Pastorale Giovanile

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     Il «Padre nostro»

    Carmine Di Sante 

     (NPG 1996) 



    «PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI»

    Questi appunti di spiritualità per i giovani (e per tutti) sono dedicati al «Padre Nostro», la preghiera cristiana per eccellenza, conosciuta ed amata più del «credo», cioè della stessa professione di fede.
    Messa, secondo Matteo e Luca (6,9-13; 11, 2-4), direttamente da Gesù sulla bocca dei discepoli, questa preghiera è il «simbolo» più importante della tradizione cristiana, in cui si esprime l'esperienza peculiare che questa ha avuto del divino. Simbolo (che nell'originale rimanda a «congiungere») vuol dire segno di ri-conoscimento e di identificazione. Originariamente consisteva in una «parte» o «metà» di un oggetto (vaso o altro) che, ricomposto con l'altra parte o metà e combaciante, fungeva come da carta di identità.
    Il «Padre Nostro» è il simbolo per eccellenza della tradizione cristiana perché è la «carta d'identità» del credente. Chi conosce le sue parole ed è in grado di pronunciarle, può dirsi cristiano, anzi è cristiano. Per questo, secondo la prassi catecumenale affermatasi nei secoli III-IV e testimoniataci soprattutto dal sacramentario Gelasiano (secolo VIII circa), nella chiesa dei primi secoli si diventava cristiani a pieno titolo attraverso la «traditio» (consegna) e la «redditio» (riconsegna) di questo «simbolo», cioè di questo testo, al cui commento padri quali Tertulliano, Origene e Cipriano dedicarono appositi commentari.
    Le puntate di quest'anno cercheranno di ritrascrivere, con il registro del linguaggio concettuale, l'esperienza radicale del divino condensata in questo testo, ricostruendo l'orizzonte di senso che in esso si oggettiva. Questa ricostruzione sarà fatta in dialogo profondo con la tradizione ebraica dalla quale la preghiera del «Padre Nostro» dipende sostanzialmente, sia dal punto di vista espressivo-letterario che da quello teologico-spirituale. Per il lettore desideroso di approfondimenti ulteriori, l'autore di queste pagine si permette di rimandare al suo recente testo Il Padre Nostro. L'esperienza di Dio nella tradizione ebraico-cristiana, Cittadella Editrice, Assisi 1995.

    Il simbolismo del «padre»

    Il simbolo fondamentale in cui, secondo il Nuovo Testamento, si condensa la traccia fondamentale dell'apparizione di Dio alla coscienza umana è quello del «padre»: «Padre nostro che sei nei cieli». Squarciando ed entrando dentro l'immanenza, la trascendenza vi appare - per l'esperienza credente -, sotto le sembianze del padre, con il suo volto e con il suo comando. Questo tratto - Dio come «padre» - è comune non solo a tutto il Nuovo Testamento e all'Antico Testamento, ma anche a molte delle cosiddette religioni primitive soprattutto non agricole. Qui Dio viene percepito e vissuto come «padre», inteso non tanto nel suo significato procreativo e generativo (è soprattutto il simbolo della madre a veicolare questo aspetto), ma in quello autoritativo-normativo.
    Ma è soprattutto il Nuovo Testamento che, con una insistenza e coerenza senza confronto neppure con l'Antico Testamento (cf per esempio Dt 14,1; 32,6; Is 63, 16; 64, 7; ecc.) dispiega compiutamente questo tratto, divenendone il più qualificante e differenziante.
    I testi neotestamentari ricorrono al simbolismo della paternità divina secondo una duplice modalità correlata ma distinta: una per qualificare il rapporto tra Gesù e Dio, l'altra quello tra i discepoli e Dio. Dio è «padre» dell'uno e degli altri, ma non allo stesso modo e non con la stessa intensità. Questa differenza viene espressa, letterariamente, dall'uso di due formule diverse alle quali gli autori ricorrono a seconda se intendono parlare dell'uno o dell'altro. Nel primo caso prevale la formula «abba» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4, 6) o «padre mio» (Mt 7, 21; 20, 23; 25, 34; 26, 29, 39, 53; Lc 2,49; 22,29; 24,29; Gv 2,16; 5,17, 43; 6, 32; 6,40; 8,19.49.54; 10, 18.29.37; 14, 2.20.21; 15,1.8.10.15, 23; 20, 17, ecc.), mentre nel secondo quella di «padre» in generale (Gv 8,41) o «padre vostro» (Mt 5,16.45.48; 6,8; 10,20.29; Lc 12,32; ecc,) o «padre nostro» (Mt 6,9; Rm 1,7; ecc.).

    Una chiave di lettura

    È diventato comune associare all'immagine del «padre» l'idea dell'amore, per cui riferire a Dio il simbolo della paternità è diventato sinonimo del suo amore e della sua bontà. Una simile interpretazione si rivela insufficiente non solo a livello storico-linguistico, dove il termine padre non indica primieramente né l'aspetto generativo né quello affettivo, ma quello autoritativo, bensì anche a livello fenomenologico-descrittivo dove, come ha dimostrato Freud, la figura paterna entra nel processo di crescita del bambino come «legge» che ne mette in crisi il legame simbiotico con la madre per dischiudergli la via dell'autonomia e della responsabilità.
    Il Dio biblico si rivela come «padre» perché infrange l'orizzonte desiderativo del soggetto umano aprendolo a quello della giustizia o dell'«è giusto», dove l'amore non è più quello rivolto al proprio simile ma quello rivolto al dis-simile, che la bibbia esemplifica nel «povero», nell'«immigrato», nell'«orfano», nella «vedova» e nei malati (zoppi, sordi e ciechi) e la cui specificità consiste non più nell'essere attratto da un valore, il quale completa e realizza il dinamismo autoespansivo dell'io, ma nel chinarsi sul dis-valore, che fa morire l'io come volontà di potenza per farlo rinascere come libertà amante. Dio assume il volto e il linguaggio del «padre» proprio transustanziandolo da essere di bisogno a essere di responsabilità e da volontà di amore come amore di compimento a volontà di amore come amore di benevolenza. Grazie a tale «transustanziazione» il soggetto toccato dall'apparizione di Dio come «padre» entra in un orizzonte che non è più quello del desiderio dove tutto il reale è coestensivo all'io come suo oggetto e prolungamento, ma quello del giusto, dove l'esistente splende della sua irriducibile alterità che, mentre si offre all'io, si sottrae alla sua volontà di possesso esigendo ascolto e acconsentimento.

    «SIA SANTIFICATO IL TUO NOME»

    Il verbo greco usato da Matteo e da Luca rimanda ad un termine ebraico il cui significato etimologico è quello di «dividere», «separare». «Santificare» il nome di Dio è compiere un'operazione di «divisione» e di «separazione», è imparare a distinguere il vero Dio dal falso: il suo vero nome da quello idolatrico.
    Ma qual è il nome «falso» di Dio e quale quello «vero»? Come è noto, nella tradizione ebraica Dio, come non è raffigurabile, neppure è nominabile, per la semplice ragione che i nomi con cui può essere nominato sono sempre e solo produzioni dell'immaginario umano: desiderio o intelligenza.

    Dio non ha nomi

    Il motivo per cui Dio non può essere nominato è perché qualsiasi nominazione ne verrebbe a negare la radicale alterità, il suo essere oltre il campo visivo e percettivo del soggetto umano, il suo porsi oltre l'io di cui è principio ma non oggetto.
    La traduzione narrativa più suggestiva della innominabilità di Dio è, nell'Antico Testamento, Es 33, 18-23: «(Mosè) disse (a Dio): 'mostrami la tua gloria'. Rispose: 'farò passare di fronte a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia'. Soggiunse: 'ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo'. Aggiunse il Signore: 'Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mia mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere'».

    Il nome che Dio si è dato

    C'è comunque un nome, nella bibbia, che Dio stesso si è dato, un nome «non-nome» che egli stesso rivela a Mosè da un roveto ardente: «Mosè disse a Dio: 'ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: come si chiama? E io che cosa risponderò loro?'. Dio disse a Mosè: 'Dirai agli Israeliti: 'Io sono colui che sono ('ehjeh 'asher 'ehjieh)'. Poi disse: 'Io sono ('ehjeh) mi ha mandato a voi'» (Es 3, 13-14).
    Presentandosi come «io sono colui che sono», Dio non intende dare di sé una definizione ontologica come colui la cui ultima e più profonda realtà è la pienezza dell'essere, il possedere cioè, in-finitamente, da sempre e per sempre, quell'essere che ogni altro essere possiede e può solo possedere finitamente e per partecipazione; neppure intende solo far capire che il problema della sua identità riguarda lui e nessun altro e che perciò è vano pretendere di conoscerne il nome; più semplicemente vuol dire che egli è sempre e sarà sempre con Israele e per Israele: »che cosa significava quel Nome? I sapienti del Talmud lo interpretano come se 'il Santo Benedetto Iddio avesse detto a Mosè: va' a dire agli ebrei: Io sono stato con voi in questo servaggio, Io sarò con voi nel servaggio dei Regni', cioè in tutte le età, in tutti i luoghi, presso tutte le genti e gli Stati che vi terranno schiavi. Io starò al vostro fianco... Quel Nome significava dunque che Dio è sempre presente e vicino dovunque si pena» (D. Lattes).
    Il Nome di Dio è «io non ti abbandonerò mai», come canta il sal 23, che di questo nome può essere considerato un suggestivo dispiegamento: «Il Signore è il mio pastore/non manco di nulla....»

    Il nome di Dio è l'agape

    Il Nuovo Testamento e, soprattutto, Paolo e Giovanni hanno un termine peculiare in cui racchiudono l'autorivelazione di Dio: l'agape: «Dio è agape» (1 Gv 3,1; 4, 7.8.16), cioè «amore». Ma si tratta di un amore peculiare che consiste nell'amare l'uomo esclusivamente in ragione di se stesso e non come momento interno alla propria manifestazione divina o «gloria»; e soprattutto di un amore perdonante che resta sempre al fianco dell'uomo; sempre: anche nell'abisso del suo peccato e del suo fallimento, anche «negli inferi» del suo rifiuto e negazione di Dio stesso.
    Dio è questa «compagnia» che ama anche se rifiutata, che accoglie anche se negata e che mai abbandona anche se abbandonata. Egli, per definizione, è questo essere per l'altro, in ogni modo e comunque, sempre e dovunque. Il suo nome è «il solidale», il cui amore non è l'amore di identità, che si realizza ma l'amore di alterità, che si dimentica per realizzare l'altro, suscitando una nuova vocazione e una nuova identità: quella della bontà, del disinteressamento e della gratuità.

    Cosa vuol dire santificare il nome di Dio

    Santificare il nome di Dio vuol dire ri-conoscere (e, riconoscendolo, esserne grati e acconsentirlo) che, essendo Dio amore di alterità, il mondo delle cose e degli uomini si regge solo su questo principio e che, dove questo si occulta, l'umano stesso si degrada, producendosi al suo interno indifferenza e violenza. Solo la «santificazione del nome di Dio», cioè il riconoscimento recettivo e attivo del suo amore di alterità, promuove nel mondo la crescita dell'umano e istituisce la vera fraternità: non quella biologica e neppure quella sentimentale bensì quella etica o dei responsabili.
    Santificare il nome di Dio vuol dire instaurare con l'altro - ogni altro - una relazione di amore che è oltre la «comprensione» (prenderlo e portarlo entro il proprio mondo) e oltre la totalizzazione (percepirlo e leggerlo come parte di un organismo naturale o istituzionale in cui la sua singolarità si annulla): una relazione di amore che, come quello di Dio, è pura grazia, gratuità e disinteressamento.
    Nella storia lacerata dalla sofferenza e dalla violenza, il nome di Dio viene «santificato» ogni qualvolta l'io, come il samaritano della parabola lucana, si dimentica di sé e si china sull'alterità dell'altro. Gesto paradossale ed evento o miracolo che ridona la vita all'altro ed apre la «vita eterna» a chi lo pone.

    «VENGA IL TUO REGNO»

    Secondo la comune testimonianza sinottica, Gesù riassume tutta la sua predicazione nell'annuncio del «regno di Dio» o, secondo la leggera variante matteana, «dei cieli»: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 'Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo'» (Mc 1,14; cf Mt 4,12-17; Lc 4, 14-15). .
    L'espressione «regno« di Dio significa, in primo luogo, la «regalità di Dio», il fatto cioè che egli è «re», come non si stanca di ripetere l'Antico Testamento e come esprime continuamente tutta la liturgia ebraica in cui si proclama: «Benedetto sei Tu, Signore, Dio nostro re dell'universo».

    Una duplice regalità

    L'affermazione di Dio «re dell'universo» coincide con la sua regalità universale: «re» non solo di un popolo o di alcuni popoli ma di ogni cosa.
    Entro questa affermazione di regalità universale, i testi biblici definiscono con nitidezza due figure di regalità che, pur profondamente correlate, non sono, però, riconducibili ad unità: la prima relativa al mondo (regalità cosmologica), l'altra agli uomini (regalità antropologica). Una tale distinzione, che nelle concezioni organiche è ininfluente essendo l'antropologico assorbito (o ri-assorbito) nel cosmologico, nella tradizione ebraico-cristiana acquista una rilevanza sostanziale, essendo l'antropologico non dentro il cosmologico ma suo momento costitutivo, secondo la logica dell'alleanza che fa dell'uomo non una parte del mondo ma il partner di fronte a Dio di tutto il mondo.
    La regalità cosmologica - l'affermazione di Dio «re del mondo» - istituisce la radicale alterità e impossibile appropriabilità delle cose e coincide con l'esperienza stessa della creazione. Questa, per la bibbia, non consiste nel fatto che il mondo dipende causalmente da Dio, quanto nel fatto che l'uomo non può disporne perché appartenente a Dio. Per l'uomo biblico l'esperienza della creazione è di carattere etico - il divieto di disporne - e solo a partire da questa esperienza etica originaria la creazione è anche, secondariamente e limitatamente, «produzione».
    La regalità antropologica - l'affermazione di Dio «re dell'uomo» - istituisce invece il rapporto unico e peculiare tra Dio e l'uomo. Quest'ultimo non si definisce più in base alle sue appartenenze (di razza, di popolo, di cultura, di ideologia o di religione) bensì per la relazione d'amore instaurata da Dio con il suo gesto di amore gratuito e sorprendente: «Il Signore disse: 'Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido... Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso...'» (Es 3,7-8).

    La regalità e l'istituzione del Senso

    La proclamazione della regalità di Dio sulle cose, tradotta concettualmente, coincide con l'affermazione dell'esistenza del Senso: non il senso soggettivo che l'io e l'insieme degli io (le culture) producono, bensì il senso oggettivo anteriore all'io e vincolante l'io.
    Affermare la regalità di Dio sul mondo è affermare che in esso, allo stesso modo di una parola scritta o parlata, si sedimenta un'intenzionalità che l'uomo non può né ignorare né cancellare.
    Certo, si può sempre utilizzare un quadro o una poesia contro l'intenzionalità in essi iscritta (per farne un supporto o accenderci il camino), ma ciò a prezzo di una duplice violenza che cancella l'autore e si ritorce contro il fruitore. Il peccato, per la bibbia, è la situazione di alienazione nella quale versa il mondo a causa della cancellazione che della sua intenzionalità opera l'uomo vanificandone il senso.
    Ma la regalità divina, oltre ad affermare la presenza del senso oggettivo, precisa anche in che cosa esso consiste: nella dimensione di dono che inabita le cosa e le fa essere: dono non in senso metaforico-naturale ma reale-personale. L'affermazione della regalità divina è l'affermazione del mondo come dono che Dio offre all'uomo per amore e che attende di essere accolto nella riconoscenza.

    La regalità instaura la dignità e la responsabilità

    Scoprirsi amati è la nuova autocomprensione che la regalità divina dischiude al soggetto umano: autocomprensione stra-ordinaria se si pensa che, ad esempio, nella concezione platonica o aristotelica, Dio, se è oggetto di amore da parte dell'uomo, non può esserne a sua volta soggetto, potendo egli amare solo se stesso. Sono amato e, per questo, sono: è questa l'incomparabile dignità del soggetto umano che, libero dall'io, si scopre avvolto dallo sguardo d'amore del suo Dio.
    Ma il sapersi amato da Dio, lungi dal lasciare il soggetto umano nella recettività della fruizione, lo eleva alla indeclinabile responsabilità della bontà, della gratuità e del disinteressamento: «sono in quanto chiamato ad amare allo stesso modo con cui sono amato». Il significato radicale della regalità divina è nella transustanziazione dell'uomo da essere di bisogno, centrato sul proprio io, ad essere responsabile capace di bontà o santità come Dio.
    Invocando «venga il tuo regno», l'orante attesta la presenza del Senso come dono (regalità antropologica) e si impegna, nella fedeltà, a questo compito dal quale dipende la riuscita del reale.

    «SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ»

    La letteratura neotestamentaria legge il senso della vita di Gesù come rivelazione della volontà di Dio («Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato»: Gv 4,34; cf 5,30; 6,38; 7,16) e quello di ogni uomo come possibilità oggettiva di tornare a farla propria, grazie allo spazio dischiusosi in forza di lui, l'«inviato» del Padre.
    Ma parlare di «volontà» di Dio può essere ambiguo. In uno dei suoi più celebri libri Th. Merton scrive: «Troppo spesso il concetto corrente di 'volontà di Dio' intesa come forza arbitraria, impenetrabile, che s'impone con implacabile ostilità, spinge gli uomini a perdere la fede in un Dio che è per loro impossibile amare. Una simile interpretazione della volontà divina spinge la debolezza umana alla disperazione; e ci si domanda se non sia spesso l'espressione di una disperazione troppo intollerabile per essere ammessa coscientemente. Questi dettami 'arbitrari' di un Padre dispotico e insensibile sono più spesso semi d'odio che semi d'amore. Se tale è il nostro concetto della volontà di Dio, ci è preclusa ogni possibilità di perseguire l'oscuro e intimo mistero dell'incontro che ha luogo nella contemplazione» (Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1991, pp. 19-20).
    L'idea di un volere divino intrascendibile è il prodotto della proiezione dell'io infantile non ancora liberatosi dalle figure paterne e dal super-io, come vogliono Freud e, in genere, i maestri del sospetto? Oppure è la presa di coscienza del limite dell'esistenza che sapientemente la norma e la misura, come vuole la grande sapienza delle culture organiche? E se intrascendibile limite, in che cosa questo consiste?

    Il volere di Dio come libertà di amore

    Il pensiero greco è attraversato da una formula che, letteralmente, è arrivata, attraverso il mondo cristiano, fino a noi: se Dio vuole o se gli dèi vogliono. Qui il volere di Dio è inteso nel senso di «legge» o «principio» che struttura il reale - e non può non strutturarlo - e che compagina ed anima i vari aspetti del cosmo costituendoli in unità ed armonia. Esso, più che secondo un'attenzione rigorosa, va inteso pertanto metaforicamente, come la personificazione del dinamismo che organizza e muove il reale, come sinonimo di natura o di fortuna.
    Diverso è il concetto di volontà di Dio per la bibbia dove veicola non l'esperienza della necessità alla quale è giocoforza sottostare, ma quella di un Tu personale e originalissimo che si relaziona all'uomo nella libertà. Qui il volere divino non è né l'oggettivazione della legge naturale e neppure la traduzione mitica dell'armonia generale, ma il disvelarsi di una intenzionalità che è oltre ed altro rispetto ad ogni figura di totalità, e che dischiude un nuovo orizzonte che è quello della dialogicità: Dio come Parola che suscita l'uomo come interlocutore, per comunicargli la sua volontà.
    Si tratta di una volontà che è libertà di amore e che, altra dal mondo, si incarna in ogni cosa del mondo, come ha scritto Th. Merton in una celebre pagina: «È l'amore di Dio che mi scalda nel sole, è l'amore di Dio che mi manda la pioggia gelida. È l'amore di Dio che mi nutre del pane che mangio, ed è Dio che mi nutre anche con la fame e il digiuno. È l'amore di Dio che manda i giorni d'inverno quando ho freddo e sono ammalato, e l'estate torrida quando sono affaticato e ho gli abiti inzuppati di sudore: ma è Dio che respira su di me con il vento appena percettibile del fiume, con la brezza del bosco. Il suo amore allunga l'ombra del sicomoro sopra la mia testa e manda lungo i campi di grano l'acquaiolo con un secchio riempito alla sorgente, mentre i lavoratori riposano e i muli stanno sotto l'albero. È l'amore di Dio che mi parla negli uccelli e nelle acque dei ruscelli, ma anche oltre il clamore della città Dio mi parla nei suoi giudizi, e questi sono tutti semi mandati a me dalla sua volontà» (Semi di contemplazione, cit. p. 21).

    Il volere di Dio come vocazione all'amore

    L'amore di Dio come libertà d'amore che si incarna nel dono del mondo - la creazione - non è però la figura ultima e più alta del volere buono di Dio. Questo è veramente tale, per la bibbia, perché capace di suscitare nell'uomo la stessa libertà d'amore.
    Si racconta di un maestro di musica che amava a tal punto il suo pubblico che ad esso dedicava, con dedizione, il meglio delle sue ore estasiandolo con l'esecuzione di musiche bellissime. Ma un giorno - giorno indimenticabile - invece di continuare a suonare, decise che ognuno sarebbe stato lui stesso un grande suonatore. E così cominciò ad insegnare, invitando chi volesse, non ad ascoltarlo ma ad imitarlo per produrre, come lui, la sua stessa musica.
    Per la bibbia l'amore di Dio, più che come oggetto di fruizione - la musica da ascoltare - si esprime come vocazione dell'uomo ad amare - la musica da suonare. È questa la ragione per la quale Dio si rivela non nella natura ma nella Parola: non la Parola in quanto mediazione di idee bensì la Parola in quanto mediazione di un volere che si erge di fronte all'uomo chiedendo - come il musicista della parabola sopracitata - docilità e obbedienza.

    Una parabola

    «Disse R. Johanan: 'Perché l'uomo fu creato a immagine di Dio?'. È come un re che regnava sul paese e costruiva palazzi e miglioramenti per la città, e tutti gli abitanti della città servivano sotto di lui. Un giorno chiamò tutti gli abitanti della città e pose su di essi un ministro. Disse: 'Fino ad ora mi affaticavo in tutte le necessità della città e per fare torri e palazzi; d'ora in poi, ecco, questi è come me'. E allo stesso modo disse: 'Guarda, ho comandato a tutta la città e a quelli che sono in essa: come governavo su di essa e la costruivo secondo ogni mio desiderio, così tu la costruirai e farai l'opera del mondo. D'ora in poi tutto è consegnato nella tua mano e tutti serviranno sotto di te e temeranno te come hanno temuto me...'. Per questo a immagine di Dio lo creò: perché facesse tutto ciò che è necessario per il mondo e i suoi miglioramenti, come egli aveva fatto all'inizio» (G.P. Tasini, a cura di, Il midrash, Città Nuova, Roma 1988, p.104).
    Pregando «sia fatta la tua volontà» l'orante si impegna, di fronte a Dio, ad essere nel mondo la sua «immagine» e la sua «somiglianza», cioè il suo «rap-presentante» e il suo «luogo-tenente»: volendo il suo stesso volere e amando con il suo stesso amore.

    «COME IN CIELO COSÌ IN TERRA»

    Per la bibbia l'amore divino - volere la felicità dell'uomo colmandone il bisogno - passa attraverso la responsabilità dell'altro che, con la sua signoria, Dio trasforma da essere di bisogno a essere responsabile. Ma se questo è vero, l'amore di Dio nella storia si espone al rischio della fallibilità e dell'impotenza. È così che, paradossalmente, «la volontà di Dio» iscritta nei cieli - considerata cioè in se stessa, perché «i cieli» rappresentano Dio stesso - può realizzarsi ma pure fallire, a seconda della adesione o meno del volere umano al volere divino.
    Di qui l'invocazione perché la «volontà di Dio» sia fatta «come in cielo così in terra», perché il suo disegno di amore, nato dall'amore e orientato all'amore, trionfi effettivamente e si realizzi storicamente.
    Pregare perché la volontà di Dio si realizzi «come in cielo così in terra» non è, per il credente biblico, un'invocazione tautologica dove, come avviene nelle preghiere alle divinità pagane, il «celeste» e il «terrestre» sono le due facce dell'unica, eterna e immodificabile realtà; per lui essi restano due realtà irriducibili e inomologabili, dove la prima, il celeste, è condizione della seconda, il terrestre, e dove questa non si configura con i tratti della necessità ma con quelli dell'evento e della possibilità. Nell'orizzonte del Dio biblico, la storia e il terrestre non sono né un prolungamento del celeste, come nelle visioni naturalistiche, né una negazione, come in quelle dualistiche, gnostiche o apocalittiche, ma una «porta» dalla quale il divino, cioè l'escatologico, può passare o restare bloccato.

    Fede storica

    Nell'ambito degli studi biblici è comune l'affermazione che la fede biblica, a differenza delle altre religioni definite come naturalistiche, è storica e che il popolo di Israele ha avuto del tempo una concezione non ciclica, legata ai ritmi del mondo naturale, ma lineare, iscritta entro il movimento del divenire. Ma cosa vuol dire in realtà il carattere «storico» della fede biblica?
    Lo storico ebreo Y. Yerushalmi, a proposito della storia dell'ebraismo, scrive che questa consiste in una nuova «rivoluzionaria intuizione e intelligenza del divino»: «All'improvviso l'incontro cruciale fra l'uomo e Dio si trasferiva, per così dire, dal piano della natura e del cosmo a quello della storia, concepita ora in termini di intervento divino e di risposta umana. Il conflitto pagano degli dèi con le forze del caos e degli dèi fra di loro lasciava il posto a un dramma di ordine diverso, segnato da una maggiore conflittualità: la lotta paradossale fra la volontà divina di un creatore onnipotente e il libero arbitrio della sua creatura» (Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche, Parma 1983, p. 10).
    L'intuizione «rivoluzionaria» della bibbia è, sì, la storia, ma la storia intesa non come la successione e concatenazione degli accadimenti di cui gli uomini sono in parte soggetto e in parte oggetto, bensì come l'incontro e il dialogo tra Dio e l'uomo, tra la proposta d'amore dell'uomo e la libera risposta dell'altro.

    Dio ha bisogno dell'uomo

    «Una domanda dobbiamo continuamente porci: che cosa è mai l'uomo perché Dio debba aver cura di lui? E la risposta, che dobbiamo sempre ricordare, è che l'attenzione di Dio per l'uomo costituisce appunto la grandezza dell'uomo. Essere significa rappresentare e l'uomo rappresenta appunto il grande mistero di essere il suo compagno. Dio ha bisogno dell'uomo» (A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo, Borla, Torino 1969, p.445).
    E un altro grande maestro di Israele ha scritto: «L'ebraismo insegna che, come l'uomo ha bisogno di Dio, così Dio ha bisogno dell'uomo per la realizzazione del suo disegno... Dio ha bisogno dell'uomo come co-partner nella costruzione del suo regno sulla terra» (W. B. Silverman).
    Che Dio «abbia bisogno dell'uomo» è un'affermazione totalmente estranea al pensiero occidentale e, nella ipotesi più benevola, viene assunta come un'espressione pia o retorica, sprovvista di ogni spessore teoretico e filosofico. Ma se si vuole penetrare realmente nella logica del Dio biblico bisogna assumere fino in fondo questa affermazione e coglierne, al di là della sua formulazione paradossale, il dono di senso che in essa si cela.

    Potenza e impotenza di Dio

    Se Dio ha bisogno dell'uomo e questi gli è necessario, ne consegue che egli stesso è limitato e non può essere più definito con la categoria classica dell'«onnipotenza»: «Che il potere dell'uomo sia limitato risulta evidente dalla sua condizione creaturale, mentre l'idea della limitazione del potere di Dio mette in causa la concezione banale dell'onnipotenza divina, accettata superficialmente quasi da tutti gli uomini credenti. Ora Dio, lungi dall'essere 'l'onnipotente' come vuole il linguaggio superficiale e comune, è l'Essere che accetta di limitare il suo potere» (A. Neher).
    Per quanto paradossale, l'impotenza di Dio è «l'impotenza della forza» - nelle sue inesauribili figure che vanno dalla natura, all'energia, alla bellezza, alla spontaneità, all'armonia, ecc. -, ed è la faccia nascosta della sua potenza d'amore come amore di alterità che, invece di fare dell'altro il prolungamento della propria identità, lo costituisce come suprema e irriducibile alterità, capace di indipendenza, di autonomia e di libertà nei confronti della sua stessa assoluta realtà. La potenza di Dio e la sua «onnipotenza» non consistono, per la bibbia, nell'autoespandersi facendo del mondo la sua epifania, bensì nel ritirarsene per fare spazio all'uomo e alla sua storia. La vera potenza di Dio è la potenza della bontà con cui egli, per così dire, si autodestituisce perché possa fiorire l'alterità dell'altro, ed è la potenza della sofferenza e della compassione con cui egli, per primo, si assume, come un padre, la sofferenza dei figli che gli si ribellano.
    Rifacendosi alla tradizione chassidica Buber ha scritto che «amare» - amare di quell'amore che è l'amore di alterità - «è portare la sofferenza dell'altro». Pregando Dio che la sua volontà sia fatta «come in cielo così in terra», l'orante si consegna alla potenza di questo amore perché trasformi anche il suo in bontà e compassione.

    «DACCI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO»

    Nella preghiera del Padre nostro, dopo aver proclamato Dio come padre, averne santificato il nome, riconosciuto la regalità e accettato di compierne la volontà, l'orante, trasferendo lo sguardo da Dio all'uomo, essere di bisogno, chiede ed invoca: «dacci il nostro pane quotidiano».
    Che senso può avere chiedere a Dio il «pane quotidiano», se questo, come ci insegna l'esperienza, mai è caduto direttamente dall'alto e l'uomo, per procurarselo, da sempre, ha dovuto guadagnarselo con il «sudore della fronte» e il dolore? E non è la storia umana, come ci ha ricordato con forza Sartre, «una lotta accanita contro la penuria», segnata endemicamente dall'insufficienza delle risorse e dalla violenza per possederle e dominarle?

    L'utopia del pane condiviso

    Eppure, per la bibbia, la richiesta a Dio del «pane quotidiano» non è un'espressione mitica, poetica o ingenua, ma la rivelazione stessa del segreto del mondo riuscito o dell'utopia: la gratuità personale.
    Chiedere, infatti, a Dio «il pane quotidiano» non è aspettarselo da lui, magicamente o irresponsabilmente, né ridire, in linguaggio teologico, la legge fondamentale dell'antropologico, secondo l'interpretazione alla Feuerbach, ma coglierlo in una dimensione che non è né la casualità né la necessità ma la gratuità personale di Dio che lo dona per amore.
    Quando nel capitolo 16 dell'Esodo - al quale la richiesta del pane inserita nella preghiera del «Padre» sembra rimandare - si parla della manna caduta dal cielo con la quale Dio nutre il suo popolo nel deserto, giorno dopo giorno, vietandone l'accumulo, il significato teologico nel brano non è di rimandare ad un pane diverso da quello ordinario ma dischiudere il significato del «pane quotidiano» come «pane donato».
    Il significato della richiesta del pane si doppia, però, di un significato ancora più radicale, che consiste nell'assunzione della gratuità divina da oggetto a principio. Chiedere a Dio il pane quotidiano vuol dire, allora, non soltanto riconoscere che esso proviene da una fonte personale, ma disporsi a ridonarlo con la stessa logica. Secondo il bel gioco di parole reso possibile dal tedesco, qui più che altrove vale il detto di S. R. Hirsch che ogni Gabe (dono) è Aufgabe (dovere).
    Pregando «dà a noi oggi il nostro pane quotidiano», l'«a noi», oltre che di destinazione - l'uomo il termine della gratuità divina - ha, quindi, valore soprattutto di mediazione: l'uomo come «canale» attraverso il quale la gratuità divina entra nella storia; non l'uomo in quanto «natura» e neppure in quanto «ragione», ma in quanto responsabilità donante, secondo la logica dell'alleanza.
    È qui, per la bibbia, lo svelamento dell'unico principio capace di istituire il mondo buono e di realizzare veramente l'utopia. Questa non è la sovrabbondanza dei beni in quanto tali e neppure la potenza tecnologica capace di prolungare all'infinito le possibilità umane, ma la reciprocità della bontà che misura sia l'una che l'altra secondo verità. Non senza significato alcuni esegeti amano notare che «quotidiano» potrebbe anche essere tradotto con «necessario»: quel tanto che è giusto e che risponde, né più né meno, al bisogno di tutti. Per la bibbia la sola possibile utopia in grado di farsi topia, è l'utopia del necessario, oltre l'eccedenza e oltre la carenza; in una parola: l'utopia del pane condiviso, capace di sconfiggere la duplice ingiustizia sia della penuria che della sovrabbondanza.

    Il «miracolo» della moltiplicazione dei pani

    Una delle pagine più alte del Nuovo Testamento è il racconto della «moltiplicazione dei pani»: «Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: 'il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare'. Ma Gesù rispose: 'non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare'. Gli risposero: 'non abbiamo che cinque pani e due pesci!'. Ed egli disse: portatemeli qua'. E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunciò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini» (Mt 14, 14-21).
    Il senso di questo racconto potente è nel disvelamento della logica creatrice e ricreatrice sottesa al «pane condiviso»: la logica del dono accolto e acconsentito. Questa non solo non lascia incolmati i bisogni dell'io, ma colma pienamente anche quelli di ogni altro; in essa e, grazie ad essa, il poco (i «cinque pani» e i «due pesci») si moltiplica a beneficio di tutti («tutti mangiarono e furono saziati»), fino a farsi sovrabbondanza ed eccedenza («e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati»).
    Per i discepoli Gesù è messia proprio perché ridischiude, nella storia, questa «logica della condivisione come potenza creatrice installata nel cuore della realtà ma bloccata dalla libertà umana che le si nega» (A. Rizzi, in Utopia e distopia, a cura di A. Colombo, Angeli, Milano 1987, p. 256) e la moltiplicazione dei pani, lungi dall'essere una figura retorica, è lo svelamento dell'essere ontologico del mondo secondo l'intenzionalità creatrice della gratuità accolta e ridonata.
    L'utopia biblica si realizza ogni qualvolta questa intenzionalità, riscoperta ed assunta, torna ad essere il principio quotidiano dell'agire.
    Pregando «dacci oggi il nostro pane quotidiano» è a questa intenzionalità che l'orante si consegna, riattivando nel mondo, attraverso l'evento della sua libertà e della sua responsabilità, il miracolo della creazione.

    «RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI»

    All'invocazione per il pane («dacci oggi il nostro pane quotidiano»), l'orante fa seguire quella per la remissione dei peccati: rimetti a noi i nostri debiti (la bibbia interconfessionale traduce: perdona le nostre offese). Stando al testo greco originale si dovrebbe tradurre: non farci pagare ciò che ti dobbiamo. Nell'edizione lucana invece di «debiti» si parla di «peccati», per cui il senso dell'invocazione è di chiedere a Dio la remissione dei peccati. E poiché il peccato ha, per la bibbia, una duplice faccia, una teologica riguardante Dio (il peccato come colpa) e l'altra antropologica, riguardante l'uomo (il peccato come pena o sofferenza), l'invocazione può significare sia l'una che l'altra; per cui essa può essere interpretata sia perdona le nostre colpe che condona le nostre pene. Questa richiesta del perdono è così importante che essa, in pratica, occupa l'intera seconda parte del «Padre nostro». Infatti anche le successive due richieste «non ci indurre in tentazione» e «liberaci dal male») più che nuove invocazioni sono da considerare come ulteriori esplicitazioni o frutti del perdono.
    Nella logica del «Padre nostro» il perdono è più importante della stessa richiesta del pane non perché si sostituisce a quest'ultimo, bensì perché, senza il «perdono» che ricostituisce il soggetto, il «pane», come un corpo senza vita, non può essere più fruito. Chiedere a Dio il perdono non è chiedergli un di più, altro e oltre il «pane», ma la possibilità - perduta a causa del peccato - di poter tornare a fruire secondo l'intenzionalità creatrice del dono e della condivisione.
    In altri termini, la richiesta del perdono chiede a Dio la ricostituzione del soggetto «giusto» o «buono», capace di dono e di condivisione, al cui interno il mondo fiorisce come eden, al di fuori del quale, invece, diventa, come ci testimonia la quotidiana esperienza, motivo di scontro e di violenza.

    Il perdono come terzo sguardo

    Di fronte al reale sono possibili due «visioni» o «sguardi» - rintracciabili, fenomenologicamente, un po' dentro tutte le culture - antitetiche ma speculari: la visione della sua positività e quella della sua negatività, l'una sottesa dalla convinzione di «fede», cioè ultimamente non dimostrabile, che esso, in una prospettiva a lungo termine e globale, si costruisce intorno ad un principio positivo e portatore di senso, l'altra sottesa dall'uguale convinzione che esso non ha alcun senso, essendo in balia delle forze del caos.
    Il reale come positivo da fruire o il reale come negativo da fuggire: questi i due possibili orizzonti entro cui collocarsi. Ma sono veramente i due unici e possibili orizzonti?
    Affermare il perdono come principio è trascendere questi due orizzonti per dischiuderne un altro dove il reale viene colto e vissuto né come positivo - non essendo fattualmente tale - né come negativo - non essendo ultimamente tale - ma come positivo da ricreare o come negativo da superare. L'uomo di fronte al reale è come un passante di fronte a piccoli pezzi di sassi. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di un insieme bello e ordinato, altri di un ammasso casuale di elementi disordinati, altri, infine, di pezzi di un vecchio mosaico infranto in attesa che uno sguardo attento lo ricomponga con mano intelligente.
    Per il Nuovo Testamento l'atteggiamento antropologico radicale che coglie il reale nella sua verità non è né l'adesione ottimistica che lo vede come bontà (sia esso la bontà del cosmo, come nella Grecia, o quella del soggetto, come nell'ebraismo), né il rifiuto pessimistico che lo vede come negatività (sia quella della gnosi e dell'apocalittica come pure di tutte le visioni nichilistiche moderne negatrici del senso oggettivo), ma quel tertium che, oltre il positivo e oltre il negativo, parte da quest'ultimo per ricostituire il primo.

    Il perdono di Dio

    Il termine per eccellenza in cui la letteratura neotestamentaria oggettiva questa particolare visione del reale è il perdono, inteso come la capacità di porsi di fronte al mondo oltre la fruizione, non essendo ancora cosmo, e oltre la negazione, non essendo solo caos, per ricostituirlo secondo il disegno divino originario.
    La sostanza del messaggio neotestamentario è nell'annuncio di questo perdono, secondo la celebre espressione paolina che «la giustizia di Dio» si rivela nell'evangelo» (Rm 1,16-17): annuncio che il reale, come non è cosmo, perché segnato profondamente dal male oggettivo e soggettivo, così neppure è abbandonato al caos, perché su di esso si posa lo sguardo di Dio che, come non lo giustifica, neppure lo condanna, ma lo reintegra facendolo ri-nascere. Per il Nuovo Testamento il significato rivelatore dell'evento della croce è il dischiudersi del perdono di Dio come nuovo principio del reale, che non si contrappone e non rinnega il cosmo della Grecia e neppure la giustizia ebraica ma ricostituisce sia l'uno che l'altra.

    La potenza del perdono

    Tra i non pochi equivoci che avvolgono il discorso del perdono, quello di chi lo identifica con la passività e il lasciar correre è il più fuorviante. Si ricorderà, a proposito, come Nietzsche proprio nel perdono trovasse il punto vile e debole della tradizione cristiana, smentendo alla radice la volontà di potenza. Nella tradizione popolare l'equivoco si è tradotta nell'obiezione che se Dio perdona il peccatore sempre e dovunque, allora tanto vale continuare a peccare, ché nulla cambia realmente.
    In realtà il perdono, lungi dall'essere un atteggiamento remissivo che lascia le cose come stanno - il cattivo cattivo e l'ingiustizia ingiustizia - è l'unica potenza capace di trasformare il cuore violento e l'ingiustizia da esso generata. Esso non solo non lascia il peccatore come prima ma è l'unica forza in grado di ricostituirlo, aprendo una breccia nel suo cuore padronale e abbattendone il muro di isolamento e di violenza. Per questo, per la bibbia, il perdono di Dio, manifestatosi sommamente nella croce del messia, viene presentato come giudizio, cioè come rottura e come crisi del soggetto violento.
    Invocare da Dio il perdono è invocare ed accogliere questa forza che, con la potenza della sua impotenza, infrange il determinismo della violenza ricostituendo il soggetto edenico.

    «COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI»

    All'invocazione «rimetti a noi i nostri debiti» l'orante fa seguire una motivazione audace e sconvolgente: «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il motivo per cui egli chiede a Dio di perdonarlo è perché anche lui fa altrettanto nei confronti degli altri. Ma una affermazione come questa non suona blasfema oltre che incosciente? Come è possibile presentarsi al cospetto di Dio - quel Dio di fronte al quale il profeta Isaia confessava la sua radicale indegnità e «impurità» di labbra (Is 6,5) - proclamandogli la propria «fedeltà» e «giustizia» invece che la propria «infedeltà» e peccato? E non ha Paolo, nella leggera ai Romani, smascherato come illusoria qualsiasi «autogiustificazione» di fronte a Dio, sostenendo con forza che «tutti», giudei e greci, sono sotto il dominio del peccato» (cf Rm 3,9)?

    Dall'essere perdonati al perdonare

    La risposta a questo interrogativo viene da tutto il contesto neotestamentario, per il quale il perdono di Dio non è la risposta al perdono dell'uomo ma la condizione che lo dischiude. Il perdono dell'uomo, dal punto di vista teologico, non solo non è la causa del perdono di Dio ma il segno della sua irruzione e della sua presenza. Chi, infatti, è stato incontrato dal Dio perdonante è chiamato a sua volta a farsi lui stesso perdonante, rimettendo «i debiti», così come gli sono stati rimessi. È nel farsi perdonante dell'uomo che si trascrive e traspare il perdono ricreatore di Dio, per cui se c'è il primo è perché ci si è aperti al secondo. È per questa esperienza di perdono comunitaria e circolante che l'orante, mentre invoca il perdono di Dio («rimetti a noi i nostri debiti»), testimonia anche che, in forza di esso, anche lui è fatto capace di fare altrettanto («come noi li rimettiamo ai nostri debitori»).
    La pagina neotestamentaria più alta che coglie il legame esplicito tra l'evento del perdono divino e quello umano è la parabola di Matteo nota come «parabola del servo spietato» (18, 21-32), inserita entro un contesto volto a descrivere il comportamento ideale della comunità seguace del messia, e introdotto da un breve dialogo tra Pietro e Gesù: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: 'Signore, quante volte?'. E Gesù gli rispose: 'Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette'» (21-22).
    Le espressioni «sette volte» e «settanta volte sette» vogliono dire la stessa cosa, e ambedue, significano sempre. La domanda di Pietro è, quindi, retorica (egli sa che deve perdonare sempre, come Gesù gli conferma puntualmente) e, a livello di contenuto, più che alla quantificazione del perdono («quante volte devo perdonare»?) introduce alla sua spiegazione («perché è necessario perdonare sempre»?). È questo l'interrogativo al quale intende rispondere la parabola di Gesù che, lasciando apparentemente da parte la domanda di Pietro («Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello»?), risponde al perché bisogna perdonare sempre e dovunque. E la ragione per cui bisogna perdonare sempre è perché, per l'evangelo, Dio è un Dio perdonante che, costituendo l'uomo come perdonato, lo rende capace di farsi a sua volta perdonante. Per l'evangelo il perdono non è solo la categoria per eccellenza rivelativa del divino, ma anche quella rivelativa dell'umano, essendo l'uomo, contemporaneamente e indissolubilmente, il perdonato perdonante, colui che in tanto è perdonato da Dio in quanto reso capace di fare altrettanto.

    Cosa vuol dire perdonare

    Anche se spesso viene assimilato al condono o all'oblio, il perdono biblico non ha nulla a che fare né con l'uno né con l'altro: perché questo, in profondità, non riguarda né la pena dell'offensore (come nel condono) né la sofferenza dell'offeso (come nella dimenticanza), ma il modo con cui quest'ultimo guarda al primo.
    Se si volesse racchiudere in una frase come il cuore perdonante vede l'altro, si potrebbe dire: senza più il volto della esclusione e dell'inimicizia. Perdonare l'altro è superare la sua immagine come nemico, avversario o ostile, per coglierlo oltre l'orizzonte del suo essere «pro» o «contro».
    Si narra, in una leggenda chassidica, che «dei ladri si introdussero nella notte in casa di Rabbi Wolf e rubarono quello che venne loro sotto mano. Il rabbi li stette a guardare dalla sua camera e non li disturbò. Quando ebbero finito presero, insieme con altre suppellettili, un boccale in cui prima era stata portata a un malato la pozione della sera. Rabbi Wolf corse loro dietro: 'Buona gente', gridò, 'ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono. Ma fate attenzione, vi prego, a codesto boccale: vi è rimasto attaccato l'alito di un malato e potrebbe contagiarvi'. Da allora ogni sera prima di andare a letto diceva: 'Io regalo a tutti ciò che possiedo'. In quel modo, se fossero tornati dei ladri, voleva togliere loro ogni colpa" (Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, pp. 204-05).
    Per Rabbi Wolf il ladro (figura e metafora di ogni uomo vissuto come nemico) non è più tale: invece che malvagio, egli viene colto come buono («buona gente») e la sua azione, anche se indebita appropriazione e violenza, viene sottratta all'orizzonte della punibilità («ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono») e della colpa («in quel modo, se fossero tornati dei ladri, voleva togliere loro ogni colpa»).
    Ma il significato cruciale e paradossale della parabola è nel cogliere il principio in forza del quale Rabbi Wolf opera il superamento dell'inimicizia restituendo il ladro all'orizzonte della gratuità, oltre la colpevolezza e oltre la punibilità. Per Rabbi Wolf questa metamorfosi non avviene automaticamente o magicamente, ma attraverso il reale cambiamento del suo io. È questi che, modificandosi e recuperando, per così dire, la giusta «vista», si accorge, all'improvviso, che «il ladro» non c'è più e che, se prima era un nemico, era solo per una distorsione percettiva. Rivelandosi illusorio l'orizzonte del «ladro», si rivela pure illusorio, contemporaneamente e necessariamente, l'orizzonte della sua colpa e della sua punibilità («... se fossero tornati dei ladri voleva togliere loro ogni colpa») e se ne dischiude uno nuovo, quello originario, del dono e del gratuito: «Buona gente, gridò, ciò che avete trovato da me, consideratelo come mio dono».
    La parabola del Rabbi Wolf, lungi dall'essere un racconto utopico o ingenuo, è il dischiudersi, in linguaggio negativo, della possibilità del gratuito come possibilità oggettiva di spessore etico e metafisico; ed è soprattutto l'oggettivazione, sempre in chiave narrativa, della possibilità di una nuova nascita offerta all'io: un io che muore alla produzione dell'inimicizia e rinasce alla visione dell'amicizia.
    Per il Nuovo Testamento invocare da Dio il perdono («rimetti a noi i nostri debiti....») è operare questo tipo di morte e di rinascita.

    «E NON CI INDURRE IN TENTAZIONE MA LIBERACI DEL MALE»

    La preghiera del «Padre nostro» si conclude con una invocazione di fiducia e di speranza: «Ma liberaci dal male»; o, secondo un'altra probabile traduzione: «dal maligno», potendo significare il termine greco sia l'uno (male) che l'altro (maligno). Con questa invocazione l'orante esprime la certezza che il male, per quanto radicale, non appartiene all'ordine naturale e irreversibile ma a quello contingente e, per questo, superabile.
    A questa invocazione di fiducia se ne accompagna però un'altra che sembra contraddirla: «Non ci indurre in tentazione». Come è possibile pensare a Dio come a colui che «induce in tentazione»? Non è blasfema l'idea di un Dio «tentatore», se il «tentatore», nella bibbia, è il nemico di Dio, serpente o demonio che sia? E un Dio «tentatore» non contraddice l'affermazione di Dio che vince il male e il cui tratto costitutivo è il suo essere amore radicale?

    Il mistero della libertà

    Una prima chiarificazione viene da una traduzione più fedele all'originale greco (e, soprattutto, al suo supposto sfondo aramaico) che dovrebbe suonare diversamente: «Non lasciarci cedere alla tentazione», letteralmente: «non farci entrare», oppure «non introdurci» nella tentazione. Si tratterebbe così non di un Dio responsabile della «tentazione» bensì di un Dio chiamato in causa contro di essa. Lungi dall'essere «tentatore», Dio è colui che è invocato per vincerla.
    Ma la chiarificazione più dirimente può venire solo da una fenomenologia attenta al senso della tentazione biblica che nel racconto del serpente tentatore ha trovato la sua traduzione esemplare (Gn 3, 1ss). Se, stando al livello narrativo del testo, l'introduzione del male viene fatta risalire al serpente, una lettura attenta al dinamismo interno del racconto non tarda a scorgere, nel simbolismo dell'animale edenico, una finzione e funzione letteraria introdotta non per spiegare l'origine del male - essendo questo l'evento, imprevedibile e imprevisto, della libertà umana - ma per mostrare la reale, e non illusoria, possibilità che l'uomo ha di negarsi a Dio disarticolando il proprio volere dal suo: una possibilità non solo oggettiva ma anche oggettivamente «appetibile»: una possibilità, cioè, che in tanto emerge come tale nella coscienza umana in quanto percepita come «positiva», «bella» e «buona» («bello da vedersi» e «buono da mangiarsi»: cf Gn 3,6).
    Il significato del serpente biblico del racconto creazionale è di essere, pertanto, la traduzione simbolica e narrativa del fascino che la trasgressione del comandamento divino esercita sulla coscienza umana. Esso dice che negarsi a Dio non solo è possibile ma è desiderabile; o, ancora più precisamente, che in tanto è possibile in quanto è desiderabile, in quanto rientra nell'orizzonte della desiderabilità. Il serpente, nella logica del racconto, non è la personificazione di una forza malevola che viene da fuori e che è contro l'uomo, ma l'oggettivazione della radicale struttura ed altezza della libertà umana la quale, per essere veramente tale, non può non passare attraverso la suadente e persuasiva possibilità contraria. Senza tale possibilità l'uomo, invece che libero di fronte a Dio, ne potrebbe essere solo, come nell'eros platonico, irrimediabilmente sedotto e attratto, non diversamente da chi, di fronte a due donne, sceglierebbe, e non potrebbe non scegliere, la più bella.

    L'evento del male

    Ma Dio è Dio, per la bibbia, perché, lungi dal se-durre (portare a sé) l'uomo attraendolo con la forza dell'eros e del suo determinismo, lo costituisce così radicalmente altro da sé da poterglisi negare. La voce del serpente che si insinua entro le pieghe della coscienza umana è la personificazione di questa radicale alterità umana capace, nella sua libertà, di negarsi realmente e drammaticamente a Dio; ed è anche, contemporaneamente, la personificazione di questa radicale alterità che, di fatto, e non solo per principio, si è negata a Dio, introducendo nel mondo il male: «La dimensione in cui il problema del male può essere trattato in modo filosofico e sensato è quello della libertà umana. A differenza del male fisico e psichico... il male morale esiste soltanto dov'è libertà e quindi responsabilità. Questa tesi va contro tutti i tentativi volti a risolvere il problema del male appellandosi unicamente alle legalità obiettive, strutture, disposizioni, modi di comportamenti ereditati, condizioni ambientali e simili (...). L'eliminazione sostanziale della categoria del male, considerata come una categoria etica, in ultima analisi mette in moto un grandioso meccanismo di discolpa, che è antiumano, poiché nega la responsabilità e l'autodeterminazione, degradando l'uomo ad oggetto. Qualsiasi discussione sul fenomeno del male, se non intende eludere a priori il fenomeno stesso, dovrà quindi partire dal punto fisso della libertà» (W. Kasper).

    La vittoria sul male e la potenza di Dio

    Per il Nuovo Testamento la sostanza dell'evangelo è che, con la morte e la risurrezione di Gesù, il male è stato vinto e che i «principati» e le «potestà» (Rom 8,38; 1 Cor 15,24; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10.10) sono stati sconfitti, depotenziati e svuotati di ogni influsso reale e che l'uomo, come per incanto, non per forza endogena ma per un evento/dono proveniente da fuori, può sovrastarne la forza, «ridicolizzandoli» e riducendoli a fantasmi: «[Gesù] ne costituì Dodici che stessero con lui... perché avessero il potere di scacciare i demòni» (Mc 3,14; cf Mc 6,7 e passi paralleli).
    Il Nuovo Testamento è la narrazione di come, nella morte di Gesù e nel fallimento seguito ad essa, gli apostoli - e, sul fondamento degli apostoli, la comunità dei credenti - hanno sperimentato la potenza di Dio (cf Ef 1, 19) vittoriosa del male: vivendo un'esperienza, non autoprodotta ma evento e dono, nella quale quella morte e quel fallimento, invece di chiuderli nel cerchio inesorabile della di-sperazione e della inattività, ha dischiuso ad essi la possibilità di reagirvi con un «di più»: il «di più» della fiducia e dell'amore e così vincendo il male.
    Si tratta di un'esperienza che, come ogni esperienza, dischiude un'intelligenza prima e originaria che, per questo, non può essere fondata o provata, essendo fondamento e contenuto di ogni ulteriore intelligenza. L'unica prova - se di prova si vuol parlare - è la testimonianza di chi, in situazioni di male, risponde ad esso non con il male ma con il bene. Dove questo avviene, si rivela, per la bibbia, la potenza di Dio, come appello che istituisce l'uomo capace di vincere il male non con il male ma con il bene.
    Con la preghiera del «Padre nostro», l'orante invoca ed accoglie questa «potenza di Dio» che istituisce il soggetto umano capace di vincere il male con un di più bene: la potenza del perdono.

    «Padre nostro che sei nei cieli» (NPG 96-01-05)

    «Sia santificato il tuo nome» (NPG 96-02-05)

    «Venga il tuo regno» (NPG 96-03-05)

    «Sia fatta la tua volontà» (NPG 96-04-05)

    «Come in cielo così in terra» (NPG 96-05-05)

    «Dacci il nostro pane quotidiano» (NPG 96-06-05)

    «Rimetti a noi i nostri debiti» (NPG 96-07-05)

    «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (NPG 96-08-05)

    «E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male» (NPG 96-09-05)

     

     


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