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    Il cappellano universitario nei documenti del Vaticano II /1


    Temi di pastorale universitaria /8

    Luca Peyron [1]

    (NPG 2018-07-75)


    I documenti della Chiesa emozionano e ispirano gli anni della formazione, ma rischiano di essere lasciati nelle librerie quando si comincia ad avere le mani in pasta nella pastorale. Questo contributo è un’offerta per ripensare alcuni passaggi significativi dei due documenti magisteriali del Concilio Vaticano II [2] sulla missione del presbitero che possono aiutare chi serve nel ministero di cappellano universitario. Come ci ricorda Presbyterorum Ordinis: “Nel sacro rito dell'ordinazione il vescovo ricorda ai presbiteri che devono essere «maturi nella scienza» e che la loro dottrina dovrà risultare come «una spirituale medicina per il popolo di Dio». […] per poter dare una risposta esauriente ai problemi sollevati dagli uomini d'oggi, è necessario che i presbiteri conoscano a fondo i documenti del magistero”.

    L'auspicato rinnovamento di tutta la Chiesa dipende in gran parte dal ministero sacerdotale animato dallo spirito di Cristo (OT, proemio). La pastorale universitaria è pastorale di confine, di missione e spesso sperimentale e dunque vivere il sacerdozio ministeriale in università significa offrire la propria esistenza alla fantasia dello Spirito Santo in uno degli snodi più promettenti della società. La santità del ministero sacerdotale in università significa una occasione di dialogo di primaria importanza per il mondo, ma soprattutto per la Chiesa. Conosciamo le fatiche per annunciare Cristo ad un mondo che si muove ad una velocità impressionante che è spesso fuori scala rispetto ai ritmi della Chiesa nonostante i più diligenti tentativi di restare al passo. Posto che il rinnovamento della Chiesa passa sempre da una più piena adesione a Cristo che è la sua perenne giovinezza, è altrettanto evidente che è nostro compito che il Verbo si faccia cultura anche in questo tempo. Pertanto se da un lato il compito della Pastorale Universitaria è quello di portare il Vangelo nei luoghi della cultura e della scienza, dall’altro è nostro compito fare anche il percorso inverso determinando così un autentico dialogo Chiesa mondo senza pretese di onniscienza! Il cappellano universitario, animato dallo Spirito Santo è colui che porta nella sua Diocesi e nella Chiesa tutta quei Semina Verbi che in Università esistono e vengono alla luce nella didattica e nella ricerca, quei tratti del Regno di Dio che soprattutto nella Terza Missione tanto gioverebbero alle nostre Chiese affaticate nella prassi pastorale e in cerca di nuovi linguaggi e strumenti per annunciare il Vangelo a questo generazione. Pensiamo ad esempio all’educazione dei giovani: la messa in comune delle esperienze, delle relazioni istituzionali e delle reti informali può dare vita ad una pedagogia capace di coniugare la tecnica delle scienze e il lievito della Carità, i saperi accademici e le prassi comunitarie, le competenze operative e le teorie etiche, le azioni e i valori: una pedagogia dell’agire più che del fare. L’agire, inteso come sintesi del pensare del credere e del fare, diventa poco per volta la lente privilegiata per offrire ai giovani chiavi più efficaci per un discernimento incarnato nella realtà, una sorta di cartina al tornasole con cui misurare l’effettivo valore dei saperi acquisiti, rispetto alla loro possibilità di offrire suggerimenti per prendere posizione sulle questioni del mondo, orientando le proprie scelte a favore del bene comune. Il cappellano universitario diventa così sempre più parte sinergica del presbiterio diocesano, della pastorale integrata della Chiesa a cui appartiene o in cui fa servizio così come della propria congregazione o famiglia religiosa se è un consacrato.

    2. Tutti i sacerdoti dimostrino il loro zelo apostolico soprattutto nel favorire le vocazioni, e con la loro vita umile, operosa, vissuta con cuore gioioso, come pure con l'esempio della loro scambievole carità sacerdotale e della loro fraterna collaborazione attirino verso il sacerdozio l'animo dei giovani (OT, II, 2). La rivoluzione digitale ha profondamente cambiato il modo di stare dei giovani nella realtà e di confrontarsi con essa e con se stessi. Tutto ciò ha delle conseguenze non di poco conto anche nella pastorale vocazionale e più in generale nella semplice possibilità che vi sia una cultura vocazionale effettivamente generativa. Non è questa la sede per approfondire questo aspetto, basti però evidenziare come provvisorietà, frammentarietà e identità continuamente mutevoli siano uno degli esisti antropologici di questa fase della storia, tutti aspetti che minano in radice il discernimento e la presa di coscienza di una particolare vocazione. A questo si deve aggiungere l’onda lunga della secolarizzazione che non ha terminato il suo corso e che consegna all’immaginario collettivo una certa percezione della vita sacerdotale. Tuttavia il Concilio Vaticano II ci ha insegnato che non è stigmatizzando un mondo o lanciando anatemi che lo conquisteremo alla causa di Cristo e dunque, pur dovendo rimanere fedeli alla verità e dovendo denunciare il Male quando esso si palesa, resta il fatto che è a questo mondo che dobbiamo parlare, a questi giovani iperconessi e digitali siamo mandati. Le parole evocate da Optatam Totius ci dicono molto rispetto al nostro stare in università: con zelo apostolico ovvero animati da quell’amore di Cristo che ci spinge a cercare i giovani là dove sono e là come sono consapevoli che a mandarci, nella figura del Vescovo, è il Signore. Un cappellano universitario consuma le suole delle scarpe girando per i corridoi degli atenei e i polpastrelli sulla tastiera del computer per girare nei corridoi della Rete, senza stancarsi. Ci dobbiamo mostrare per quello che siamo, sacerdoti, anche nell’abito e nel linguaggio e felici di esserlo. Non c’è più il pericolo che il colletto da prete sia letto come segno di potere e di autorità, in università più che mai esso non è messaggio di coraggio nel dichiarare una identità che non si impone, ma si propone. Una identità umile: capace cioè di essere terreno fertile in cui coltivare il bisogno di Dio che anima ogni persona. I giovani soprattutto si avvicinano perché vogliono parlare e confrontarsi con un prete, prima di tutto con un prete. Adulti a disposizione ne hanno, così come coetanei. Il prete siamo noi. È ben possibile che la conversazione parta da lontano, ma sta a noi farla giungere nel più breve tempo possibile sulle grandi questioni: vita, morte, desiderio di felicità. Su quelle i giovani si confrontano tra pari, ma non hanno altro tipo di occasione di confronto e spesso quel che resta loro è una memoria vaga di qualche concetto rimasto dal catechismo. Il cappellano è colui che può fare chiarezza, che può raccontare nel suo vissuto concreto che dogmi e precetti sono occasioni di felicità, di scelte, di pienezza. Il fare tutto ciò a due a due, quando è possibile, è ancora più vincente. Tra preti, con una persona consacrata, comunque condividendo una confidenza che ha chiaramente la sua radice nell’incontro con Cristo.

    3. Imparino ad integrare nella loro persona la rinunzia al matrimonio in maniera tale che la loro vita e la loro attività non abbiano in alcun modo a patire danno dal celibato, ma questo permetta loro, al contrario, di acquistare un più perfetto dominio sul corpo e sull'animo e una più completa maturità e giungere a meglio gustare la beatitudine del Vangelo. Don Bosco diceva che l’estate, per i seminaristi, era il tempo della messe del diavolo. In università sotto questo profilo è sempre estate. I giovani mostrano e si mostrano, in una perenne “crisi del tessile” che mette alla prova la castità del nostro sguardo e del nostro linguaggio. Pur non essendo una caserma, un ateneo si presta molto ad uno stare insieme cameratesco, goliardico. Tutto ciò ha lati positivi da valorizzare, ma altri da evitare con cura. Ma esiste un celibato e una castità anche di tipo intellettuale. Se, infatti, l’aspetto più pecoreccio è di tutta evidenza, non è meno dannoso l’aspetto intellettuale, la seduttività dei saperi. Le parole di Gesù che Matteo ci ha trasmesso hanno qui un valore straordinario, le ricordiamo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Fermo restando quanto abbiamo condiviso sull’opportunità della circolarità dei saperi, tuttavia resta per noi il primo sapere di cui innamorarci quello della Parola del Signore. Non pochi tra i cappellani universitari vengono da esperienze di studio e professionali pregresse, io stesso sono tra questi. Interessi che ci hanno affascinato e convinto, ai quali abbiamo dedicato spesso passione e fatica, un vero e proprio amore, talora incondizionato. Tornare tra quei libri o comunque in un contesto che riaccende la nostra curiosità di sapere e approfondire è bello e interessante da un lato, ma altrettanto pericoloso rispetto alla nostra scelta celibataria profonda. La linea di confine è sottile, l’approfondimento deve essere illuminato dalla fede e avere come fine l’annuncio del Vangelo, il nostro sì totale e totalizzante a Cristo e alla sua Chiesa. Un confine che dobbiamo percorrere stando attenti a non attraversarlo. Tra l’essere cordiale e affabili con una persona e flirtare con lei il passo è breve, tra l’essere interessati ad un concetto scientifico e riprendere la professione di un tempo il passo è altrettanto breve. Teniamo dunque ancora più presente che: “[…] il fine cui tendono i presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo. E tale gloria si dà quando gli uomini accolgono con consapevolezza, con libertà e con gratitudine l'opera di Dio realizzata in Cristo e la manifestano in tutta la loro vita” (PO, 2). La Vergine Maria, come saggiamente ci insegnavano in seminario, continui a vegliare sulle nostre scelte, Madre della Chiesa e dei sacerdoti e della nostra vocazione!

    4. Siano formati alla fortezza d'animo, e in generale imparino a stimare quelle virtù che sono tenute in gran conto fra gli uomini e rendono accetto il ministro di Cristo quali sono la lealtà, il rispetto costante della giustizia, la fedeltà alla parola data, la gentilezza del tratto, la discrezione e la carità nel conversare. (OT e cfr. PO, 3) Queste poche righe sono il vademecum minimo per un cappellano universitario e ci fa del bene ricordarle e stimarle. Siamo ospiti a casa d’altri e anche quando siamo cappellani in una università cattolica queste parole sono importanti, forse ancora di più. In università non abbiamo potere, ci restano provvidenzialmente il servizio e il dialogo in un processo kenotico che ci fa del bene e ci assimila a Cristo stesso. Il rifiuto o il semplice disinteresse rispetto a quello che siamo e alla parola che abbiamo da offrire è scritto nella nostra feriale esperienza, il magistero ci invita ad usare quel rifiuto. Se Gesù imparò l’obbedienza dalle cose che patì anche noi presbiteri in università possiamo serenamente gioire delle porte che non si aprono e dei tanti ti sentiremo un’altra volta perché possono rafforzare significativamente la nostra mitezza e fortezza. Laddove non entra ancora la forza della Parola, può entrare la mansuetudine della nostra perseveranza e la lealtà nel continuare a rispettare la laicità del luogo in cui siamo ospitati. Il cappellano universitario prima di proporre una dottrina, delle risposte efficaci, la capacità di rispondere alle domande più insidiose e una certa capacità di stare in questioni di carattere scientifico, deve offrire la sua amicizia incondizionata. Vera, originale, non mercantile, non finalizzata a null’altro che ad essere amico a nome di Gesù. Sarebbe ingeneroso pensare che Cristo ci abbia chiamato amici solo per ottenere quella confidenza sufficiente per poterci salvare, ci ha piuttosto chiamato amici, fratelli nell’unico Padre, perché la sua stessa natura relazionale lo spingeva a donarsi con quel medesimo trasporto per cui si tessono le relazioni nella Trinità. Come sacerdoti questo dovrebbe essere il primo e autentico traguardo della nostra presenza in università. Con i giovani, ma in realtà con tutti, dobbiamo essere molto onesti nelle nostre intenzioni e dobbiamo averle chiare in mente noi per primi, senza infingimenti. Le virtù che il documento elenca non sono altro che le virtù dell’amico autentico. Si potrebbe obbiettare che è retorico pensare di essere davvero amici di centinaia di persone o migliaia. Come è possibile coltivare in modo autentico queste relazioni? Dubbi legittimi a cui non ho risposta perché penso che non si debba neppure trovare una risposta. Non si tratta di attuare delle tecniche, si tratta di avere un atteggiamento profondo e radicato nel cuore. Gesù chiamava amici persone viste una volta sola e mai più incontrate: ma quello sguardo per loro bastò per sentirsi amati, accolti, capiti come solo un amico autentico è capace di fare. In un mondo che coltiva sistematicamente l’indifferenza, noi portiamo in università una presenza secondo la quale l’esserci di chi abbiamo davanti, in quell’istante, fa la differenza. Forse è più importante chiedere al nostro interlocutore quando potrò rivederti che non un invito a partecipare a qualche iniziativa pur bella e santa.

    5. Il metodo stesso dell'insegnamento ecciti negli alunni il desiderio di cercare rigorosamente la verità di penetrarla e di dimostrarla, insieme all'onesto riconoscimento dei limiti della conoscenza umana. (OT, V, 15) Il primo limite da cui partire, per una sana ascesi e non per cercare scusanti, è riconoscere che la passione per la verità non fa troppo spesso parte del nostro bagaglio culturale. L’essere italiani ha molti vantaggi e retaggi straordinari, ma sull’essere innamorati della verità abbiamo della strada da percorrere. Siamo meno precisi e attenti alla parola data, aggiustiamo spesso situazioni e leggi, il termine integrità non fa parte del nostro usuale vocabolario. Siamo abituati ai condoni, di ogni tipo. Come sacerdoti e come cappellani universitari questo non è tollerabile. Il nostro parlare deve essere sì sì no no. Come cappellani possiamo imparare molto dal rigore scientifico delle persone che incontriamo, dall’acribia con cui indagano la realtà e la serietà con cui affrontano la ricerca oltre alla preparazione che sta alle loro spalle prima di entrare in aula. Un cappellano è un privilegiato perché vive in un modo che lo stimola ad essere migliore di se stesso e dovendosi confrontare con persone di valore è aiutato ad esserlo a sua volta. È importante vigilare sul fatto che non si attivino in noi quegli anticorpi luciferini che impediscono una salutare e virale diffusione di queste positive tensioni che si agitano attorno a noi. Per questo è utile individuare quelle persone tra i docenti che ci mettono in crisi e frequentarle per quanto possibile, dichiarando senza paura che ci fa del bene stare con loro, anche a motivo del loro scetticismo religioso, perché no? Il nostro contraccambio, il nostro compito, sarà quello di suscitare la domanda ulteriore, l’appello alla causa superiore come la definiva Papa Montini.
    (Segue nel prossimo numero)

    NOTE

    1 Cappellano universitario presso l’Università degli Studi e il Politecnico di Torino.
    2 I documenti saranno indicati con le sigle con le quali abitualmente vengono riconosciuti seguiti dal numero della citazione. Optatam Totius (OT), Presbyterorum Ordinis (PO).


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