpretati solo come esempi polemici.
    Lo Spirito cosa suggerisce a questo tempo? Il sinodo dei Vescovi ci aiuterà a comprenderlo meglio, nel frattempo possiamo accettare le intuizioni che già accompagnano questi duemila anni di cristianesimo: accompagnare i nostri giovani ad essere parte delle loro comunità, valorizzando la loro presenza intelligente nella costruzione di un umanesimo che è nuovo perché costantemente giovane nella presenza del Risorto. Giovani che in università e a partire dall’esperienza universitaria ne fanno una risorsa perché essa, abitata dai cristiani e sollecitata dai cristiani, diventa luogo di possibili teofanie culturali. Come ci ricorda il libro dell’Esodo: in ogni luogo in cui si farà memoria del mio nome verrò e ti benedirò (Es 20,24).

    NOTE

    [1] Per un approfondimento L. Peyron, Per una pastorale universitaria. Chiesa – Università – Territorio. Elledici, Roma, 2016.
    [2] J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione. La Scuola, Brescia, 2001 p. 67 e ss.
    [3] Cfr. B. Lonergan, Il metodo in teologia, Città Nuova, Roma 2001; B. Lonergan, Comprendere ed essere, Città Nuova, Roma, 1993.
    [4] Cfr. Matta el Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera, Edizioni Qiqajon, 1999.
    [5] G. Zanchi, Prove tecniche di manutenzione umana, Vita e Pensiero, Milano, 2012, p. 41.

    * Direttore pastorale universitaria regionale Piemonte e Valle d’Aosta.


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