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    Il contributo educativo

    della scuola cattolica, oggi,

    in una società complessa,

    secolarizzata, liquida, divisa

    Enrico dal Covolo

    Non è la complessità che ci fa paura.[1]
    In età moderna e contemporanea – dalle dichiarazioni illuministiche sulla ragione, fino alla demitizzazione del progresso – ci siamo finalmente persuasi che, in effetti, la realtà è complessa, e che la competenza umana è limitata, fallibile, benché sempre perfettibile.
    È questa una conquista della ragione: una conquista che arricchisce di plausibilità ulteriore il senso della Rivelazione, mentre impegna la ragione stessa in un cammino inesausto di ricerca.
    Sia ben chiaro: è una conquista che non ha nulla da spartire con il relativismo. Relativismo, infatti, non vuol dire che la ragione umana è limitata, bensì che qualunque posizione ha il medesimo valore di un’altra.
    Così la scelta del relativismo si pone in irrimediabile contrasto con la ricerca autentica della verità.
    Diversa è la visione della «liquidità», o della «modernità liquida», espressioni adottate con grande fortuna dal sociologo polacco Zygmunt Bauman (vivente, nato a Poznan nel 1925) per indicare che la società odierna è fragile e disunita.[2]
    Non ci sono regole forti; si sono indeboliti le comunità religiose e i partiti politici; tutti i rapporti – e non solo quelli di lavoro – sono precari, anche nella famiglia e nella coppia, mentre l'educazione svanisce, e prevale l'impulso immediato.
    Una «società liquida e divisa» è l’esito della statizzazione del diritto naturale, per cui i valori vengono sottoposti al voto e alle decisioni della maggioranza.

    1. Educazione e valori

    Ma i valori non sono disponibili alle decisioni della maggioranza: per questo stesso motivo, essi non sono affatto negoziabili.
    D’altra parte, senza valori condivisi e vissuti, non esiste una convivenza civile.
    Le religioni e la famiglia sono all’origine della convivenza civile: le religioni, perché fanno leva sulla coscienza delle persone, con il riferimento al Trascendente; e la famiglia, perché – fondata sull’amore degli sposi, maschio e femmina – porta con sé gli altri valori: dono, fedeltà, sincerità, lealtà, generosità, sacrificio, collaborazione, e così via. E questo non in forma teorica e astratta, ma nell’esistenza concreta e quotidiana.
    Senza la religione e senza l’amore di chi genera la vita, la convivenza umana non può esistere.
    Il concetto medesimo di persona è entrato nella cultura occidentale attraverso una religione, il cristianesimo, in riferimento alle «Persone divine», quali «relazioni sussistenti».[3]
    Le Persone divine sono tra loro in relazione: lo ha chiarito a sufficienza la bimillenaria riflessione teologica sulla Persona di Gesù Cristo, Uomo e Dio. In Lui vi è una sola Persona, e ci sono due nature: un solo centro responsabile, la Persona, oltre alle nature medesime. E tale Persona è relazione sussistente.[4]
    Allo stesso modo, la persona umana è relazione, è il punto dal quale scaturisce la responsabilità dinanzi ai valori. Lo ha riconosciuto anche Kant, quando affermava che la persona umana è sempre fine, mai mezzo: e ne ha ricavato il conseguente imperativo categorico.
    La persona è coscienza, interiorità.
    D’altra parte, la persona umana non crea se stessa, non è la fonte ultima della responsabilità e dei valori. La persona umana è creata a immagine e somiglianza di Dio.
    Purtroppo, quando – in qualunque modo – si distrugge il rapporto con le Persone divine, l’uomo non riesce più a trovare l’origine ultima della propria responsabilità e dei valori, che lo caratterizzano come persona. Si indeboliscono, fino a spezzarsi, le relazioni con le persone. L’uomo stesso si considera – sempre praticamente: ma, spesso, anche teoricamente – un assoluto, che può disporre della propria responsabilità senza limiti, senza essere più legato ai valori. A riprova di questo, è sufficiente percorrere la storia della legislazione matrimoniale dalla Rivoluzione Francese a oggi.
    Senza riferimento al Trascendente, la responsabilità non ha più un punto di riferimento né una sanzione, e la libertà diventa un assoluto senza freno.
    La persona umana, in quanto relazione, nasce e si sviluppa lungo tutta la vita all’interno di relazioni: l’amore generante è relazione, e prima ancora lo è l’Amore che crea la persona umana. Relazione significa responsabilità, libertà, valori. E la relazione è originariamente educativa, perché è destinata a far crescere le persone che vi sono coinvolte.
    Poiché nessuno di noi è perfetto e pienamente realizzato, ognuno ha un impegno costitutivo di crescere e di migliorare lungo tutto l’arco della vita; e se la persona umana è relazione, noi cresciamo e ci sviluppiamo all’interno di relazioni umane costruite su valori vissuti.
    Al termine degli Esercizi Spirituali in Vaticano, il 27 febbraio 2010, Benedetto XVI ha pronunciato una parola conclusiva su questo argomento: «L’uomo», ha detto il Papa, «non è perfetto in sé; l’uomo ha bisogno della relazione, è un essere in relazione. Non è il suo cogito che può cogitare tutta la realtà. Ha bisogno dell’ascolto, dell’ascolto dell’altro… Solo così conosce se stesso, solo così diviene se stesso».[5]
    Le relazioni sono necessarie per ogni persona umana: senza di esse non viviamo. La distruzione delle relazioni comporta la perdita dei valori (e viceversa).
    È solo all’interno di relazioni costruite su valori condivisi e vissuti che avviene la nostra realizzazione, attraverso una sussidiarietà che significa scambio continuo e sempre più allargato, in vista della felicità di ognuno: esiste uno scambio di realtà materiali, come esiste uno scambio di realtà spirituali.
    Dunque, le relazioni autenticamente umane sono fondate sui valori e vivono di essi. Questi valori sono garantiti dal diritto (che non è la legge). L’obbligo giuridico «viene a definirsi come giuridico soltanto se ridotto logicamente alla pretesa che gli corrisponde».[6] A questo punto – unicamente in questa situazione relazionale, costitutiva della persona umana – diventa un «tu devi».
    Si può rileggere e meditare in questa prospettiva l’ormai celebre Discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino del 22 settembre scorso. Ma già nel suo discorso ai partecipanti al Convegno di studio organizzato dal Pontificio Consiglio per i testi legislativi, in occasione del XXV anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico (25 gennaio 2008), il Papa ricordava un’espressione «davvero incisiva del beato Antonio Rosmini: “La persona umana è l’essenza del diritto” (A. Rosmini, Filosofia del diritto, Parte I, lib. I, cap. 3)».
    Bisogna riconoscere, in maniera coerente, che qualunque forma di comunità, di associazione o di organizzazione della convivenza è sussidiaria alla persona. La sussidiarietà è costitutiva della convivenza civile, perché permette alle persone di crescere attraverso un apporto reciproco, secondo le proprie competenze.
    Uscire da questo scambio significa allontanarsi dalla convivenza civile e da ogni realizzazione autentica della persona.
    In definitiva, tutte le forme di organizzazione della convivenza e della società civile sono in funzione della realizzazione dei diritti personali, e possono avere esiti positivi solo all’interno di un habitat di valori vissuti e sviluppati dalle famiglie e dalle religioni. Il principio di sussidiarietà intende garantire proprio questo, configurandosi come aiuto e sostegno, affinché non vi sia sovrapposizione né imposizione gerarchica o burocratica né, infine, dispotismo in nome della libertà.
    Quando, purtroppo, succede che le persone umane sono espropriate dei loro diritti, ne conseguono due situazioni ugualmente insostenibili: le relazioni umane sono distrutte, e la convivenza civile è paralizzata.
    Non c’è bisogno di rispolverare i catechismi della Rivoluzione Francese, per documentare come gli Stati, per mezzo della scuola, abbiano cercato il consenso dei sudditi. Basti ricordare quanto ha affermato con chiarezza Judith Krug nel 1986: «La questione riguarda quali valori vadano insegnati, quelli dei genitori o quelli dello Stato. Si combatte sempre per le menti dei bambini».[7]
    È documentato come moltissimi genitori si siano rifiutati di inviare i propri figli a quel tipo di scuole di Stato. Ciò è avvenuto non solamente in Francia nel 1792; precedentemente era accaduto in Prussia dopo il 1763, quando Federico II aveva imposto la scuola governativa obbligatoria per tutti; ed è accaduto pure nel nostro Risorgimento, benché questi fatti vengano per lo più occultati.

    2. La libertà di apprendimento

    Se vi sono attività, che devono restare costitutivamente libere, queste sono l’apprendimento e l’insegnamento.
    La persona umana ha l’obbligo morale di ricercare la verità liberamente, per libera convinzione interiore. La libertà di apprendimento è a fondamento di ogni convivenza civile. Limitarla o manipolarla significa sopprimere i valori.
    In sintesi, ricordo quanto affermava don Sturzo nel 1947: «La libertà in un paese è una e indivisibile. Non si meraviglino amici e avversari se io ripeto qui quel che in pubblico e in privato vado scrivendo e dicendo a tutti: finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gl’Italiani saranno liberi; essi saranno servi, servi dello Stato, del partito, delle organizzazioni private o pubbliche di ogni specie, perché il cittadino non ha respirato da bambino e da giovanetto e da giovane che l’aria di una scuola non libera, dove l’insegnante (vesta o no la divisa militare come ai tempi fascisti) è anche lui un salariato, servo dello Stato, che deve ubbidire alle leggi che sono annullate dai regolamenti, e ai regolamenti che vengono modificati dalle circolari, e alle circolari che sono sospese con lettere di autorità…, mentre pesa su di lui lo spettro della carriera che ad ogni passo è resa incerta da nuovi e improvvisi provvedimenti. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati alla nobile funzione di educatori, non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale».[8]
    In questo modo, don Sturzo ci ha indicato un programma.
    Approfondiamone alcune dimensioni.

    3. L’ambiente educativo di una scuola

    Anzitutto l’ambiente educativo della scuola è assicurato dalla presenza di studenti liberi, gioiosi, pieni di giovanile entusiasmo. Il punto di appoggio di simili ambienti sono le relazioni educative. Solamente all’interno di tali relazioni può avvenire la crescita delle persone.
    Il fondamento di ogni ambiente educativo è costituito dalle relazioni tra i docenti e gli studenti, e degli studenti tra di loro.
    La relazione docente-studente è educativa quando è finalizzata effettivamente alla realizzazione del giovane. Una relazione tra persone porta sempre allo sviluppo delle persone che interagiscono, quando si svolge all’interno di un habitat di valori che provengono dall’interiorità, dalla coscienza degli attori della relazione. Nel caso specifico di una relazione educativa, nel significato profondo del termine, l’habitat di valori è finalizzato appunto alla realizzazione del giovane.
    Evidentemente vi è un apporto di realizzazione anche per l’educatore. Tuttavia l’educatore è tale solo nella misura in cui accompagna il giovane nella sua realizzazione. Tale accompagnamento consiste nel discernere e nell’aiutare la vocazione del giovane.
    Dal punto di vista cristiano si tratta di una vocazione trascendente: è il piano della salvezza di Dio che si compie nel giovane, mentre l’educatore, accompagnando il giovane, realizza se stesso.
    In definitiva, l’educatore deve aiutare il giovane a scoprire le proprie attitudini, a individuare le sue aspirazioni, in vista della realizzazione di esse. Mai l’educatore deve imporre i propri schemi alla crescita del giovane. Quando il giovane scopre che l’educatore vuole il suo bene, gli corrisponde con impegno e amore, perché constata che l’educatore è al suo fianco per questo.
    Questa relazione, fondata non sui sentimenti, ma sull’amore umano e cristiano profondi, è una relazione effettivamente educativa, e sta alla base di un ambiente educativo come la scuola, se essa vuole definirsi cattolica.
    Don Bosco chiamava «amorevolezza» questa fondamentale relazione educativa.
    Anche le relazioni tra gli studenti devono essere costruite sul riconoscimento reciproco dei doni di Dio in ognuno di loro, nell’onorare tali doni, nell’amore, nella solidarietà, nell’aiuto reciproco.
    Bisogna avere il coraggio e l’energia di (far) uscire da comportamenti, che si configurano come espressioni di invidia, di superficialità, di uno scherzo che porta al misconoscimento dell’altro: il giovane educa il giovane.
    L’organizzazione dell’ambiente deve essere centrata su questa tipologia di relazioni, tenendo presente che quanto si dice dei giovani vale anche per il rapporto tra educatori. Essi devono stimarsi, collaborare, riunendosi pure spesso, per far emergere gli aspetti eventualmente negativi e positivi dell’andamento della scuola, per sviluppare questi e superare quelli.
    La scuola è ambiente educativo quando tutte le attività che si svolgono in essa sono così ordinate. Il docente è un vero educatore proprio quando cerca la realizzazione dei giovani secondo la loro vocazione; ed è educatore cristiano quando li guida a scoprire la vocazione per la quale Dio li ha voluti, come persone in relazione originaria con Lui, che li ha creati.

    4. I processi di insegnamento e di apprendimento

    Tra i vari ambienti educativi, una scuola ha di specifico che attiva processi di insegnamento e di apprendimento formali, che si inseriscono nella relazione educativa con un obiettivo fondamentale: la ricerca e la crescita nella verità. La relazione educativa avviene nella situazione didattica.
    Nello specifico della scuola, l’interazione tra le azioni di insegnamento e di apprendimento è volta alla ricerca della verità per la realizzazione delle persone che apprendono, e – non possiamo tralasciarlo – pure di coloro che insegnano: i maestri devono accompagnare i giovani verso un progetto personale di apprendimento, o – più ancora – verso un progetto di vita globale, all’insegna di un cammino incessante di miglioramento e di crescita.
    Una relazione educativa, così concepita, qualifica la scuola cattolica, e contribuisce allo sviluppo dei valori e della convivenza civile, oltre che al progresso dell’umanità.
    Ma questa relazione educativa deve essere promossa e sviluppata anche sul piano dei rapporti tra gli studenti. La formazione è anzitutto autoformazione. I protagonisti dell’educazione sono i formandi.
    Bisogna aiutarli a riconoscere i doni di Dio, che operano in loro; bisogna impegnarli nella promozione di essi; e occorre alimentare costantemente un clima di religioso stupore, di gratitudine sincera, di rispetto e di aiuto reciproco.
    Ma lo sviluppo della persona umana avviene sempre attraverso una dimensione conoscitiva e decisionale. Tutto ciò comporta un progressivo apprendimento, libero e responsabile.
    E vogliamo descriverlo logicamente: il processo conoscitivo umano parte da bisogni e attese, intuisce un problema, elabora una teoria esplicativa, controlla se questa teoria funziona, e giunge finalmente a intervenire sulla realtà: giunge così a rispondere ai bisogni e alle attese in una forma sempre limitata, fallibile e perfettibile.
    In ogni caso, la conoscenza umana non può essere ridotta a una dimensione teorica, astratta, poiché senza bisogni e attese concrete, anche materiali, non esistono conoscenze, e neppure si agisce.
    Non ci troviamo qui di fronte a una problematica meramente didattica, bensì epistemologica della conoscenza e dell’azione umana. Intervenendo sulla realtà per rispondere alle attese e ai bisogni, la persona umana conosce meglio quello che la sua intelligenza aveva elaborato: giunge a una conoscenza finalmente umana nel significato completo del termine, perché l’uomo non solamente interpreta la situazione nella quale interviene, ma, intervenendo, investe in essa il proprio capitale umano, tutto intero.
    Fermarsi alla mera dimensione astratta della conoscenza umana – o, viceversa, ridurre le nostre prestazioni a mera applicazione – significa non comprendere appieno il valore conoscitivo e imprenditoriale dell’azione umana. I rinforzi delle conoscenze, la mobilitazione globale di esse, le disposizioni migliori si raggiungono quando si agisce e si comprende fino in fondo il processo completo e il significato pieno di quanto si va facendo.
    Di conseguenza, i processi di insegnamento e di apprendimento devono trasformarsi in un vero e proprio apprendistato: si comincia dall’apprendistato dei valori, in continuità con l’educazione familiare e religiosa.
    Una simile visione dei processi di insegnamento e di apprendimento porta lo studente alla ricerca della propria realizzazione, e – contestualmente – della verità di quanto gli viene proposto dal docente.
    E la proposta del docente dev’essere fondata sull’unica motivazione, che risiede nel valore veritativo di quanto propone, per le motivazioni confermanti che sostengono quanto egli espone.
    Di fatto, la ricerca della verità supera sia lo studente che il docente.

    5. Il dialogo tra fede e cultura nei processi di insegnamento e di apprendimento

    Una dimensione specifica della scuola cattolica è il dialogo tra fede e cultura nell’insegnamento.
    Questo comporta una generosa ricerca della verità, ricerca sinceramente condivisa tra docenti e discenti.
    Tale ricerca poggia su una visione della realtà aperta alla Rivelazione; sviluppa la coscienza umana; educa ai valori e all’amore del prossimo, soprattutto del prossimo più bisognoso; illustra il significato autentico dell’amore coniugale e della generazione; conduce a famiglie che vivono di questi valori.
    Attraverso un progetto personale professionale l’allievo viene introdotto nella convivenza civile con un apporto imprenditoriale specifico (anzitutto, deve investire senza risparmi esistenziali il proprio capitale umano); e viene introdotto nella comunità ecclesiale, fino a spendersi in un generoso progetto personale di vita.

    6. La formazione dei docenti

    Punto cruciale per la realizzazione di quanto proposto è la formazione dei docenti al dialogo tra fede e cultura nell’insegnamento per competenze.
    La nuova normativa sulla formazione degli insegnanti non lascia alcuno spazio alle scuole paritarie e, soprattutto, cattoliche. Si compie quanto aveva già disposto Berlinguer con la legge n. 124/1999 (articolo 1), compresa la difficoltà grave persino di reperire docenti abilitati per le scuole cattoliche.
    Sull’argomento riporto quanto propone il Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica: «Da un punto di vista più specificamente tecnico-procedurale, non esistono, oggi, alternative ad una formazione iniziale uniforme dei futuri insegnanti del sistema nazionale di istruzione e di formazione. In questo contesto, l’apertura ad una formazione professionale indirizzata anche verso la docenza nella Scuola Cattolica dipende dalla sensibilità culturale delle stesse università, cui è oggi affidata gran parte della formazione iniziale dei docenti. Nei corsi di scienze della formazione si dovrebbe avere la sensibilità e la capacità di offrire agli studenti la possibilità di approfondire la conoscenza della pedagogia cristiana e di studiare, dal punto di vista giuridico, storico, pedagogico, didattico, la realtà della scuola paritaria e quindi di quella cattolica. In tale scenario, la formazione specifica dell’insegnante di scuola cattolica può avvenire solamente a livello di postlaurea magistrale, sia nell’anno di praticantato, sia attraverso l’istituzione di master o di corsi di specializzazione organizzati in regime di convenzione tra le università del territorio e le federazioni delle scuole cattoliche. Resta indubbio che la formazione iniziale (e in servizio) costituisce uno dei campi in cui bisognerà promuovere sinergie tra scuole cattoliche e reti di esse, associazioni professionali e dei genitori di ispirazione cristiana, e università. Un ruolo particolare in questa direzione potrà naturalmente essere rivendicato dalle università cattoliche e pontificie. È ragionevole attendersi che siano le stesse scuole cattoliche, riunite in associazione o comunque a rete, a stipulare accordi con università che possano garantire, per esempio collaborando con loro nei laboratori, nei tirocini, nell’allestimento degli ambienti educativi, la realizzazione di percorsi di formazione dei docenti centrati sui valori pedagogici e tecnicoprofessionali che le scuole cattoliche intendono adottare e disseminare sul territorio a servizio della crescita di ciascuno e di tutti» (Essere insegnanti di scuola cattolica, 28 gennaio 2008, 3. La formazione degli insegnanti delle scuole cattoliche).[9]
    La collaborazione tra Università Cattoliche ed Ecclesiastiche può permettere:
    - una collaborazione che attiva l’abilitazione dei docenti ai vari livelli, pur nei limiti del numero chiuso delle ammissioni e delle università accreditate in ogni regione;
    - una collaborazione per il Tirocinio Formativo Attivo con le scuole cattoliche accreditate presso l’Ufficio Scolastico regionale competente per territorio;
    - una collaborazione per la formazione continua dei docenti di scuole cattoliche, in accordo di rete con tali scuole.

    7. Una nuova organizzazione dell’attività scolastica

    Il punto di arrivo è il profilo del giovane al termine dei percorsi formativi. In linea con quanto è stato proposto, tale profilo è per competenze.
    I processi di insegnamento e di apprendimento devono concorrere alla realizzazione del profilo previsto.
    Per questo motivo è necessario strutturare il percorso in vista della realizzazione di questo profilo, cioè il Piano di Studi Personalizzato.
    Ciò comporta un’azione collegiale continua dei docenti del Consiglio di classe a vari livelli:
    - di progettazione del Piano di Studi Personalizzato, che evidenzi come i vari processi di insegnamento e di apprendimento effettivamente contribuiscono ad esso;
    - di realizzazione del Piano di Studi Personalizzato, con un controllo continuo in itinere;
    - di valutazione sia del Piano di Studi Personalizzato, che del processo formativo dei singoli studenti.
    Dall’impostazione proposta mi sembra che derivino almeno due conseguenze per una valutazione: - la considerazione del valore della prestazione;
    - e l’analisi del processo attivato.
    Il valore della prestazione consiste nell’adeguatezza dell’azione in rapporto al risultato, o nella razionalità dei mezzi impiegati rispetto al risultato. Il risultato può essere valutato indipendentemente da chi lo ha prodotto, e pure da terzi rispetto ai docenti interessati.
    In ogni caso, però, per giungere a una prestazione sono necessarie conoscenze e abilità che, nella scuola, sono legate a diverse discipline di insegnamento. Pertanto a una prestazione di un allievo (un qualunque testo scritto, una recita, la preparazione di una pagina web, un articolo da pubblicare…) sono interessati più docenti.
    Il valore come risultato rappresenta il punto di partenza.
    Tuttavia – successivamente e collegialmente – i docenti interessati dovranno chiedere all’allievo, che ha realizzato la prestazione, di esporre i processi che ha attivato, con la descrizione delle scelte operate, delle difficoltà incontrate. Ciò permetterà di evidenziare nel discente il controllo metacognitivo dei processi attivati, le finalità, la deontologia professionale, le conoscenze e le abilità che ha tatticamente messo in atto per giungere strategicamente alla realizzazione della prestazione.
    La descrizione dei processi attivati nella prestazione da parte del discente esige coerentemente una valutazione collegiale da parte dei docenti: ogni docente terrà presenti i requisiti della propria disciplina, come risultano conosciuti e abilmente gestiti dall’allievo.
    Come si può vedere, la didattica per competenze impone non solamente processi di insegnamento e di apprendimento coerenti, ma giunge a documentare che l’apprendimento è un vero e proprio apprendistato, se si vuole che l’apprendimento avvenga a livello umano. L’enfasi unilaterale sulla teoria o sulla prassi porta a diseducare, oltre che a perdere, tra l’altro, creatività e imprenditorialità.
    Umberto Pototschnig ricordava che l’istruzione «è un’attività che rimane individuata, non per il contenuto concreto dei singoli momenti che la compongono (com’è invece per l’“insegnamento”), ma per il risultato complessivo cui giunge e che volutamente si propone: quello di rendere “istruiti”… Non si ha “istruzione” se non con una pluralità di insegnamenti e se non quando essi sono coordinati tra loro e resi sistematici, così da rendere possibile quel risultato complessivo che, una volta raggiunto, supera e prescinde dai singoli insegnamenti e dalle persone che li hanno forniti, per entrare a far parte, come valore autonomo, della realtà personale del soggetto “istruito”».[10]
    E questo dovrebbe valere già per le modalità abituali di valutazione degli studenti sia al termine dell’anno che negli esami di Stato. In concreto, una persona non è istruita perché ha raggiunto in tutte le materie voti positivi e nemmeno per la media dei voti raggiunti (che sono sempre misurazioni quantitative e, di conseguenza, indicative). L’istruzione è qualche cosa che supera i singoli insegnamenti. Tale prospettiva non può più essere elusa nell’insegnamento per competenze e in una valutazione conseguente, come abbiamo indicato.
    Partendo dalla situazione professionale attuale dei docenti, propongo questo percorso per giungere a una valutazione per competenze: dai requisiti agli indicatori; dagli indicatori alle competenze; infine, la valutazione delle prestazioni.
    Pertanto è necessario che nella programmazione annuale i Consigli di classe prevedano alcune prestazioni degli studenti, che verranno valutate collegialmente nel modo indicato.
    Se vogliamo valutare la realizzazione del profilo per competenze da parte degli studenti, dobbiamo giungere, di conseguenza, non solamente alla valutazione della perfezione e della qualità dei risultati raggiunti, ma anche alla deontologia professionale documentata dagli studenti nella realizzazione delle loro prestazioni, compresa la comunicazione, e la loro imprenditorialità, cioè come hanno investito il loro capitale umano.
    Mi sembra che questo modo di valutare possa promuovere efficacemente una visione umana integrale, concretamente cristiana, dell’attività docente.

    8. Sintesi e conclusione

    Si tratta di partire dalla situazione attuale, valorizzando tutte le competenze dei docenti.
    Ma bisogna che sia chiara davanti a noi la direzione di marcia, verso la quale avanzare progettualmente, con un impegno qualificato ad ogni livello.
    La scuola cattolica oggi può (e deve) dare questi contributi:
    - educare ai valori; . promuovere la libertà di apprendimento;
    - realizzare un ambiente educativo scolastico adeguato alla realizzazione dei giovani, a
    cui concorrono alcune relazioni fondamentali: il rapporto docenti-studenti e il rapporto tra gli studenti);
    - sviluppare processi di insegnamento e di apprendimento nel dialogo tra fede e cultura;
    - curare professionalmente una nuova formazione dei docenti;
    - promuovere una nuova organizzazione dell’attività scolastica, in maniera coerente a un apprendimento-apprendistato.
    Questo rinnovamento colloca al centro le persone, in una visione che trova il suo fondamento ultimo nell’adesione di fede alla Rivelazione.
    Solo a partire da essa la scuola cattolica troverà la sua autentica ispirazione, l’organizzazione, le metodologie educative, le finalità e i processi di continuo miglioramento per la realizzazione dei giovani.

    (Assemblea Nazionale FIDAE, Roma, 2 dicembre 2011)


    NOTE

    [1] Cfr. Roberto Bonino, Educazione e complessità sociale, in Evangelizzazione e educazione, LAS, Roma 2011, pp. 93-118. Questo volume, pubblicato ora dai Docenti della Sezione di Torino della Facoltà Teologica dell’Università Pontificia Salesiana, rappresenta nel suo complesso il miglior approfondimento del tema che mi è stato chiesto di trattare. Segnalo in particolare il contributo di Rossano Sala, La presenza della Chiesa nell’ambito educativo: la scuola, ibidem, pp. 153-169
    [2] Vedi per esempio Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2011.
    [3] Vedi sul tema le varie pubblicazioni di Andrea Milano, a partire da Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Edizioni Dehoniane, Napoli 1984
    [4] Si può rileggere, al riguardo, Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969 (più volte riedito), soprattutto le pp. 138-141.
    [5] La citazione è tratta dalla quarta di copertina di Enrico dal Covolo, In ascolto dell’altro. “Lezioni” di Dio e della Chiesa sulla vocazione sacerdotale, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010.
    [6] Bruno Leoni, Il diritto come pretesa, Liberilibri, Macerata 2004, p. 52.
    [7] Cfr. “Education Week”, 6 novembre 1986
    [8] Luigi Sturzo, Scritti storico-politici (1926-1949), in Opera omnia, terza serie, Edizioni Cinque Lune, Roma 1984, 5, pp. 213-223.
    [9] Cfr. www.chiesacattolica.it
    [10] Cfr. Insegnamento Istruzione Scuola, in Umberto Pototschnig, Scritti scelti, CEDAM, Padova 1999, pp. 711-712. L’autore spiega come ciò si arguisca da «esplicite norme di diritto positivo».


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